La sbornia delle Valley: quando la cornice conta più della foto

Se dico Valley i primi riferimenti che vengono in mente sono Silicon Valley e Napa Valley. Esatto, non vengono in mente praticamente mai altre Valley. Eppure sembra che in Italia, negli ultimi dieci anni, ci sia stato il boom delle Valley: Wellness Valley, Fitness Valley, Food Valley, Motor Valley. La mia ricerca a un certo […]

Se dico Valley i primi riferimenti che vengono in mente sono Silicon Valley e Napa Valley. Esatto, non vengono in mente praticamente mai altre Valley. Eppure sembra che in Italia, negli ultimi dieci anni, ci sia stato il boom delle Valley: Wellness Valley, Fitness Valley, Food Valley, Motor Valley.

La mia ricerca a un certo punto si è fermata davanti alla constatazione che è più la parola (spesso, ma non sempre e in tutti i casi) a essere di moda rispetto al contenuto progettuale riferito a queste “vallate”. In pratica la parola Valley, nella più rosea delle ipotesi, ha sostituito la parola “distretto”, che indicava la particolare concentrazione di industrie o realtà produttive di vario genere in un determinato settore merceologico o di servizio, rispetto a un’area geografica.

Essere un “distretto” aveva il suo fascino, ma anche un significato pratico volto a specificare l’eccellenza produttiva territoriale e le competenze che si erano sviluppate non solo sul trattamento delle materie prime, ma sull’expertise delle risorse umane impegnate nei processi produttivi. Per cui se volevi un jeans fatto a regola d’arte negli anni Ottanta lo facevi a Urbania e dintorni, dove c’era il “distretto del jeans”.

Ora voi mi direte: va be’, distretto, Valley, che importanza ha? Visto che l’inglese di fatto ha permeato la lingua italiana possiamo anche permetterci di essere un po’ più cool, trend, chic, fashion. E invece direi che la differenza c’è, ed è sostanziale.

 

Valley e turismo: solo un gioco di parole?

Se il termine “distretto” era riferito alla geografia produttiva, il termine Valley ha assunto in Italia anche un altro significato. Indicherebbe piuttosto un percorso, o meglio, il racconto di un percorso turistico che dovrebbe avere valore per creare incoming. Insomma: un turista negli anni Ottanta andava a Urbania per visitare la residenza estiva del Duca di Montefeltro, e non certo per il distretto del jeans che era invece meta per i buyer e i brand.

Il passaggio linguistico è stato di fatto accompagnato da un’intenzione più che manifesta di alcune progettualità di raggruppare sotto un unico cappello la motivazione di scelta del consumatore rispetto a certi territori in cui passare le vacanze. Non più il mare o la montagna, ma la “Valley di”. Ma questi progetti, che vorrebbero essere una proposta di percorso sia per le aziende coinvolte che per i turisti, hanno davvero una struttura strategica consistente? In altre parole: sono uno specchietto per le allodole o veri brand territoriali?

Sicuramente non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, e faremo una distinzione, visto che mi sono presa la briga di andare a ficcanasare online e offline sulla “sostanza” di questi percorsi. Sulla base di ciò che ho scovato posso dire di aver notato alcune cose interessanti, che vi riporto di seguito.

 

Alcuni esempi di Valley in Emilia-Romagna

La Motor Valley si dimostra attiva, ben organizzata e sicuramente degna di essere un brand, con 4 autodromi, 7 case produttrici che hanno portato l’Italia nel mondo (vi dicono niente Ferrari, Ducati, Maserati?), 11 musei e ben 188 team sportivi. Ma la cosa che mi piace di più in assoluto è l’aggiornamento costante dei canali di comunicazione. Sì, c’è un sito ufficiale, e sì, ha articoli aggiornati a febbraio 2019. L’immagine esiste e il territorio (via Emilia) è ben presidiato.

La Food Valley si sostanzia nelle realtà produttive che hanno come focus Parma e dintorni. Diciamo che al momento il riconoscimento di una “vallata” è stato piuttosto naturale per i percorsi di gusto e di prodotti, che sono di fatto eccellenze – su questo non si discute. Si è costituita una ATI di agenzie che fanno incoming, la regione Emilia-Romagna sta battendo una strada di promozione all’estero, il progetto FICO ha sicuramente segnato una bandierina sulla geografia del gusto, ma i touchpoint digitali come sito e piattaforme social sono davvero lontani dal rendere giustizia al progetto di branding che immagino sia obiettivo della regione. Le informazioni sono piuttosto diluite, e ufficialmente il sito foodvalley.com è del Pastificio Ravelli. La cosa mi fa pensare: se volessi fare un giro nella Food Valley mi converrebbe comprare la Lonely Planet sull’Emilia-Romagna, con tanti cari saluti alla user experience digitale, giusto? Tuttavia va preso atto che la Food Valley non difetta di “movimento dal basso”. Ovvero: qui i piccoli e grandi produttori si muovono, si organizzano e fanno proposte, quindi servirebbe solo una parte più corale e strutturata di comunicazione per riuscire a trasmettere il senso di una sovrastruttura strategica e poter dialogare meglio con il consumatore.

Se ci spostiamo verso la Wellness Valley troviamo invece una “iniziativa che vuole fare della Romagna il primo distretto internazionale di competenze nel benessere e nella qualità della vita delle persone partendo dalla valorizzazione del patrimonio umano, sociale, storico, artistico, naturale ed enogastronomico del territorio”, come recita il sito. L’intuizione di Nerio Alessandri, owner di Technogym, di lanciare nel 2002 un distretto del benessere che potesse favorire la cultura del movimento e della buona qualità della vita si è concretizzata nella creazione di una Wellness Foundation che ha organizzato 40 best practices legate alla salute sul territorio romagnolo negli ultimi dieci anni. L’intenzione a mio parere non è scorretta, ma come succede di frequente la parte di branding qui manca pesantemente nella relazione comunicativa con il consumatore finale.

Se offline troviamo segnaletica stradale e pagine di giornale piuttosto datate, online il sito wellnessvalley.it è aggiornato al 2017, non offre informazioni approfondite, e la stessa fondazione promuove progetti per i quali il reperimento di informazioni è veramente complesso. Sorvolo volutamente la parte che riguarda l’immagine coordinata, e più in generale l’identità visiva del progetto. Se provo a prenotare un’esperienza come turista sul sito consigliato il percorso non è guidato: mi trovo davanti una sorta di Booking depotenziato dove la user experience è piuttosto scarna. Le news e le attività non sono aggiornate, e c’è un altro fatto che mi lascia perplessa di fronte all’evidenza, come un gatto davanti ai fari al tungsteno di una berlina: la Romagna è la terra del fitness che parte dal basso. È la terra delle squadre di Padel (quando ancora era uno sport di nicchia), delle Spartan Race, di piccoli imprenditori che dall’oggi al domani trasformano sale, campi e palestre prima che si possa dire SPARTA per intero. Un progetto di “valley” che voglia essere contemporaneo dovrebbe includere il coinvolgimento di questi pionieri della tendenza sportiva che si muovono sul territorio e creano le basi per la socializzazione del concetto di Wellness.

Non è dato sapere se questa azione sia stata intrapresa, ma di sicuro non ne trovo traccia online, il che equivale a tagliare fuori una fetta di pubblico piuttosto notevole (parliamo del 90% delle persone digitalizzate, quel 90% che cerca su Google “dove andare in vacanza”).

 

Ma credo che la situazione peggiore in assoluto sia quella relativa alla Fitness Valley. Planiamo appena sul discorso che, se c’è in un territorio prossimo un progetto che si chiama Wellness Valley, eviterei come la peste di aprirne un altro che si chiama Fitness Valley. Se non altro perché dopo mi toccherebbe aprire mille pagine di disambiguazione su Wikipedia. Ma va be’. Parafrasando dal latino in modo maccheronico, nomen non olet, evidentemente.

La Fitness Valley indica un territorio che si estende lungo il corso medio-alto del fiume Sillaro e collega l’Emilia-Romagna con la Toscana. Mentre faccio ricerca il sangue mi si gela nelle vene, anche se la primavera è straordinariamente in anticipo quest’anno: digito Fitness Valley e compare un profluvio di articoli. Spunta anche l’indirizzo di un sito ufficiale: fitnessvalley.it. Ci clicco con un misto di suspence e sconforto istintivo e trovo un redirect a una struttura privata.

 

Scopro così che (cito le testuali parole di un articolo comparso su affaritaliani.it il 5 giugno 2018):

L’iniziativa, che raccoglie venti imprese private, è nata dal Prof. Antonio Monti, fondatore e direttore scientifico del Villaggio della Salute Più di Monterenzio, titolare del Gruppo Mare Termale Bolognese (Terme San Petronio, Terme San Luca, Terme Felsinee, Terme Acquabios, Terme dell’Agriturismo). Proprio il Direttore Generale del Villaggio della Salute Più, Graziano Prantoni, durante la presentazione, ha spiegato che l’obiettivo del progetto è quello di creare “un brand turistico da promuovere a livello metropolitano e regionale, ma anche internazionale”.

Intendiamoci: non trovo niente di male nel fatto che le imprese si organizzino in distretti o partnership per offrire servizi, prodotti o percorsi. Quello che trovo sconvolgente e inammissibile e che questo tipo di progetti si concretizzino prima in un ventaglio di articoli su giornali che in una struttura pronta a dare servizi al consumatore, o anche solo a riceverlo online come si deve, a cominciare proprio dai touchpoint base come i siti web e gli infopoint pubblici e istituzionali. Quello che esce fuori, in particolare riferito alla Fitness Valley è una buona pubblicità all’unica struttura ricettiva già organizzata per l’incoming prima che il progetto venisse lanciato.

 

Valley, nell’etimo

Permettetemi ora una digressione che serve a spiegare bene quella famosa parola: Valley. Tenetela per un attimo ferma nella mente mentre viaggiamo nella brand theory.

Se volessimo definire il progetto Valley diremmo che stiamo parlando di metabrand. In modo molto semplificato, si tratta di un brand che esiste solo virtualmente, come concetto valoriale, a garanzia di tutto ciò che contiene a livello di significati, valori, immaginari riconosciuti e condivisi. E lo diciamo in modo semplificato, perché la regola vorrebbe che il metabrand non fosse necessariamente rappresentato da prodotti, ma da veri e propri concept. Negli anni questo concetto è mutato insieme al mercato stesso, quindi esistono esempi di metabrand che costituiscono vere e proprie reti produttive e di stakholders e metabrand, che si concentrano sui valori e che sono una sorta di proprietà intellettuale e culturale di tutti, diffusa e riconosciuta. Un esempio piuttosto noto è l’abusato Made in Italy: più che essere ancorato a una dimensione produttiva specifica, il Made in Italy ha rappresentato un vero metabrand, un cappello sotto il quale ricondurre un’intera cultura creativa e produttiva italiana. Un marchio, passatemi il termine, liberato, senza una proprietà intellettuale univoca. Il marchio di tutti gli italiani, anche all’estero!

Alla faccia del “made” nella sua accezione di “fatto”, la pasta Barilla fatta negli USA è Made in Italy nella rappresentazione dei valori italiani, per intenderci, pasta scotta inclusa.

La condizione essenziale per la creazione di un metabrand diventa dunque il riconoscimento di valori differenzianti condivisi, la cui proprietà è una sorta di bene comune e trascende la parte materiale del brand.

Costruire un metabrand è senz’altro più complicato che costruire un brand, perché richiede una condivisione e una base di riconoscimento dei valori molto ampia. Sempre per semplificare e non scrivere un trattato, diremo che le cose fondamentali sono:

  1. la consistenza della promessa di valore che il metabrand rivolge ai suoi interlocutori (siano essi parte della rete che lo costituisce, siano essi parte del pubblico che ne può ricevere beneficio);
  2. l’esperienza che offre il metabrand a livello comunicativo, relazionale, produttivo.

Tolgo subito di mezzo un dubbio che potrebbe sorgere: raccontare che esiste un metabrand significa contribuire a creare un metabrand? In altre parole: se pubblico comunicati stampa a profusione annunciando a tutti che esiste la Napa Valley ed è molto bella, allora la Napa Valley diventa un metabrand? La risposta è no.

 

Che cos’è davvero una Valley

Nel “viaggio” che ho compiuto in questi giorni, un po’ alla Indiana Jones, mi è toccato spesso muovermi tra cunicoli digitali per riuscire a reperire informazioni, e la mia esperienza di utente è stata alcune volte escludente e deludente. Una cosa fra tutti mi ha turbata: la mancanza di interpretazione corretta del termine Valley.

Perché, come dicevo all’inizio e come ho sottolineato parlando di metabrand, la condivisione e la relazione su tutti i livelli tra brand e stakeholders deve essere alla base del riconoscimento del metabrand. Se solo le aziende si mettono insieme per “moltiplicare gli affari”, ma le istituzioni ne prendono parte in modo non costante o addirittura “popup”, e se il consumatore o il piccolo produttore non sono inclusi in modo corale nel progetto, allora tanto vale tornare a parlare di distretto.

La Valley nasce dal basso. Sono quei ragazzi nei garage che sarebbero poi diventati la Silicon Valley. Sono quelle risorse e competenze che non facevano operazioni di notorietà, ma semplicemente risolvevano i problemi di tutti i giorni, quelli loro e dei vicini di casa.

Sono quelli che fanno un buon prosciutto come lo hanno visto fare ai nonni e che sanno che solo il padreterno lo può salare nel modo giusto (“padreterno” è il modo in cui nella Val di Chiana toscana si chiama chi sala il maiale). E tutti quei gestori di campi da tennis che appena hanno sentito dire Padel erano lì a studiare come sostituire uno dei campi da gioco perché sapevano che presto qualcuno lo avrebbe chiesto.

Gli attori sociali anticipano i cambiamenti e le innovazioni dei modelli economici: di questo dobbiamo prendere atto cercando di comprendere come sia possibile conversare e relazionarsi tenendo sempre a mente il ritratto del nostro interlocutore.

Vogliamo cambiare una parola? Cambiamo il fatto che è sotteso alla parola. Dire Valley nel 2019 vuol dire coinvolgimento, consistenza, definizione dei bisogni e delle attività volte a colmarli. Vuol dire comunicazione di presidio, ma anche user experience, dove gli “user” sono aziende, territori, istituzioni, consumatori profilati, turisti.

Non mi stancherò mai di ripeterlo: avete un’idea geniale? Prima di raccontarla ai giornalisti non dovete prepararvi a parlare, ma dovete prepararvi a ricevere, esattamente come fa un buon ospite.

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