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Nel blu (jeans) dipinto di verde
Ormai lo sappiamo e non abbiamo più scuse: ogni nostro gesto e ogni nostro acquisito ha una sua impronta ecologica. Anche il semplice paio di jeans costa all’ambiente più di quello che potremmo pensare, calcolato in media come 9.000 litri d’acqua e 15 vasche di tintura per produrne uno solo se consideriamo l’intero ciclo di […]
Ormai lo sappiamo e non abbiamo più scuse: ogni nostro gesto e ogni nostro acquisito ha una sua impronta ecologica. Anche il semplice paio di jeans costa all’ambiente più di quello che potremmo pensare, calcolato in media come 9.000 litri d’acqua e 15 vasche di tintura per produrne uno solo se consideriamo l’intero ciclo di vita del prodotto, già dalla coltivazione del cotone. Al pensiero, già ci vanno un po’ più stretti.
Associare i valori della sostenibilità al settore tessile non vuol dire soltanto attingere a tessuti naturali o a nuove tinture a base di zolfo liquido concentrato e additivi attivati con lo zucchero, considerate le ultime frontiere.
La sostenibilità della filiera è uno dei tasselli più strategici e meno considerati quando si parla di ambiente.
Un caso interessante arriva dal Bangladesh, dove M&J Group inizia la sua produzione di abbigliamento nel 1989: con i suoi sette stabilimenti oggi immette sul mercato soltanto jeans (pantaloni in denim) pari a 8 milioni di capi all’anno che, stando alla produzione annunciata, addirittura raddoppieranno nel 2016. Gli attuali mercati di riferimento si muovono tra Europa, Cina, Giappone, Usa e Australia e i clienti principali sono Celio, Big Star, C&A, Versace Jeans, Banana Republik, H&M, Jack & Jones.
Il fiore all’occhiello sta però nel fatto che l’azienda conta 8000 dipendenti più uno, dove quell’uno é l’unico italiano. Fabio Adami Dalla Val cura da tre anni tutta la parte R&D del brand e tutto il marketing per l’Europa. Vive tra Dacca e Verona e quando parla di questo lavoro si diverte a definirlo una delocalizzazione al contrario.
“Da sempre l’azienda crede nella sostenibilità in tutte le sue componenti quindi non solo ecologiche ma anche etiche ed economiche e lo fa più coi fatti che con le parole. Siamo stati riconosciuti come prima azienda del settore ad aver implementato un sistema evoluto “Start to Measure” in grado, appunto, di misurare i consumi nella produzione del jeans e produrre dati certi e certificabili”. In pratica, per la prima volta le aziende potranno scegliere di avere dati reali sui consumi di produzione (acqua, elettricità, gas, prodotti chimici, ore uomo), definire standard e pianificare un effettivo miglioramento con M&J che, tra l’altro, ha ovviamente anche aderito a ZDHC 2020 (Zero Discharge of Hazardous Chemicals), il programma con cui i leader mondiali dell’industria di settore si impegnano a ridurre l’utilizzo della chimica pericolosa e a pubblicare una volta all’anno, dal 2013 al 2020, tutti i risultati in progress.
“Nel 2013 abbiamo lanciato la campagna “It’s Time to Be true” perché era tempo di dire come stanno le cose anche in questo settore e di valutare chi e come produce, indipendentemente dal dove. Genesis Washing, un’azienda del nostro gruppo che si occupa del finissaggio, é ad esempio la prima lavanderia al mondo ad essere certificata Leed Platinum e questo risponde alla filosofia di una filiera seria che ispira il nostro lavoro”.
Sono proprio della settimana scorsa i dati ufficiali Icea (Istituto per la Certificazione etica e ambientale, uno dei maggiori in Europa) che tentano di offrire un focus sulla sostenibilità delle reti produttive nel settore tessile, con particolare attenzione alle produzioni da agricoltura biologica: 2.068 nel mondo, di cui un centinaio certificate in Italia per produzione, confezione, etichettatura, esportazione, importazione e distribuzione di prodotto.
A far riflettere è il dato sulla concentrazione di queste aziende nel mondo. L’India è in testa alla classifica con 640 imprese, staccando le 279 della Turchia e le 220 della Germania. L’Europa arriva seconda in questa classifica, dopo un’Asia che riesce a piazzare ben il 50% delle imprese tessili biologiche certificate nel mondo.
“Per il nostro gruppo, l’Italia rimane un punto di riferimento importante per il denim. Quasi tutti i nostri macchinari sono made in Italy così come molti prodotti chimici e alcuni tessuti, generalmente i migliori. I partner italiani sono i più dinamici per ricerca e innovazione oltre che per creatività ma l’esperienza professionale che sto vivendo mi ha portato a dimostrare come vadano a volte ribaltate certe opinioni che spesso circolano in Italia sulla arretratezza dei sistemi produttivi in alcuni paesi asiatici, Bangladesh compreso. Lo scorso anno, alcuni nostri fornitori italiani, riconoscendo la serietà del nostro sistema, ci hanno invitato ad aderire al progetto “Dna Italian” ma anche noi, proprio per promuovere gli alti valori della sostenibilità e della qualità, abbiamo coinvolto due dei leader mondiali nella produzione di tessuto denim (ITV Denim e Calik Denim) alla prima edizione di HUB 25, progetto creato per avvicinare i brand ai valori sostenibili di una filiera produttiva”.
Prima di offrire pregiudizi, varrebbe la pena conoscere meglio le dinamiche dei mercati lontani dove i grandi brand, anche per abbattere i costi ma senza rinunciare affatto alla qualità, stanno investendo nell’innovazione dei macchinari e nei processi di misurazione. La sostenibilità viaggia su tanti binari.
E da noi? Il manifatturiero italiano registra un’anzianità media dei macchinari più che raddoppiata: dai nove anni del 1992 ai diciannove del 2013 (dati Mediobanca). E se ci aggiungiamo che il ciclo di vita delle tecnologie si è ridotto in maniera drastica negli ultimi vent’anni, sembra facile intuire come la sostenibilità produttiva parli molte lingue ma l’italiano, purtroppo, non sembra ancora tra queste.
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