Come (non) cambiano i rider

Chi sono i rider, oggi? Un identikit aggiornato secondo gli ultimi dati disponibili di una delle categorie più discusse degli ultimi anni: sempre più stranieri, sempre meno giovani, e il 40% dichiara di aver avuto almeno un incidente nell’ultimo anno. Intervistiamo il professor Paolo Natale e il ricercatore Luca Boniardi dell’Università Statale di Milano

Un rider straniero al lavoro, in bici

Questo articolo fa parte del reportage Gioventù Sfruttata, che verrà pubblicato nel corso delle prossime settimane su SenzaFiltro: realizzato da giovani giornaliste e giornalisti, fa il punto sullo sfruttamento dei professionisti che si affacciano in diversi settori del mondo del lavoro, dagli Ordini professionali alla gig economy, passando per i social media.

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di Anita Biratoni

 

 

Presentata come un’opportunità di lavoro autonoma e autogestibile, la professione del rider viene di solito associata – a torto – a quella di un fattorino. È un lavoro che si basa sulla consegna di cibo a domicilio: un algoritmo assegna gli ordini ai lavoratori iscritti alla piattaforma di riferimento (Just Eat, Deliveroo, Glovo e diverse altre), e poi, in base alla loro velocità e alla loro costanza, li “premia” facendogli ricevere sempre più chiamate da locali differenti. I rider non si interfacciano con un datore di lavoro, ma con un’applicazione; lo stesso vale per gli occasionali colloqui conoscitivi, che vengono svolti online.

Il salario è sotto ogni aspettativa, in genere due euro a consegna più un euro a chilometro, come affermava Uber Eats nel 2019; oppure varia e viene comunicato bisettimanalmente, con una base fissa di due euro a consegna e l’aggiunta di 63 cent per ogni minuto di ritardo da parte del ristorante, come invece sostiene Glovo. Nel salario, però, non vengono incluse le spese necessarie a svolgere il lavoro, come la manutenzione della bici o dello scooter (di proprietà del lavoratore), eventuale benzina o pagamento del bollo, né, fino a qualche tempo fa, le spese assicurative.

Dal 2021, tuttavia, il Parlamento europeo ha elaborato una direttiva – approvata in via definitiva lo scorso 24 aprile – che impone ai Paesi dell’Unione di conformare questo tipo di lavoro al diritto nazionale e ai contratti collettivi. La principale novità è che i rider, per la prima volta in modo ufficiale, vengono inquadrati come lavoratori subordinati a tutti gli effetti; inoltre si vieta alle piattaforme di licenziare i dipendenti sulla base dei risultati elaborati dall’algoritmo, e si introducono più tutele per i dati personali dei lavoratori. Il risultato è stato un sisma nel mondo del food delivery che ha spinto aziende come Getir e Uber Eats a lasciare diversi Paesi UE. Italia inclusa.

Il 40% di 240 rider intervistato a Milano dichiara di aver avuto almeno un incidente durante il lavoro nel corso dell'ultimo anno. Di questi, l’89% dice di aver avuto delle conseguenze per la propria salute.

Ma chi sono, i rider, dietro le casacche colorate e gli zaini termici? Fino a qualche anno fa venivano presentati per lo più come studenti universitari o giovani lavoratori, di entrambi i generi, che svolgevano un lavoretto giusto per arrotondare; e non mancavano esempi di nicchia di “rider felici” che sceglievano le consegne come secondo lavoro (falsi eclatanti, come il caso del finto commercialista diventato fattorino). Immagini come queste, però, sono sempre più irrealistiche.

Perché la demografia dei rider è uno dei campi della battaglia ideologica su questa nuova categoria di lavoratori: chi sono, quanti anni hanno, da dove vengono, quanto lavorano. Insomma: chi erano ieri e chi sono oggi i rider, ad anni di distanza dalla loro comparsa? Ci sono stati dei cambiamenti, all’indomani dell’adozione della direttiva europea?

Sfruttatori e sfruttati “uniti nell’illegalità”. Ma i rider non sono studenti

Dare una risposta esaustiva a queste domande è impossibile: le uniche a poterle fornire sarebbero le piattaforme del food delivery, che si guardano bene dal farlo. Ne abbiamo contattate diverse, al momento di raccogliere materiale per la nostra ricerca, e non abbiamo ottenuto risposta da nessuna delle principali: né da Just Eat, né da Glovo, né da Deliveroo; né tantomeno dall’aggregatore Assodelivery.

Per vederci più chiaro bisogna ricorrere a ricerche realizzate da altre fonti. Una delle più recente è stata condotta nel 2018 e pubblicata nel 2019, anche vista la difficoltà nel raccogliere un simile tipo di dato: si tratta di uno studio condotto dai docenti Paolo Natale e Luciano Fasano, dell’Università Statale di Milano, in collaborazione con l’allora assessora alle Politiche del Lavoro del Comune milanese, Cristina Tajani. In quell’occasione i ricercatori hanno intervistatoface to face250 rider del capoluogo lombardo, raccogliendo una serie di osservazioni parecchio diverse dalla vulgata ufficiale diffusa dalle aziende del settore.

Per approfondire il tema abbiamo contattato uno degli autori della ricerca, Paolo Natale, professore presso il dipartimento di Scienze sociali e politiche della Statale di Milano. Il nostro colloquio comincia dalla difficoltà di interfacciarsi con le multinazionali del food delivery per parlare di dati.

“Non mi stupisce affatto”, commenta Natale. “Li abbiamo contattati più volte anche noi, ma a sentire loro non avevano mai tempo di risponderci. Ma una risposta parziale l’hanno ottenuta comunque i nostri studenti, intervistando i rider di persona”.

Ecco ciò che hanno trovato: si trattava soprattutto di stranieri (per il 60% extracomunitari; gli italiani erano una minoranza, al 34%) provenienti dal Nord Africa, dal Medio Oriente e dall’Africa Occidentale, molti dei quali con scarsa conoscenza della lingua italiana. La scolarizzazione oscillava tra l’equivalente della terza media e quello della quinta superiore, con percentuali più ridotte di studi superiori o, al contrario, assenti.

La maggior parte dei rider intervistati nel 2018 lavorava un totale di ore settimanali pari a oltre 50 o a poco meno; tutto questo a chiamata, senza distinzione tra giorni di lavoro e giorni festivi, ore notturne e straordinari, perché, come sottolinea il professor Natale, vigeva l’idea del “più lavori, più guadagni”. Spesso non gli veniva fatto nemmeno un contratto (solo il 25% ne aveva uno, nella metà dei casi a chiamata), e le aziende non fornivano nessuna attrezzatura. Quando c’era, però, si trattava di materiale scadente.

Cerchiamo quindi di capire quanto fosse reale la rappresentazione del rider studente, che Assodelivery e soci hanno spesso provato a usare come scudo: “Gli studenti – come gli italiani – erano una minoranza allora abbastanza significativa, adesso probabilmente ancora meno,” chiosa Natale.

Si può parlare di una variazione nella demografia dei rider, negli ultimi anni? “Sì”, risponde Natale: “Sono incrementati in maniera significativa i rider stranieri e quelli di una certa età; ci si avvicina a un’età media tra i 30 e i 32, mentre prima era tra i 20 e i 23”.

Secondo il professore, la direttiva europea che ha spinto alla fuga molte aziende di delivery non ha avuto un vero e proprio impatto su chi svolge il lavoro di consegna. Natale sostiene che il vero problema è che diversi rider sono ignari o incuranti dello sfruttamento che subiscono, e che dunque non vogliono sottostare alle direttive europee, essendo “più interessati a guadagnare. Una situazione che avvicina i rider moderni ai lavoratori della rivoluzione industriale, quando la gente lavorava nelle miniere o nel tessile più ore possibili per guadagnare un pochino di più”.

La direttiva UE potrebbe cambiare qualcosa, in questo senso? “Potrebbe,” risponde il professore, “se si ha la capacità di entrare nello specifico e controllare che il lavoro si regolarizzi davvero, perché è come se in diversi casi le due parti fossero unite nella lotta per l’illegalità”.

La situazione, secondo il docente, è risolvibile solo attraverso “una mano forte”, consapevoli di andare – per certi versi – contro gli “interessi” dei dipendenti.

Quasi un rider su due a Milano ha avuto incidenti nell’ultimo anno. E l’età media si alza

Una ricerca interessante, ma che risale a più di cinque anni fa. Per ottenere dati più recenti ci siamo rivolti a Luca Boniardi, ricercatore del dipartimento di Scienze cliniche e di comunità dell’Università degli Studi di Milano, che si occupa di Medicina del lavoro e di Tossicologia, anche in riferimento all’Occupational Health and Safety.

Boniardi e il suo gruppo di ricerca hanno condotto una rilevazione su 240 rider milanesi nel corso dell’ultimo anno; si tratta di un lavoro che ha mosso i primi passi da quello di Natale-Fasano e poi ha ampliato la casistica parlando di incidenti sul lavoro.

 

 

Ci parli della vostra ricerca e dei numeri con cui abbiamo a che fare.

Da ricercatore, torno a premettere che il nostro è un campione ancora ristretto, ma del resto sono gli unici dati disponibili, quindi è interessante discuterne. Il nostro è un exploratory survey, cioè un lavoro preliminare, ma siamo comunque riusciti ad andare sul campo e intervistare 240 rider presi a campione andando nei vari posti di ritrovo e cercando di carpire la loro attenzioni.

Si sa quanti sono in tutto, i rider?

Non si riesce a capire quanti rider ci sono in campo, definirlo è particolarmente difficile; le stime, tuttavia, indicano che siano 8.000 solo a Milano. Ed ecco che il tema della sicurezza sul lavoro – pensando anche alla tipologia di lavoro che svolgono – diventa centrale, tantopiù che la legge 128/2018 ha introdotto una serie di diritti per i rider – tra cui l’estensione della disciplina della sicurezza sul lavoro, il decreto legislativo 81/2008 – tramite i quali le piattaforme diventano responsabili della sicurezza dei rider indipendentemente dalla tipologia di contratto. La legge ha introdotto anche tutta la parte assicurativa, per cui dal 2020 le piattaforme hanno l’obbligo di denunciare all’INAIL i casi di infortunio sul lavoro dei rider con prognosi di almeno un giorno.

Che cosa avete riscontrato da questo faccia a faccia con il mondo dei rider?

Sottolineo che il nostro non è un campione rappresentativo dal punto di vista statistico, ma dà comunque indicazione di un sommerso importante. La domanda che abbiamo fatto era: hai avuto almeno un incidente nel corso dell’ultimo anno? La percentuale di risposte affermative era quasi del 40%, che è molto elevata; di questi l’89% diceva di aver avuto delle conseguenze per la propria salute. Il 40% di chi aveva avuto questi incidenti dichiarava inoltre di aver avuto la necessità di recarsi in ospedale; da lì, con una prognosi di almeno un giorno, questo flusso di informazioni dovrebbe arrivare a INAIL, sia dall’ospedale stesso che dal datore di lavoro. Però nella stessa INAIL non sono sicuri dei dati che hanno, che fanno vedere un fenomeno di certo sottostimato.

A che cosa è dovuta questa lacuna nei dati?

Questa ambiguità è dovuta anche al fatto che la disciplina è nuova, e gli stessi medici che prendono in cura il rider devono essere consapevoli di dover compilare una serie di documenti da inviare a INAIL con la casistica, e questo non viene sempre fatto. Poi, per esempio, nel momento in cui c’è un incidente, il poliziotto di turno ha un documento di riferimento in cui si chiede anche se la persona incidentata era in orario di lavoro; ma se in quel caso non si ha la sensibilità di capire che la persona incidentata sta lavorando per una piattaforma o meno, i dati che si ottengono alla fine sono inevitabilmente parziali.

Avete notato cambiamenti rilevanti, rispetto alla ricerca di Natale-Fasano del 2018-2019?

Non è cambiato moltissimo, dal 2018. Forse è cambiata solo la percentuale dei Paesi di origine, e oggi l’80% dei rider è composto da persone non italiane (nella ricerca precedente i non italiani erano circa il 60%, N.d.R.), non ben consapevoli dei loro diritti. Quindi tra loro si trova anche chi, dopo aver avuto un incidente, si rialza e cerca di completare la consegna per non avere ricadute negative con l’algoritmo.

Che cosa è cambiato, invece, nel loro lavoro?

Per certi versi, anche qui i rider sono rimasti quelli di allora. Siamo in una situazione di transizione; noi abbiamo notato che una delle multinazionali sta cominciando a mettere in campo soluzioni diverse, organizzando il lavoro in modo diverso. Parliamo di Just Eat, che sta impiegando una contrattualistica più standardizzata e turni di lavoro fatti anche sulla base delle esigenze dei rider, anche se non è tutto rose e fiori, abbiamo trovato sia feedback positivi che negativi. Tuttavia, pare un tentativo di andare in una direzione che istituzionalizzi una messa a regime diversa dei rider.

A proposito di orari di lavoro, che cosa avete trovato, in quel senso?

Noi chiedevamo “quanti giorni alla settimana e quante ore al giorno lavori?”. Abbiamo scoperto che il rischio di overworking – quindi di lavorare per più di otto ore al giorno, sette giorni su sette – è di almeno cinque volte più elevato per i rider che lavorano sotto i cosiddetti sistemi di free log in, perché non è normato, e i lavoratori tendono a essere sempre disponibili.

Un cottimo 4.0, in pratica.

Sì. È il sistema secondo cui, se sei disponibile, fai. È tutto demandato alla disponibilità del singolo rider, che però rischia di non avere i mezzi per valutare le ricadute sulla propria salute di un atteggiamento di questo genere. Ricadute che possono essere anche gravi.

Quali sono i dati demografici che avete rilevato?

Come già detto, c’è un lieve aumento della percentuale di persone non italiane; quelli che non avevano la cittadinanza erano il 76,7%, gli italiani erano solo il 16%; la componente più rappresentativa era quella asiatica, a differenza di quanto si era riscontrato nel 2018, dove invece era perlopiù africana. Abbiamo due spiegazioni per questo: gli anni precedenti hanno visto un aumento dell’afflusso migratorio dal Pakistan e dall’Afghanistan; e poi la percentuale africana è sottostimata, perché abbiamo trovato più ritrosia nel farsi intervistare, cosa motivata con ogni probabilità dalle varie retate degli ultimi anni. Poi il genere: i maschi erano il 99% del totale. Inoltre, l’età dei rider sta aumentando: la media era 30 anni, con una componente significativa di over 35, il 30%. La stragrande maggioranza aveva un mezzo di proprietà, e ormai si parla di mezzi di un certo tipo, che richiedono una certa spesa in denaro; parliamo quindi di un lavoro in cui investono, anche perché in media lo svolgevano da due-tre anni. La componente di studenti è limitata al 10-11%. Il 60% dei rider intervistati vive a Milano, il 25% vive nella provincia, mentre il 15% addirittura arriva da fuori la provincia milanese, con tutti gli aggravi del caso sul rapporto tra tempi di vita e tempi di lavoro. Alcuni di loro, per dire, rimangono a Milano e dormono all’addiaccio. Per quanto riguarda l’educazione, il 12% ha la laurea, il 40% ha un diploma di scuola superiore, tutto il resto meno; la componente poco scolarizzata è preponderante, con circa il 45%. Chi dichiara di conoscere bene l’italiano è il 30%, chi incomincia a masticarlo è un altro 30%, mentre il 40% afferma di fare fatica a comprenderlo.

La cosa che l’ha più colpita in assoluto, se dovesse indicarne una, a fronte della sua ricerca?

L’organizzazione del lavoro: le differenze tra un lavoro sotto un regime di free log in o una pianificazione più classica, a turni, con tutte le conseguenze sul rischio di overworking. Tra qualche anno ce lo ritroveremo davanti quando avremo masse di lavoratori con grosse problematiche, perché non pochi cominciano a segnalare problemi muscolo-scheletrici, alla schiena, alle spalle e così via. Sono tutte cose che ricadono sul sistema sanitario, sull’etica della nostra società. È un tema gigantesco, specie se si considera la mancanza di strumenti per comprendere i rischi di ricadute sulla propria salute.

 

 

 

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Photo credits: gowork.it

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