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Editoriale 113. Sentirsi giovani
Da alcuni mesi sto riprovando a leggere i “classici”, i libri che non mettono su le rughe nonostante il tempo, i titoli che ci assegnavano come compiti per le vacanze e che leggevamo senza capirci niente di cosa sarebbe stata la vita, che invece era già a grandi linee tratteggiata in quelle pagine per chi […]
Da alcuni mesi sto riprovando a leggere i “classici”, i libri che non mettono su le rughe nonostante il tempo, i titoli che ci assegnavano come compiti per le vacanze e che leggevamo senza capirci niente di cosa sarebbe stata la vita, che invece era già a grandi linee tratteggiata in quelle pagine per chi voleva buttare un occhio sul futuro.
Succede qualcosa di simile anche con le gite scolastiche, dove proviamo ad afferrare il tempo liberato dalle aule e dalle classi piuttosto che la bellezza o l’arte verso cui ci portano per qualche giorno, in giro per l’Italia o per il mondo; o gite in cui preferiamo rubare un bacio in fondo al pullman invece che ascoltare la spiegazione del monumento a fianco. Ma anche i baci sono forme d’arte a quell’età.
La sensazione infallibile, in quel preciso momento, è che da ragazzi non si stia perdendo niente. Fatalismo e istinto sono i muscoli migliori da ragazzi, proprio quelli che col tempo atrofizziamo. C’è un libro, che però non è un classico e che ho ripreso in mano da poco, uscito nel 2007 prima che lo ristampassero a gennaio 2019 numerando ben ventidue edizioni. Si chiama L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Feltrinelli, Serie Bianca), la firma è di Umberto Galimberti: figura divisiva, si sa, ma che sul tema dei giovani, della scuola e del futuro ha le idee molto chiare e la prima è quella di tenere lontani i genitori.
Non è un libro solo per giovani e, come tutti i libri dedicati a un genere o a una generazione, di fatto fa bene a tutti. Mi appassiona quando parla della “omologazione dell’intimo a cui tendono tutte le società conformiste che, davanti alla massima a ognuno il suo, la sostituiscono con a ognuno il mio, per cui ciascuno finisce per sentirsi proprietà comune e si comporta come se appartenesse a tutti. E, poiché sa che se non si comportasse così verrebbe considerato sconveniente e diventerebbe sospetto, lo fa anche con un certo ardore; con somma gioia di chi deve governare la società. Gli altri, che dovrebbero stare al confine esterno dell’intimo, diventano invece inevitabili”.
In altri passaggi parla della vergogna, spiega l’etimologia vereor gognam (temo la gogna, la mia esposizione pubblica) e rimarca che spesso non è di un fatto in sé che i giovani si vergognano, ma della sua pubblicizzazione, l’essere messi a nudo davanti agli altri, insomma il pudore che si fa più incalzante della colpa.
Se metto insieme questi due concetti, penso al mondo del lavoro visto da loro, penso a un misto tra la colpa di non riuscire a trovarlo o di non volerlo cercare fino in fondo e la vergogna di non averlo com’era successo invece a padri e madri. C’è una generazione nata all’alba del terzo millennio che sta come i funamboli tra la scuola e il lavoro, tra un’idea di istruzione vecchia quasi cent’anni che con loro non sa dove mettere le mani e un mercato – tra l’altro invaso da parole mal-educate come talento e competenze – che si incaglia sul presente perché non ha ancora capito a quale Italia di domani vuole rispondere.
Abbiamo buttato i giovani nei sondaggi e nelle statistiche qualche anno fa e non li abbiamo più tirati fuori. Forse questa è una generazione a cui non si riesce a invidiare fino in fondo la giovinezza che si portano addosso. Alle persone di una certa età e piene di spirito si dice che sono giovanili; loro stessi dicono spesso di sentirsi giovani. Essere giovani è un’altra cosa e non ha niente a che fare col sentirsi; i giovani non si sentono per definizione, si sentiranno dopo.
Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.
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