Editoriale 62. Lavoro e low cost

Lavorare costa e che nessuno lo neghi. Quando sento confondere le passioni col lavoro, penso a quanto sia subdola l’illusione che soffia sul collo all’onestà. Le passioni ci bruciano, fino a seccarci, se non usiamo buoni anticorrosivi: il migliore in assoluto si chiama senso di realtà. Alle passioni la colpa non ci sentiamo mai di […]

Lavorare costa e che nessuno lo neghi.

Quando sento confondere le passioni col lavoro, penso a quanto sia subdola l’illusione che soffia sul collo all’onestà.

Le passioni ci bruciano, fino a seccarci, se non usiamo buoni anticorrosivi: il migliore in assoluto si chiama senso di realtà. Alle passioni la colpa non ci sentiamo mai di dargliela a differenza di tanti altri mandanti. Davanti alla passione si abbassa la testa e persino il lavoro si vergogna di farsi pagare. Paradossi sempre più frequenti che abbiamo ereditato da mistificazioni profonde messe in circolo da una filiera troppo lunga. Una serie di modelli importati senza volerne capire logiche e densità, copiati per non rimpiangere di esser rimasti indietro sul mercato o, peggio, perché inermi di conoscenza e di ricerca davanti alla modernità che spingeva da dietro. Prima la globalizzazione, che ci è sempre e solo sembrata lontana, mai nostra, una sacca indefinita che prima o poi avrebbe risucchiato anche il nostro comfort e che quando ci è riuscita ci ha trovati talmente assuefatti all’idea da non renderci conto dell’effetto. Poi la crisi, una crisi di nervi ancor prima che di banche e di imprese, perché quando si dice che il lavoro ha un costo vuol dire anche un costo sulla pelle quando la pelle smette per sempre di tirare.

Lavorare dovrebbe servire a questo, a darci un senso di realtà: ne abbiamo bisogno tutti, chi il lavoro lo dà, chi il lavoro lo fa, chi il lavoro lo racconta.

La luna avrà pure due facce eppure il lavoro la batte col suo terzo lato di profondità che allunga lo sguardo e spetta di dovere a chi si è preso la briga di restituire a parole ciò che vede per mestiere. Parlo di giornalisti, narratori, poeti, scrittori, uomini e donne di penna e di pancia. È nella pancia, indiscutibilmente, che il lavoro batte più del cuore. Di pancia si mangia, si lotta, si spera, si cerca, purtroppo a volte si molla.

Il 23 e 24 marzo Senza Filtro si sposta a Bologna per la prima edizione di Nobìlita, il festival sulla cultura del lavoro nato appunto dalla sua pancia. La sentiamo tutta la responsabilità dell’affiancarle così, le due parole, a stridere più di qualsiasi gessetto alla lavagna.

Tutti a dire che manca il lavoro e un giornale si prende la briga di “parlare d’aria”?

Eppure senza aria non si vive.

Cosa potrebbero mai dirsi, oggi in Italia, la cultura e il lavoro?

Se solo accettassero di non fare la snob la prima e il lamentoso il secondo, ne avrebbero da dirsi. Il risultato non è garantito ma nel tentativo ci crediamo.

“Restituire il lavoro alle persone” è la fune su cui abbiamo scelto di salire da equilibristi per il numero zero del festival e ci saliremo con ogni peso e ogni leggerezza che realisticamente rendono vero quel pezzo di vita che chiamiamo lavoro.

Sulla fune ci saranno cinquanta relatori con timbri di voce completamente diversi e per voce intendo il pensiero. Daremo voce anche agli studenti, e per voce intendo il pensiero.

Vanno rimesse le carte sul tavolo e rimescolate in altro modo, prima di servire la mano. I professionisti del gioco sanno che distribuire le carte può avere più sensi di marcia: a meno che regole specifiche non dicano il contrario, vanno in senso orario tutti i giochi di carte che arrivano dal Nord America, dall’Europa del nord e quella occidentale, anche dalla Russia; vanno all’opposto nell’Europa del sud e in quella orientale, in Asia e in Svizzera. Contromano ci vanno anche tutti i giochi dei tarocchi. Quante aziende hanno delocalizzato negli ultimi dieci anni per poi tornare indietro coi costi tra le gambe oltre che la coda; quanto low cost ci siamo messi in bocca senza pensare alle conseguenze del ribasso, che invece erano premesse; quante false percezioni ci ha fatto comodo prendere per vere piuttosto che accettare di invertire una rotta; quanta politica ha sbandierato riforme e promesse solo perché non aveva il benché minimo bisogno di arrivare a un fine mese.

Se il lavoro è diventato più secco del pane che a molti ancora manca, allora sì che qualcosa è andato storto nel dare le carte.

Allora sì che qualcuno ha barato ma lamentarsi annoia e non ci sposta in avanti. C’è da provare a cambiare la mano ma stando tutti con gli occhi bene aperti e non solo il mazziere. Quando deleghi è la fine, soprattutto se ti sembra solo un gioco.

Nobìlita lo abbiamo scritto con l’accento sulla prima i: volevamo dare un segno ma senza confondere le carte.

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