Editoriale 65. Mea culpa

Se lo rivedessi oggi, gli direi di farselo anche lui un mea culpa. Era un prete che del cristianesimo aveva preso il peggio: il senso di colpa da buttarti addosso. Saranno passati trent’anni e chissà cosa direbbe oggi quel prete davanti a una Chiesa cui tocca snocciolare pubblicamente i rosari del perdono perché la macchia […]

Se lo rivedessi oggi, gli direi di farselo anche lui un mea culpa. Era un prete che del cristianesimo aveva preso il peggio: il senso di colpa da buttarti addosso. Saranno passati trent’anni e chissà cosa direbbe oggi quel prete davanti a una Chiesa cui tocca snocciolare pubblicamente i rosari del perdono perché la macchia umana, prima o poi, ci sporca tutti. Le società si spaccano ogni volta che il potere si infila l’impermeabile su cui non fa attrito la regola; per tutti gli altri vale la stretta osservanza. Alla lunga – è una certezza – ogni cappotto si usura, è solo una questione di tempi e di valori sociali.

Il problema è però che si sta facendo confusione e occorre chiarirsi. Fare un mea culpa non vuol dire scusarsi, non c’è automatismo: sono diversi i presupposti, distanti i piani di azione, imprevedibili le conseguenze. Tanto coraggioso il primo gesto quanto gravoso il secondo.

Il mea culpa è un atto soggettivo, individuale e puro; è un braccio meccanico che scava pure negli angoli più impervi ma se gli è mancata nel tempo una buona manutenzione rischia di rompersi al momento sbagliato. L’aggettivo mea non è casuale: che ognuno si prenda la sua di colpa e se la carichi come vuole. Vale ogni mezzo purché la si sposti da sotto a sopra e purché la si faccia risalire a galla che tanto la colpa sta sempre nascosta in qualche nostra piega nel fondo e non è facile tirarla fuori dagli interstizi. Ancora più spesso la colpa si mimetizza in ciò che facciamo e diciamo, come un camaleonte esperto dove siamo noi i primi a cadere nell’inganno.

La colpa è preda o predatore?

Il mondo animale insegna che alcune specie sviluppano capacità di uniformarsi all’ambiente circostante per difendersi dai predatori, altri lo fanno per il motivo opposto – ossia per predare. Di questi ultimi, su tutti vince il pesce pietra: diffuso nell’Indo-Pacifico e nel Mar Rosso, tozzo e sgradevole il corpo, testa e bocca pronunciati, completamente ricoperto di escrescenze carnose che lo rendono simile a una roccia incrostata di alghe e di coralli, di colore è un mélange di grigio, rosso, giallo e verde e davvero sembra degno dei migliori fondali tropicali finché non spruzza veleno potenzialmente mortale anche per l’uomo che tenta di prenderlo. Dall’animale forse te lo aspetti il lato dell’inganno ma dai fiori no, eppure anche loro insegnano su questo.

Nel mondo vegetale il mimetismo si esprime a livelli altissimi anche se in passato si contestava che solo gli animali ne fossero capaci in virtù del loro sistema nervoso organizzato. Il principio alla base è semplice: imitare le caratteristiche di un fiore modello il cui habitat si avvicina a quello dell’imitatore per poterne trarre vantaggio agli occhi di un terzo. La maggior parte dei fiori imitatori o scrocconi non producono nettare ma prendono come modello fiori molto più generosi di loro.

Qui, su tutti, vince l’orchidea Cephalantera rubra che, appunto, non produce nettare ma imita diverse specie di campanula. A colpo d’occhio la somiglianza non è poi così evidente ma dipende di chi è l’occhio che guarda dato che le api distinguono poco le tonalità del rosso-violetto e, come per molti insetti, badano poco a forma e profumo quando si tratta di scegliere chi impollinare.

Questa storia dei modelli da imitare passivamente pur di farcela, degli scrocconi quotidiani e degli inganni a tutti i costi pur di sprecare meno energie possibili non ricorda forse i politici che imitano il lato peggiore dei propri cittadini e i cittadini che imitano il lato peggiore dei propri politici? Ci lamentiamo di noi stessi ogni volta che critichiamo un politico.

Sì, le colpe sono di tutti e ognuno le incista a modo suo rendendole però indecifrabili ad occhi tanto interni – i nostri, e questo è il guaio – quanto esterni – e questo è solo l’apparente vantaggio.

Le scuse sono invece plurali e già questo ne raddoppia l’onere. Ci si scusa da me a te, da me a voi, da me a loro e il me possiamo essere tutti. Le scuse vengono sempre dopo, come gli amari a fine pasto.

Così come dovremmo smetterla con la presunzione di farci assolvere dagli altri se poi la nostra inquisizione non molla l’osso da dentro. Vorremmo ascolto, calore e sostegno e finiamo per elemosinare assoluzioni spesso non dovute e spesso dalle persone sbagliate. Le scuse si fanno sempre più di rado: ce lo hanno insegnato gli ultimi decenni di storia italiana, ce lo ha insegnato la politica rozza e maldestra, la scuola anoressica di pulsioni culturali, la società avida di proprietà privata, i genitori che professano la competizione dei figli, il mondo del lavoro che non ha saputo più trasmettere mestieri e relazioni.

Che si fa ora?

Il pentimento fa paura a chi gestisce il potere, la malavita lo sa bene.

La moglie di Massimo Perrone, arrestato nel giugno 2017 perché ritenuto uno dei capi della “Nuova gerarchia Casalese”, lo stesso giorno dopo l’arresto del marito ha preso in mano la cassa del clan; i carabinieri di Aversa, a capo delle indagini, sono convinti che la donna gestisse somme molto ingenti e che ogni mese facesse uscire somme tra i 600 e 1000 euro ai familiari degli altri affiliati, molti dei quali in carcere. Appurarono che solo così la donna riusciva ad assicurarsi due certezze: la sopravvivenza del clan nonostante gli arresti e il “silenzio” degli affiliati allontanando la tentazione di collaborare con la giustizia. Ma il denaro non può ogni cosa e alla lunga crolla pure lui.

Oltre al mea culpa e alle scuse c’è l’auto da fé.

Elias Canetti ci vinse il Nobel alla letteratura nel 1981 per averci titolato il suo unico romanzo, un capolavoro come pochi che tratteggia l’umanità nelle sue forme più espressive di alienazione e inettitudine, di incomunicabilità totale dove ognuno dei protagonisti è arroccato nella propria assoluta percezione delle cose e, pertanto, inevitabilmente patologica. Gli stessi libri, che potrebbero essere una delle poche forme di salvezza sulla terra, si fanno gabbia per Peter Kien che con loro finisce per bruciare.

Ieri ho ritrovato un articolo dell’89 di Salman Rushdie su Repubblica online, merita ricordarlo:

Canetti possiede una casa a Hampstead. Il campanello della porta d’ ingresso non funziona. Funzionava un tempo, a quel che pare; ma si è guastato più o meno nel 1960, e Canetti ha deciso che non valeva la pena di farlo riparare. E questo dimostra chiaramente che è un uomo per il quale la vita privata è molto importante. All’interno dalla casa, a suo dire, si trova una biblioteca dalle proporzioni stupefacenti; i libri si innalzano dal pavimento al soffitto in uno splendore da Himalaya e occupano ogni centimentro di spazio libero delle pareti: una biblioteca di Babele. Canetti ha offerto il proprio senso della privacy e la sua inestimabile biblioteca al personaggio centrale di Auto da fé. Il sinologo celebre in tutto il mondo, Peter Kien, vi è però descritto come un uomo che volta sistematicamente la testa quando qualcuno lo incrocia per le scale”.

L’auto da fè, storicamente, era la cerimonia pubblica con cui l’Inquisizione spagnola eseguiva la penitenza o condanna decretata. Letteralmente, atto di fede.

Un autodafé prevedeva messa, preghiere, processione pubblica dei colpevoli e lettura della loro sentenza. I condannati venivano trascinati in pubblico con la testa rasata, erano vestiti di sacchi e portavano berretti da somaro, il numero delle frustate con cui li guidavano variava secondo la sentenza. Le immagini riprodotte sui vestiti del colpevole indicavano la pena decretata: una croce di sant’Andrea se si era pentito in tempo evitando il supplizio, mezza croce se aveva subito un’ammenda, solo fiamme se la condanna era a morte. L’analfabetismo imperava e toccava parlare per immagini, più o meno come ci stiamo riducendo oggi.

A me sembra che questa Italia abbia negli anni confuso le colpe con le pene e lasciato volutamente per strada le ragioni del degrado. Troppo presi, tutti, dalla cerimonia pubblica – che sono oggi i social network, belli comodi da casa – con cui puntare il dito verso qualcuno che fosse fuori di noi abbiamo sottovalutato il mea culpa che sta invece dentro di noi. Accecati dalla massa abbiamo distolto l’occhio dal singolo e ora fatichiamo a capire dove finisca l’uno e inizi l’altra. E pensare che avevamo tutti imparato a contare da uno.

 

 

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