Editoriale 89. Volere volare

È tempo di cambiare paure. Quella del volare, come gesto in sé, quasi non è più al passo coi tempi: troppo personale, troppo intimo. L’urgenza è incutere una prudenza nuova più che arginare una paura vecchia: ogni volta che saliamo su un aereo stiamo sporcando il mondo. Non imbrattiamo solo i muri e le strade ma […]

È tempo di cambiare paure.

Quella del volare, come gesto in sé, quasi non è più al passo coi tempi: troppo personale, troppo intimo. L’urgenza è incutere una prudenza nuova più che arginare una paura vecchia: ogni volta che saliamo su un aereo stiamo sporcando il mondo. Non imbrattiamo solo i muri e le strade ma anche l’aria e la cultura: il primo problema è che nell’immediato non se ne vede l’effetto, il secondo è che nell’immediato vediamo solo noi stessi.

A marzo 2019 è stato pubblicato il primo rapporto mondiale sul traffico aereo, lo ha firmato l’Associazione Commerciali degli Aeroporti (ACI: Airports Council International). C’è da stare tranquilli? Dipende, per rispondere come il più teorico dei comunicatori.

Nel 2018 sono saliti su un aereo ben 8,8 miliardi di persone, un record assoluto, e la previsione è che entro il 2023 la domanda di servizi aerei sfiorerà il 30%. Volare è sempre meno gesto privato, volare ha sempre più un’impronta pubblica: ogni passeggero si porta con sé circa 300 grammi di anidride carbonica ogni volta che prende un volo quindi iniziamo a poggiare un pensiero anche sul nostro “peso” e non soltanto su quello del bagaglio la prossima volta che pianificheremo un viaggio. 

Come le persone nemmeno le compagnie aeree sono tutte uguali, tanto più quando si parla di carbonio: mentre noi continuiamo a ciccare sul volo più economico tra i risultati del motore di ricerca, dall’altra parte dello schermo ci sono realtà completamente diverse quanto a politica di volo.

Cristina Da Rold, in un lucido articolo di settembre scorso su Info Data – Il Sole 24 Ore, raccoglie con fermezza tutti i pezzi del discorso, ricorda che il settore produce il 2% delle emissioni totali generate dagli umani e si prende anche la briga di citare un rapporto della Transition Pathway Initiative (TPI) secondo cui “EasyJet sarebbe la compagnia che produce il minore impatto in termini di CO2 emessa. Le linee guida ICAO (Organizzazione internazionale dell’aviazione civile, agenzia autonoma delle Nazioni Unite) per migliorare il consumo di carburante fissano come soglia una riduzione dell’1,5% annuo. Quasi tutte le compagnie esaminate dovrebbero soddisfare questo diktat entro il 2020, chi più chi meno. Ogni aereo di EasyJet dovrebbe emettere circa 75 g di CO2 per passeggero per km entro il 2020, rispetto ai 172 grammi per persona per chilometro di Korean Air. Il gruppo International Airlines (IAG), che comprende British Airways, dovrebbe emettere 112 grammi”. Non è difficile notare l’uso corretto del condizionale: i dati possono fare paura quando fanno nomi e cognomi con ritorno di immagine, reputazione e spostamenti d’acquisto.

Ad ogni modo faremmo bene a riflettere sul fatto che la notizia non è tanto il chi ma il come e che gli avverbi, più che i soggetti, nei prossimi anni faranno la differenza.

Intanto voliamo.

Con la redazione siamo andati a cercare ciò che non si vede da un biglietto aereo: la cultura del lavoro che si nasconde dentro e intorno agli aeroporti.

Chi li gestisce e li controlla.

Chi ci guadagna.

Chi ci perde.

Chi ci lavora.

Chi ci vede già la consapevolezza del turismo.

Chi ci crede.

Chi li sfrutta.

Chi corrompe.

Chi scardina la corruzione.

Chi ci sequestra la bottiglietta d’acqua.

Chi ci porta in aeroporto.

Chi ci porterà nello spazio.

Chi resta immobile tra i giochi di potere.

Chi ci ha voluto rispondere e chi no.

Abbiamo viaggiato dentro gli aeroporti del Sud che gridano ascolto per i loro primati, di una Puglia che guarda già allo spazio, di Napoli che cresce a vista d’occhio coi numeri e punta alla bellezza urbana, della Lombardia in vetta assoluta con Milano ma alle prese con lunghe spine di corruzione, di una Bergamo Orio al Serio di carattere, di una Bologna che imperterrita cura il suo giardino, di una Toscana rimasta ferma alle lotte medievali di potere e col record  di ritardo nei voli, di una Venezia reticente e poco collaborativa.

Fuori dall’Italia il mondo degli aeroporti genera investimenti da capogiro, architetture che fanno a gara e livelli di soddisfazione che vedono sul podio il solito Oriente. 

L’Aeroporto di Singapore-Changi sembra già ipotecarsi sul 2020, e per l’ottavo anno consecutivo, il merito di campione del lusso, design e servizi al passeggero; ad aprile scorso hanno persino inaugurato il nuovo Terminal con 280 negozi su dieci piani (cinque sotto terra e cinque sopra), veri e propri giardini-foresta e la cascata interna più grande del mondo giusto per vantare già un record.

Il primato europeo del divertimento se lo prende Monaco di Baviera col suo Franz Josef Strauss dove i passeggeri possono pattinare d’inverno e fare surf d’estate o ballare in discoteca tra un volo e l’altro. Tra le curiosità c’è l’aeroporto più basso del mondo che giustamente sta ad Amsterdam, lo Schiphol: cinque metri sotto il mare, centri commerciali e negozi, un centro penitenziario e una stazione dei treni che da lì porta anche a Parigi.

L’Italia, ad oggi, farebbe bene a non mettersi sulla coda dei primati tra architetture e frivolezze ma restare solida sulla quantità e qualità dei voli, sulla puntualità, sui tempi dei check-in, sull’assistenza ai clienti e, nemmeno a dirlo, su politiche oculate di gestione interna del turismo.

La disfida internazionale più accesa resta sull’aeroporto più grande del mondo e se la stanno giocando da un lato i cinesi con il Pechino Daxing – che verrà completato nel 2020 e con un costo all’attivo di già 11 miliardi di dollari – e dall’altro la Turchia di Erdogan con il nuovo Istanbul Airport dai quasi 80 milioni di metri quadrati per collegare Europa, Nordafrica, Asia occidentale e Medioriente. Lo studio italiano Pininfarina è l’artefice della torre di controllo tutta vetro e ferro e io non lo sbandiererei più di tanto un capolavoro regalato a certi politici disumani.

A Natale, visto che ai buoni propositi non ci crede nessuno, almeno compensiamo le colpe dei nostri viaggi inquinanti provando a risarcire l’impronta ecologica che lasciamo in volo: non tutte le compagnie di volo sono attrezzate ma vale la pena informarsi e pagare qualche euro in più da destinare ai progetti ambientali che le più virtuose già sostengono.

Infine, se proprio vi fa rabbia dover lasciare al varco dei metal detector gli oggetti che non hanno superato il controllo, sappiate che non ve li stanno trattenendo per il gusto di rovinarvi il viaggio o di intascarseli loro. Per me il primo premio va allo scalo di Vilnius, in Lituania, dove pochi giorni fa gli addetti hanno allestito un albero di Natale usando proprio la merce trattenuta. La base dell’albero è piena zeppa di forbici e forbicine, le note di colore arrivano dalle impugnature di lame e tronchesine e la punta è una stupenda stella fatta coi tagliagrana, il tipico coltellino fatto a cuore per il parmigiano. 

A quanto pare viaggiamo belli armati, buon Natale.

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