Fabrizio Famà
Moda e sostenibilità, ormai un ossimoro dopo i casi Loro Piana, Armani, Alviero Martini, Christian Dior. Le riflessioni di un HR del settore che confida in un dibattito pubblico più stimolante, partendo dall’osservazione dei comportamenti interni a organizzazioni e aziende.
Moda e sostenibilità: un ossimoro? Sembrerebbe di sì.
Nel tempo si sono sentite non poche storie di importanti marchi coinvolti in vicende di lavoro nero, mal pagato e di trasferimenti verso aree di produzione a minor costo del lavoro e minori tutele. Abbiamo tutti in mente quanto si dicesse della produzione tessile pratese: aziende a conduzione cinese con poca aderenza alle buone regole di gestione del lavoro.
Quando, tre anni fa, ho cominciato a lavorare in quel settore e mi sono trasferito nell’area di Firenze, l’impatto di queste “cattive reputazioni” è diventato molto forte, da risultare persino discriminante per un’intera area geografica perché “se sei lì, immediatamente si pensa che adotti certe pratiche e noi non ci possiamo permettere che i nostri clienti lo pensino”.
La Procura di Milano ha fatto il resto: Alviero Martini, prima. Armani Operations poi. Christian Dior, a seguire. Loro Piana, in questi giorni. La questione sembra la stessa e finisce con una amministrazione giudiziaria per correggere pratiche illecite all’interno della filiera produttiva. In quei casi, non pensavano ed evidentemente non avevano occhi abbastanza attenti per vedere.
Dall’interno posso testimoniare la percezione di un maggiore attivismo negli ultimi mesi da parte di molti brand: richieste di verifica di sostenibilità attraverso audit di terze parti e proposte di assessment (a loro costo) per progetti di miglioramento. Comincio anche a percepire una minore tolleranza, rispetto a quanto notavo nei primi mesi che ero qui, da parte degli auditor. Certo, non arriviamo a profondità di indagine tipo quelle che conosco come parte della supply chain dell’automotive, però il trend sembra essere confortante.
Vale la pena riflettere su alcuni aspetti, che lascio come spunti di discussione:
- chi paga per l’aumento dei costi di gestione (i processi verso la sostenibilità all’inizio costano e il settore sta attraversando una profonda crisi, più profonda e lunga di quanto ci si attendesse)
- se non si rischi, con i casi evidenziati dalla procura di Milano, di invitare i brand a lasciare l’Italia e quanto l’appeal del Made in Italy possa controbilanciare. Personalmente, non ritengo sano lo scambio “posti di lavoro” vs “pratiche illecite”. Nemmeno cambiare l’illecito in lecito, quando questo va a peggiorare lo stile di vita di chi già non gode della ripartizione dei profitti
- quanto vi sia effettiva capacità di cambiamento, laddove il cambiamento passa anche per il coraggio di abbandonare pratiche note per andare verso pratiche non note. Questo aspetto coinvolge l’azienda a 360 gradi perché cambiare alcuni sistemi interni può portare efficientamenti importanti ma può anche coinvolgere il balance of power nei rapporti cliente-fornitore.
I tre aspetti che metto sul tavolo si portano dietro una ulteriore considerazione, che coinvolge il mio lavoro di HR: la relazione tra business e comportamenti, e quanto sia cruciale osservare questi ultimi per capire quale impostazione verrà data al primo.
Dire di essere aperti al cambiamento, per poi rifugiarsi in scuse o inerzie esterne al proprio sistema, non concilia alcuna trasformazione; così come ciò che non controlliamo (per esempio, una dinamica di mercato) potrà diventare una comoda scusa del fallimento, condita con la ricerca del colpevole interno.
Imparare a riconoscere e individuare simili rischi comportamentali è il primo passo verso la consapevolezza e, come HR, abbiamo sempre la responsabilità di far vedere che esiste un altro modo di lavorare, capace di coniugare competitività e correttezza, magari a scapito dell’individualismo.