Lo sconforto degli immigrati irregolari: solo in carcere siamo qualcuno

Alcuni immigrati si sentono più tutelati in carcere che in libertà: puntiamo i riflettori sul fallimento delle politiche di integrazione e inclusione, e su una sentenza della Cassazione che l’Italia disattende dal 2006.

Per molti di loro, gli immigrati irregolari, il carcere viene vissuto come un luogo sicuro con un lavoro povero, scarso di formazione professionale ma garantito, regolare, retribuito, riconosciuto. Certo più garantito di quello che offre loro la strada, il girovagare disperato alla ricerca di un reddito minimo che consenta di sopravvivere, e in rari casi di mandare soldi alla famiglia di origine.

Potrebbe sembrare un paradosso ma è così. Quel carcere che doveva diventare il luogo di transizione e di riabilitazione dei carcerati per aiutarli a rientrare nella società civile diventa, per gli irregolari (che sono la maggioranza degli stranieri nelle carceri italiane), il luogo più sicuro, la loro città. Non a caso gli irregolari guardano con diffidenza al lavoro esterno alle carceri. Lì si insidiano ritorni forzati al Paese d’origine o offerte di delinquere da parte della criminalità organizzata, che abitualmente usa quella disperazione per assoldare manovalanza.

Il fallimento dell’integrazione: se gli immigrati preferiscono il carcere alla libertà

Susanna Ripamonti, ex giornalista dell’Unità ora direttrice di Carte Bollate, il giornale che viene fatto da giornalisti e carcerati all’interno del carcere di Bollate alle porte di Milano, a proposito di questo tema ci racconta di un incontro significativo con un gruppo di immigrati.

“Nel discutere con loro del carcere e del rapporto tra il carcere e la società civile esterna ricordo che uno di loro ci disse: ‘Io fuori non sono nessuno, non avevo documenti né un permesso di soggiorno, in carcere sono diventato un cittadino con un lavoro, un’identità e la sicurezza. Fuori da queste mura c’è soltanto la strada e il pericolo di essere ricacciati al Paese dal quale siamo fuggiti’. Che dire”, commenta Susanna Ripamonti, “il carcere come fallimento del progetto di riabilitazione”. O più in generale, diciamo noi, come fallimento di una politica di integrazione che fino a ora ha saputo affrontare la tragedia dell’immigrazione soltanto con le politiche di respingimento, peraltro fallimentari.

Il tema immigrati irregolari rispetto al lavoro non è di poco conto se si guardano alcune cifre: secondo l’associazione Antigone i detenuti stranieri delle carceri italiane erano 20.324 nel 2019, ovvero il 33,6% del totale dei detenuti, mentre gli stranieri residenti costituiscono l’8,7% della popolazione residente complessiva. Ed è qui che emerge il numero “nascosto” degli irregolari: i dati sui detenuti includono sia gli immigrati regolari sia gli irregolari, mentre i dati sui residenti prendono solo in considerazione i residenti regolari.

Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al 31 dicembre 2020 fornisce poi il totale degli stranieri lavoranti nelle carceri italiane: 6.582 di cui 398 donne. 5.879 sono alle dipendenze dell’Amministrazione, mentre soltanto 703 dipendono da altri enti pubblici o privati.

Pene alternative agli extracomunitari: quella sentenza della Cassazione disattesa da 15 anni

Scartabellando tra il materiale giudiziario sul tema lavoro nelle carceri scopriamo una zona d’ombra nelle pieghe della nostra giurisprudenza.

L’avvocato Mario Pavone, presidente dell’Associazione Nazionale Immigrazione, rivela in un suo articolo sul tema del lavoro alternativo alla pena carceraria una notizia che ci pare sia rimasta sotto traccia: “Le Sezioni Unite Penali della Cassazione – scrive Pavone – hanno sancito, in via definitiva, l’applicabilità delle misure alternative alla detenzione anche al cittadino extracomunitario stabilendo il principio di diritto che ‘in materia di esecuzione della pena detentiva, le misure alternative alla detenzione in carcere (nella specie, l’affidamento in prova al servizio sociale), sempre che ne sussistano i presupposti stabiliti dall’ordinamento penitenziario, possono essere applicate anche allo straniero extracomunitario che sia entrato illegalmente nel territorio dello Stato e sia privo del permesso di soggiorno”.

La sentenza delle sezioni riunite della Cassazione è del 2006 e non ci risulta che sia stata abrogata o rivista. Allora come mai non viene applicata agli immigrati irregolari in tema di pene alternative al carcere come il lavoro esterno o il lavoro di pubblica utilità? Lo abbiamo chiesto all’autore di quell’articolo.

Mario Pavone non va tanto per il sottile: “È semplice, quella sentenza è stata disattesa. Ancora oggi l’immigrato clandestino non ha diritto ai cosiddetti benefici alternativi. Fate bene a sollevare questo problema. Tenga conto che tra le pene alternative vi è anche quella dell’espulsione, ma anche questa non è applicabile per altre ragioni”.

Quali ragioni? “Molto spesso i consolati respingono le richieste sostenendo che l’immigrato di cui si vorrebbe l’espulsione non è roba loro, essendo senza documenti d’identità. Io ho proposto da tempo – aggiunge l’avvocato Pavone – che venga istituita un’Authority sull’immigrazione, ma per il momento mi pare che non se ne parli”.

Gli ex detenuti costretti a pagare le tasse arretrate

Torniamo al tema del lavoro dentro e fuori le carceri. Vincenzo Lo Cascio, responsabile nazionale dell’ufficio centrale lavoro detenuti presso il Ministero della Giustizia, sostiene senza mezzi termini che “più che un tema immigrazione c’è un tema integrazione. Mancano politiche che puntino all’integrazione come avviene in altri Paesi d’Europa. Se non si supera questo limite è difficile fare politiche sul lavoro per gli immigrati”.

“Noi ci stiamo provando con il progetto Lavoro di Pubblica Utilità. È un progetto nato nel 2018 e promosso dall’allora ministro Orlando e messo a sistema dal ministro Bonafede. A noi sembra una buona cosa. È un programma che prevede, per chi vuole uscire all’esterno, ad esempio la pulizia dei parchi pubblici. Chi aderisce a questo progetto riceve una formazione certificata e non può uscire dal carcere senza questo certificato. Noi prendiamo contatto con i comuni, che a loro volta gestiscono il lavoro dei carcerati”.

Quali sono gli ostacoli a questo progetto? “Ostacoli non ce ne sono. Direi anzi che questo progetto rimuove uno dei problemi economici per chi esce per lavoro dal carcere: quando un detenuto lascia la prigione si attiva una cartella esattoriale, tasse che il detenuto in genere non è in grado di pagare. Un meccanismo che alimenta spesso la recidiva. O il soggetto in questione lavora in nero o è spinto a delinquere per pagare le tasse”.

“Per chi partecipa al progetto Lavoro di Pubblica Utilità scatta invece la remissione del debito, e questo è un grande incentivo a partecipare. Certo, come ostacolo resta il paradosso a cui lei faceva riferimento: se il soggetto ha un provvedimento di pubblica sicurezza quando esce non è comunque garantito; se lo fermano deve tornare al Paese da cui è fuggito, anche se preferirebbe non tornarci. È per questo motivo che una volta fuori molti detenuti irregolari diventano degli alias, e spesso vengono arrestati con una nuova identità”.

Susanna Marietti, Associazione Antigone: “In carcere si riproduce la diseguaglianza tra immigrati e cittadini italiani”

Susanna Marietti, dell’Associazione Antigone, invece non considera il lavoro di pubblica utilità una soluzione definitiva perché vorrebbe per i detenuti un lavoro retribuito, ma gli ostacoli sono ancora molti.

“Uno di questi è la mancanza di norme specifiche che consenta loro di avere un mediatore culturale che, tra le altre cose, li aiuti a entrare nel mondo del lavoro esterno con un minimo di informazioni e di assistenza. Immagina di essere arrestato in Iran dove non conosci la lingua, non ti puoi permettere un avvocato e non sai a chi rivolgerti. Questa è la condizione generale dei carcerati stranieri in Italia.”

“Per dirla in modo più chiaro in carcere si riproduce, anche sul tema del lavoro, la diseguaglianza che vediamo nella società civile tra immigrati e cittadini italiani. Antigone aveva proposto di introdurre norme specifiche per gli immigrati che non si possono permettere un avvocato, non hanno amici o parenti fuori dal carcere che li possano assistere e non hanno un traduttore, ma quella nostra proposta non è passata. Anche l’articolo 21, quello che consente ai carcerati di lavorare all’esterno, è poco utilizzato soprattutto dagli immigrati, perché mancano le figure che lo promuovono e che spiegano le modalità per accedere a quel percorso.”

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