Il lavoro minorile è presente in tutto il Paese, ma è un fenomeno a intensità variabile: il rischio è molto alto nelle Regioni del Sud e nelle periferie delle aree metropolitane, ma esiste anche nelle zone cosiddette avanzate, per esempio del Nord-Est.
“Si lavora per guadagnare, anche da bambini”, spiega Antonella Inverno, responsabile ricerca dati e politiche per l’infanzia e l’adolescenza di Save the Children. “Bisogna però fare un distinguo tra chi lo fa per rendersi indipendente dalla famiglia – che è la maggioranza, dove la dimensione scolastica rimane prioritaria – e chi lo fa per una forte necessità economica. È il caso, questo, soprattutto dei minori stranieri, per i quali il lavoro si intreccia con la difficoltà di entrare o restare nei percorsi formativi, e con il conseguente ed elevato rischio di essere reclutati dalla criminalità, oltre che con frequenti condizioni di sfruttamento”.
È infatti stretta la relazione tra lavoro e giustizia minorile, il legame forte tra esperienze lavorative troppo precoci e coinvolgimento nel circuito penale: quasi il 40% dei giovani presi in carico dai servizi della giustizia minorile ha lavorato prima dell’età legale consentita. Tra questi, più di uno su dieci ha iniziato a 11 anni o prima, e oltre il 60% ha svolto attività dannose per lo sviluppo e il benessere psicofisico. I numeri sono freddi, ma parlano di vita vera.
Si lavora per denaro, dunque; c’è però anche chi lo fa perché vuole provare esperienze nuove. Sono ragazzi che spesso provengono da un contesto famigliare e sociale nel quale la cultura del lavoro è molto forte (la maggior parte lavora con genitori o parenti e trova un’occupazione proprio tramite queste figure), e che, spesso supportati in questo dalle convinzioni della famiglia, hanno poca o nessuna fiducia nella possibilità della scuola di fornire strumenti utili alla crescita e all’affermazione professionale.
Senza voler stabilire un nesso di rigida causalità, l’indagine di Save the Children evidenzia una significativa associazione tra la vita in famiglie di livello socioeconomico e culturale basso e le esperienze di lavoro minorile. La questione verte sull’assenza della percezione del lavoro minorile come problema e su una cultura diffusa che valuta in modo positivo le esperienze lavorative precoci.
Certo, la faccia del lavoro minorile in Italia è meno sporca di quella dei bambini che vivono raccogliendo la spazzatura nelle discariche del Guatemala o dei minori sfruttati nelle miniere del Congo o del Pakistan, ma parla ugualmente di un’infanzia negata. In Italia abbiamo giovanissimi camerieri, commessi, aiutanti di bottega che lavorano in prevalenza aiutando i genitori nelle piccole e piccolissime imprese a gestione famigliare. I settori che impiegano minori sono quindi quelli tradizionali, in primis la ristorazione e il commercio, ma anche l’agricoltura e la cura della casa e della persona, con un salto nella modernità attraverso i lavori online, unica novità nel panorama dei lavori svolti dai giovanissimi. Ed è inquietante vedere come la questione di genere si presenti fin da piccoli, perché le attività continuative di cura, molto spesso non retribuite, nel 65% dei casi sono a carico delle bambine, che rappresentano addirittura il 90% di chi fa il babysitter. Sono dati impressionanti, che ci interrogano sulla capacità di proteggere i nostri figli e sull’idea di futuro che abbiamo per il nostro Paese.