Occhiali, che saranno mai? Il “Neo made in Italy”

“Non ho passato il mio esame in diverse occasioni. I miei amici, invece, sì. Ora loro sono ingegneri e lavorano alla Microsoft. Io invece ne sono il proprietario”. Bisognerà scomodare Bill Gates per raccontare una storia montanara che parte dalla visione – in ogni senso – di una donna, Maria Pramaor, passa attraverso un laboratorio […]

“Non ho passato il mio esame in diverse occasioni. I miei amici, invece, sì. Ora loro sono ingegneri e lavorano alla Microsoft. Io invece ne sono il proprietario”. Bisognerà scomodare Bill Gates per raccontare una storia montanara che parte dalla visione – in ogni senso – di una donna, Maria Pramaor, passa attraverso un laboratorio casalingo e arriva a Nicola Del Din, figlio, e al sorriso degli scalatori arrivati a contemplare il panorama: “Manca ancora alla vetta”. Nel caso di specie, a 41 anni: “Due esami alla laurea”. Più a lungo: “La possibilità di sperimentare”. Vale a dire, superare il concetto di “pezzo di ferro a forma di occhiale”.

Occhiali, che saranno mai?

Così la storia parte proprio dal metallo, in questo caso il titanio, elemento chimico dal nome epico, ispirato ai titani, che arriva in lastre grezze dal Giappone per essere poi reso tondo, ovale, quadrato – nelle forme che l’estetica contempla – ed essere applicato su un paio di lenti. Occhiali, che saranno mai? Saranno, invece. L’inizio di un racconto che potrebbe diventare base per cambiare il marchio più usato/(ab)usato: il Made in Italy.

Il torrente Cordevole e la Luxottica Valley

Taibon Agordino, 1700 abitanti sulle montagne bellunesi, vede presente e futuro segnati dal torrente Cordevole: di là il colosso di Leonardo Del Vecchio, la Luxottica degli 82 mila dipendenti, 8 mila sedi, fatturato 2016 da 9 miliardi di euro, di qua la Pramaor, 70 dipendenti (e 26 agenti), fatturato da 7,7 milioni di euro.
La formica laboriosa contro il gigante della produzione. Così l’intuizione parte dalla materia prima, il titanio appunto, col marchio Blackfin.
Serve una storia da raccontare, però, ed ecco la svolta in una parola: il Neo made in Italy. Una supercazzola? “Tutt’altro – risponde Nicola, parlantina pragmatica ed esuberante – un modo di ripensare la produzione italiana”. Chiarisce: “Il Made in Italy non è necessariamente sinonimo di qualità. Ci sono fornitori cinesi che lavorano meglio di alcuni italiani. Il Made in indica l’origine di un prodotto, non la qualità”.

Il Neo made in Italy

Il “Neo” diventa scatto culturale: “Stronca il concetto di pendolarismo delle merci”. E’ il trittico che forma il concetto di nuovo marchio: origine, qualità, responsabilità sociale.
Il primo aspetto: “Il territorio che abitiamo è la base della nostra cultura, è parte di quello che vendiamo”. Lo “spirito dei luoghi”, per cui per un paio di occhiali “pagano anche questo”, come racconta il video di supporto alla campagna.
La qualità è invece il modo di pensare: italiani per lo sguardo (nell’ottica è tutto), giapponesi per la determinazione, scandinavi per l’organizzazione: “Se sapremo creare questo mix ritroveremo l’orgoglio della produzione italiana”. Insomma italo-scando-nipponici, abbinando tenacia da samurai a orgoglio della montagna.
Quindi la responsabilità, sociale, ambientale: “Vuol dire avere la solidità necessaria per contrattare condizioni più vantaggiose con le banche verso i nostri fornitori, di solito aziende di 4 o 5 persone”. Tradotto: il pagamento alla consegna ai terzisti, quando i pagamenti oggi “arrivano anche a 150 giorni”. Per Del Din: “Una forma di marketing locale, indubbiamente, ma anche un’occasione di efficienza e qualità da parte del fornitore”. E’ la catena di responsabilità: io pago subito, tu lavori meglio e consegni nei tempi.

Tutta la vita davanti”

Del resto chi viene dal conto terzi o affossa i terzisti o ne migliora le condizioni.
Per la Blackfin/Pramaor una storia di salite, discese, cadute, nuove corse, come le montagne che, beffarde, spingono lo sguardo sempre un po’ più su.
Una storia fotocopia di molte realtà dei distretti italiani: la fondatrice, mamma Maria, che entra nel gruppo che diverrà grande (Luxottica), 18 esima dipendente di Del Vecchio, anno 1962.
Nel ‘71 la strada autonoma, un laboratorio in casa, i cinesi italiani prima dei cinesi d’Oriente di oggi.
Poi gli anni ’80, la conduzione famigliare con l’ingresso di Primo, marito di Maria, papà di Nicola. Nei ‘90 l’azienda naviga in buone acque, terzista per Del Vecchio e altri marchi fino a quando, anno 1998, Primo muore prematuramente.
Nicola studia Economia e Commercio a Udine, ha 22 anni e tutta la vita davanti. Decide di interrompere gli studi ed entra in azienda facendo la spola tra i vari reparti. I dipendenti sono poco più di una decina.

“L’ha da salvà l’azienda”

Arrivano gli anni dello spettro del fallimento, dal ‘98 al 2008. “Gli anni difficili – confessa Nicola – senza i quali oggi non saremmo qui”. E il qui diventa il guardarsi indietro dello scalatore. Nella traversata l’incontro con Giancarlo Recchia, trevigiano: “L’ha da salvà l’azienda”, la sintesi agordina dell’incontro. La Pramaor ha disavanzo di circa 2 milioni di euro.
Il nuovo socio viene da un altro settore ma “crede nell’idea”. L’idea, appunto. Occhiali, fin qui nulla di nuovo, ma con un metallo più prezioso, il titanio.

Fino a 850 dollari per un “pezzo di metallo”

Il resto è storia di oggi, 310 euro per un paio, 470 dollari per il mercato americano e una limited edition placcata oro con la produzione di 400 pezzi bloccata poco prima della fine, vista l’eccessiva richiesta. Prezzi raddoppiati per l’occasione visto il matrimonio oro-titanio con i 650 euro europei e gli 850 dollari americani. Ma nulla vale più della nicchia: “Non c’è concorrenza con i colossi che vendono occhiali a 130 euro e puntano sui numeri”. Per Pramaor collaborazioni che spaziano dal sociale, Andrea Bocelli, al lusso: “L’accordo con un colosso italiano dell’auto e dello stile è a un passo dalla firma finale”.

Dal racconto al fare

Raccontata la storia, attraverso lo storytelling, il futuro è lo storydoing, il fare tradotto nei numeri: fatturato 2016 in crescita del 25 % sul 2015. In prospettiva l’idea di cooperazione: “Non punto al 51 % – dice Nicola – resto col 50%”. Il resto è diviso tra Giancarlo Recchia (“non l’ha scalata quando poteva, conservando le sue quote”) e fondi privati: “Meno fuoriclasse, più squadra”.
E quindi il territorio: “Prima i terzisti erano incubatori per lavorare in Luxottica, oggi qualcuno lascia il colosso, venendo da noi. Una scelta di vita”. Si tratta di capire da che parte del torrente stare, se a destra, Pramaor, o a sinistra, Luxottica.

E la mamma? “Non lavora più in azienda, ma è tenace, energica, non molla mai”.

Due-esami-due alla laurea

Nel paradosso dell’università della vita gli unici due esami che separano Nicola dalla laurea sono Tecnica industriale e Diritto pubblico dell’Economia. La prima – fonte universitaria – fornisce le competenze per una “visione organica sullo sviluppo di un’impresa”, il Diritto invece unisce Costituzione ed economia: cosa è lecito fare nell’interesse collettivo. “Li sosterrò, non so quando, ma li sosterrò”.

Il sorriso di Nicola è come quello di certi uccelli che, dopo aver navigato nel petrolio, se ne sbarazzano con calma, prima di riprendere il volo.

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