I giovani sono come la Sora Camilla. Tutti li vogliono e nessuno li piglia, considerando il loro ingresso nel mercato del lavoro. Nel 2015 il 64,1 per cento delle aziende italiane ha inserito al proprio interno stagisti o neolaureati, mentre le uniche assunzioni hanno riguardato appena il 5,1 per cento e tra queste soltanto pochissimi […]
I top manager giocano troppo a nascondino
In un mercato come quello attuale dove le organizzazioni sono diventate “liquide” e dove la velocità del cambiamento è dieci volte più grande rispetto a quanto eravamo abituati a vedere sino alla fine degli anni Novanta, è del tutto evidente che la differenza competitiva di un’azienda non è data semplicemente dal know-how (che può essere […]
In un mercato come quello attuale dove le organizzazioni sono diventate “liquide” e dove la velocità del cambiamento è dieci volte più grande rispetto a quanto eravamo abituati a vedere sino alla fine degli anni Novanta, è del tutto evidente che la differenza competitiva di un’azienda non è data semplicemente dal know-how (che può essere copiato e/o migliorato) ma dalle persone che vi lavorano e dalla loro capacità di saper prevedere, interpretare e governare questo immenso frullatore globale.
In Italia, in questi ultimi anni, abbiamo assistito alla scomparsa o alla trasformazione di grandi aziende storiche: Indesit o Esselunga, per citare le più eclatanti, oggi non esistono più per come le abbiamo conosciute e tutto questo è coinciso con la scomparsa dei loro leader storici che, in molti casi, ne sono stati anche i fondatori.
Ma come è potuto accadere tutto questo? La risposta è da ricercarsi nella miopia dei board aziendali che, preoccupati a difendere rendite di posizione, non hanno pensato a coltivare le giuste competenze manageriali che gli avrebbero permesso un corretto passaggio generazionale: sì, proprio le famigerate competenze.
Se questo paese ha un gap di leadership a tutti i livelli, un motivo c’è. Infatti per troppo tempo le competenze sono state più oggetto di convegni per le HR o argomento di studio da parte di professori universitari di tutto il mondo. Ma quanto effettivamente hanno fatto da driver nella strategia delle aziende, specialmente italiane? Se si pensa che generalmente l’area Sviluppo Organizzativo – che si occupa proprio delle competenze, sistemi di valutazione, rewarding – è comunemente definita “soft” rispetto alla contrattualistica e al sindacale – che invece costituisce la parte “hard” – allora si riesce a capire come negli anni abbiamo perso competitività.
Infatti la competitività non è semplicemente legata a fattori “hard” quali tecnologia, impianti, strumenti e processi, ma soprattutto alla capacità di “sfornare” sempre nuovi leader che siano capaci di guidare le aziende in questo mercato sempre più complesso, avendo cura della risorsa più importante: le persone.
Ecco che alcune competenze come il “People managing” e lo “Strategic thinking” diventano sempre più attuali e differenzianti in uno scenario come quello che si sta prospettando o che, in molti casi, si è già manifestato.
In un passato abbastanza recente ricoprire posizione di vertice appariva più semplice. Gli ingredienti del successo erano il titolo di studio in accoppiata con l’eventuale master, la fedeltà, l’anzianità di ruolo (vero viatico ad una progressione verticale), una forte competenza tecnica (che ti faceva apprezzare dall’azienda specie a inizio carriera) e un buon network con il vertice (necessario a creare i presupposti per ricoprire poi un ruolo di top).
La crisi economica di questi ultimi anni ha scoperto il vaso di pandora, per cui numerosi top manager per la prima volta si sono trovati ad affrontare nuovamente il mercato del lavoro, scoprendo improvvisamente di essere fuori contesto e fuori mercato.
La verità è che la crisi oltre che distruttiva è stata anche “catartica”. Infatti con la forza di un uragano, ha spazzato via tutto ciò che non era “ancorato a terra saldamente”, mettendo a nudo contraddizioni, sprechi e sovrastrutture. Lo sviluppo di una coscienza comune orientata alla valutazione e all’attenzione verso driver comportamentali alternativi ha reso più fragile la classe manageriale dei baby boomers. Ecco che competenze distintive come il coraggio, inteso come forza di allargare la propria comfort zone e come capacità di mettersi in gioco con strumenti e scenari nuovi (si pensi alla rivoluzione digitale e alla prepotenza con cui i social media sono entrati anche nella vita delle aziende), e il Lateral Thinking, inteso come la capacità di osservare la realtà con interpretazioni fuori dagli schemi e non consuete, hanno sfidato oggi i ruoli di leadership più solidi.
Se i top manager del sistema industriale italiano smetteranno di pronunciare slogan e si focalizzeranno sul serio su una gestione corretta delle competenze personali e dei propri collaboratori, allora riusciremo a vincere la sfida della competitività. In caso contrario ci toccherà fare come il filosofo greco Diogene, girando con una lanterna al buio alla ricerca di un leader.
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