Rigopiano a processo: tutti salvi tranne le vittime?

La tragedia di Rigopiano ha avuto un’eco in sordina sul piano legale: analizziamo l’esito della sentenza d’appello, le mancanze e le responsabilità dei coinvolti insieme a Massimiliano Gabrielli, avvocato della famiglia di una delle vittime

25.09.2024
Rigopiano, il cartello della località sommerso dalla neve

29 vittime, otto condanne, 22 assoluzioni. L’immagine della slavina, che sovrasta e distrugge l’hotel di Rigopiano il 18 gennaio 2017, sul versante pescarese del Gran Sasso, è rimasta impressa nella mente di tutti. Eppure quello che forse ci siamo dimenticati – assuefatti come siamo alle tragedie, comprese quelle sul lavoro – è che in quell’hotel qualcuno è morto proprio mentre lavorava. Tra loro c’era anche una ragazza di appena 22 anni, Ilaria Di Biase, sepolta per sempre sotto metri e metri di ghiaccio: nell’edizione cartacea di SenzaFiltro di settembre 2024, in un reportage dedicato a chi resta dei morti sul lavoro, abbiamo intervistato sua madre, Mariangela Di Giorgio, in un confronto intimo e lancinante.

In questa sede, invece, vogliamo analizzare l’esito e le prospettive del processo che ha riguardato la tragedia di Rigopiano. L’abbiamo fatto parlandone con chi l’ha seguita da vicino.

Rigopiano, negligenze e mancanze a processo

Il 3 dicembre il processo di Rigopiano è arrivato in Cassazione per verificare la legittimità delle 8 condanne emesse finora, riesaminare le 22 assoluzioni che hanno escluso la responsabilità penale di molti funzionari e valutare l’ipotesi di depistaggio.

Ma non solo: come spiega l’avvocato Massimiliano Gabrielli, che segue la famiglia Di Biase, tra i punti oggetto di rivalutazione c’era anche la responsabilità del datore di lavoro “per non aver previsto meccanismi che garantiscono la sicurezza sul lavoro. Se fosse stata riconosciuta l’aggravante specifica della morte colposa in violazione di tali norme, in processi come questo – difficili e destinati a durare un decennio – ci sarebbe il raddoppio dei termini di prescrizione fino a quindici anni, quando al momento sono di sette anni e mezzo”.

Tra le norme c’è l’art. 17 del D. Lsg 81 del 2008 secondo cui il datore di lavoro ha degli obblighi non delegabili. Deve, infatti, valutare tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori e redigere il DVR (Documento di Valutazione dei Rischi) in cui si individuano le misure di prevenzione e protezione e si designa un responsabile.

“E invece nel DVR, redatto nel giugno 2015 e revisionato nel novembre 2016”, continua Gabrielli, “era stato omesso il rischio di isolamento, nonostante nel marzo del 2015 l’hotel fosse rimasto isolato tre giorni e i vigili del fuoco fossero intervenuti in elicottero per portare generi di prima necessità e soccorso. Non solo il personale non ne era a conoscenza, ma proprio perché il DVR non era stato aggiornato sull’isolamento da neve eccessiva e chiusura della strada, non aveva una procedura da seguire. Quel giorno ha quindi continuato stoicamente a fare il suo dovere, organizzandosi in autonomia per gestire l’emergenza e l’isolamento”.

Il rischio, invece, per datore di lavoro e consulenti “era noto o comunque conoscibile per quel tipo di attività imprenditoriale in un’area di montagna servita da un’unica strada di collegamento con il centro abitato di Farindola; una strada che spesso veniva chiusa per intense precipitazioni nevose oltre che per rischi di valanghe”, come si legge nel ricorso presentato in Cassazione dalla Procura Generale presso la Corte d’Appello dell’Aquila.

Una strada che sarebbe dovuta restare sempre sgombra per garantire la sicurezza dei lavoratori e dei clienti il caso di infortuni, incendi, terremoti. Altrettanto importante sarebbe stato valutare la dotazione autonoma di mezzi come i gatti delle nevi, o prevedere la sospensione/interruzione dell’attività alberghiera.

La controversia delle assoluzioni

Al momento, per tali capi di imputazione, il direttore dell’hotel Bruno Di Tommaso e il consulente Andrea Marrone sono stati assolti, così come la Gran Sasso Resort & Spa S.r.l.: “Si ritiene che i dipendenti, in autonomia, abbiano fatto tutto il necessario e, anche se il DVR avesse previsto la situazione, le persone sarebbero decedute a causa della valanga, ritenuta imprevedibile. Ma bisogna valutare il preallertamento delle scosse di terremoto; inoltre, secondo la perizia, se la strada fosse stata libera, non si sarebbe accumulata così tanta neve – un muro di due metri – e i soccorsi sarebbero partiti subito”. E ospiti e dipendenti si sarebbero allontanati molto prima: ecco perché l’isolamento è un “rischio autonomo e distinto da quello valanghivo”.

Senza dimenticare, come si legge nel ricorso, che l’hotel non avrebbe dovuto essere costruito lì, o comunque non essere in funzione per un’ordinanza di sgombero che non c’è stata.

A ciò si aggiunge la telefonata delle 17.40 tra Di Tommaso e il Centro di Coordinamento Soccorsi della Prefettura. Si chiede al direttore dell’hotel conferma di una segnalazione ricevuta da Rigopiano in cui si parla di feriti per crolli. “Per lui è tutto sotto controllo: da un’altra località ha sentito i dipendenti via WhatsApp grazie a una parabola che garantisce il segnale”, chiosa Gabrielli.

Peccato che tutto fosse già successo poco meno di un’ora prima.

La sentenza del 3 dicembre 2024 sul caso dell'hotel Rigopiano: che cosa hanno stabilito i giudici

E alla fine la sentenza è arrivata: nessuna responsabilità del datore di lavoro per la mancata previsione del rischio da innevamento eccessivo, e del conseguente isolamento, all’interno del DVR (Documento Valutazione dei Rischi), che avrebbe permesso di gestire l’emergenza e salvare la vita di molti dipendenti e clienti. 

Il processo per quanto è successo a Rigopiano il 18 gennaio 2017 – quando la valanga travolse e uccise 29 persone – continua, ma “per la responsabilità del datore di lavoro su cui avevamo puntato il dito non c’è stato il riconoscimento in questo grado di giudizio”, commenta Massimiliano Gabrielli. 

“Resta quindi quanto era stato definito in precedenza, ossia le condanne al gestore dell’albergo e al geometra che aveva redatto la relazione allegata al permesso per la ristrutturazione dell’albergo, per i reati di falsità ideologica loro attribuiti. Sui risarcimenti in favore delle parti civili si deciderà all’esito del giudizio di rinvio”.

Nonostante non prenda in considerazione il tema della sicurezza da parte dei datori di lavoro, la sentenza della Cassazione del 3 dicembre dà indubbiamente delle speranze. Il processo continua con una versione “bis” a Perugia – probabilmente nel marzo 2025 – per i sei dirigenti della Protezione Civile della Regione Abruzzo e il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta. Confermata anche la sentenza di secondo grado per l’ex prefetto di Pescara Francesco Provolo, condannato a 1 anno e 8 mesi per omissione di atti d’ufficio e falso ideologico, nonché quella del capo di Gabinetto della stessa prefettura per falso ideologico in atto pubblico.

“La sentenza porta con sé una rivalutazione a carico loro, porta una dichiarazione di principi sulla responsabilità dei soggetti per il reato di disastro, tutti aspetti su cui avevamo puntato. Purtroppo porta anche con sé la prescrizione dei reati di omicidio colposo, perché nel tempo necessario a fare un nuovo processo di appello saranno tutti prescritti”, chiosa il legale.

“Mi sento sollevata, mi aspettavo il peggio e invece il processo continua”, ci dice Mariangela Di Giorgio, mamma di Ilaria Di Biase, 22enne morta in hotel mentre lavorava come cuoca. “Certo si allungano i tempi, è uno stillicidio, ma se fosse finita il 3 dicembre voleva dire che giustizia non era stata fatta. Nessuno mi riporterà indietro mia figlia che è stata ritrovata proprio mentre, nonostante tutto, cucinava per gli ospiti. La gente tende a dimenticare, ognuno com’è preso dalla sua vita, ma io la voglio tenere in vita e continuerò a farlo”.

 

 

 

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Photo credits: valsangro.net

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