Alberto Galla, il libraio dimezzato

Se in Veneto parli di librerie, Galla è un marchio. Il merito è anche quello di essere tra le rarissime indipendenti gestite da oltre 130 anni dalla stessa famiglia. Sarà che gli spiriti liberi suscitano già di per sé un fascino sottile, sarà che quando poi con gli spiriti liberi ci parli capisci che non […]

Se in Veneto parli di librerie, Galla è un marchio. Il merito è anche quello di essere tra le rarissime indipendenti gestite da oltre 130 anni dalla stessa famiglia.

Sarà che gli spiriti liberi suscitano già di per sé un fascino sottile, sarà che quando poi con gli spiriti liberi ci parli capisci che non sono tutti uguali e che battere un proprio sentiero è una scelta lunga che va saputa reggere sulle spalle e non solo sulle parole. In questo campo sono sempre in meno a reggere. Alberto Galla ha le spalle e i piedi saldi nella sua Vicenza, con la libreria proprio in mezzo a Corso Palladio a ribadire che il solco è profondo. Ha saputo tradurre cultura e capacità organizzativa mista a spirito di impresa, poco di moda tra i colleghi librai devoti solo ai libri; con la sola devozione, si sa, la strada è breve. Mai come oggi servono figure come lui che spingano il settore almeno un metro in là, anche solo un metro in là purché colpevole della direzione ormai urgente.

 

 

Ogni libreria è un palco. Cosa è passato, qui dentro, negli ultimi anni?

Complicato rispondere. È cambiato moltissimo, è cambiato tutto. La prima cosa, immediata, che mi viene in mente è che quella che chiamavamo la locomotiva d‘Italia adesso è in mano ai fondi e i proprietari che hanno ancora il 100% delle proprie aziende sono rimasti davvero in pochi e chi è rimasto è stato lasciato per fare il frontman e basta. Pensa che l’Associazione Industriale di Vicenza è ancora la terza d’Italia per numero di associati, non per numero di imprese. Che siano piccole o medie, quelle aziende che avevano finora creato valore ora si sono stancate.

“Creare valore” è pieno di sottotesti, implica significati complessi. Proviamo a capire cosa si intende per valore, qui in Veneto.

Diciamo che le imprese venete hanno creato benessere generalizzato e che, a un certo punto, tutto è andato in tilt. L’apoteosi di questo sasso nell’ingranaggio sono state le crisi bancarie, tra l’altro crisi recenti ma ampiamente annunciate per certi versi, tacerlo sarebbe ingiusto. La chiusura di un cerchio. Altro tema è che molte delle imprese venete hanno creato ricchezza tra la generazione dei sessantenni di oggi, quelli che si erano fatti interamente da soli, dal nulla, ma molti di loro – per non dire moltissimi – non sono riusciti a fare il salto di generazione. Persone che provenivano per lo più dalla terza media, che venivano realmente dalla terra, e che per i loro figli probabilmente avevano immaginato un’evoluzione. Li hanno fatti studiare e viaggiare, peccato che quei figli abbiano preferito non proseguire la strada segnata dalla famiglia. La segreta speranza di quegli imprenditori era sì farli emancipare con la formazione e la conoscenza ma, spesso inespresso, c’era in quasi tutti loro un ricatto psicologico a tenerli attaccati a casa, alle proprietà di casa. Molti figli, dopo aver visto il mondo fuori, hanno scelto di cambiare rotta.

Suona ingiusto e riduttivo dedurre che l’ostacolo più ingombrante a questo dialogo padri-figli sia stata la scarsa cultura dei padri?

Qui va detto che la grande ricchezza è stata non soltanto repentina e improvvisa ma per lo più costruita senza basi culturali. Gioco facile che, una volta incassati gli schei, i figli quei soldi un po’ se li sono mangiati, un po’ se li sono finanziarizzati, un po’ se ne sono allontanati perché hanno sentito di essere lontani da un modello che assolutizzava il lavoro sopra ogni cosa. Quei genitori sempre attaccati al capannone, i figli non li potevano più vedere. 

Le generazioni passate hanno costruito intere vite su due valori, solo due: lavoro e famiglia, quasi più lavoro che famiglia.

Come si è incrociata col tuo mestiere la poca cultura di cui stiamo parlando?

Forse non si è affatto incrociata. Noi i lettori ce li siamo dovuti andare sempre a prendere altrove. Il Veneto – per quanto percentualmente legga di più del centro e del sud Italia, dove va anche tenuto conto che sono numeri fortemente condizionati da bassi livelli di scolarità – in media legge poco. Eccezioni ce ne sono e come ma il dato medio è quello che fotografa realisticamente una società.

Ascoltandoti si intuisce una gestione del lavoro che si discosta da ciò che rimanda l’immaginario comune del libraio. Arrivano pensieri manageriali.

Io ho una formazione umanistica, vengo da un liceo classico. Ho tentato di proseguire gli studi ma sono stato costretto a fermarmi per prendere in mano l’attività di famiglia; di certo ho sempre impostato il mio lavoro con logiche più ampie, più imprenditoriali.

Non è facile riuscirci e il vostro lavoro si percepisce da fuori come un mestiere ingrato, di resistenza su tutto.

Fare l’imprenditore in questo campo è sudore tutti i giorni. Per fare propaganda si dice costantemente che il nostro è un lavoro che produce un doppio ordine di valore, uno economico – quando lo produce – e uno culturale, ma io sono stato spesso criticato per tutte le volte in cui ho detto che il nostro è un lavoro che vive dentro una logica di autosfruttamento. È così. Autosfruttamento del lavoro o autosfruttamento del capitale. Quelli che non hanno capitale vengono remunerati pochissimo della propria fatica, questa è la cruda verità ed è inutile che lo nascondiamo; chi invece ha capitale e liquidità, quando i conti non tornano ritira fuori il capitale e riparte. 

Vale per tutti i modelli di libreria?

Certo, vale per i piccoli e per i grandi, per le catene e per il gruppo organizzato. Questo è un lavoro durissimo perché esposto ogni giorno a qualsiasi stormir di fronda. Un tempo c’era la frottola per cui a lungo si è pensato che il mercato librario fosse anticiclico dal punto di vista economico ma a me ha sempre fatto sorridere: si parlava di guadagni o perdite ridicole davanti ai grandi numeri delle crisi. Poi di colpo, nel 2008, hanno cominciato a considerare ciclici anche noi, tutti nell’abisso insomma: è diminuita la capacità di spesa e il consumo in conoscenza ha continuato a non esser ritenuto strategico dai cittadini.

A me sembra che non sia ritenuto strategico a livello di Paese. Il livello di gestione della politica e delle nostre aziende – grandi o piccole, pubbliche o private – scade in partenza già da questa macchia originaria e capillare.

Siamo un’Italia che continua ancora a chiedersi se con la cultura si mangi o meno, ma intanto le statistiche ci confermano che il livello di lettura in Italia cala senza sosta. Però il discorso della preparazione culturale è un aspetto per me diverso, che chiama in causa altro. Qui nel Nord Est la capacità di visione c’era, c’è stata, ma di botto si è fermato tutto, tutto bloccato, tutto inchiodato. La causa, una sola, è il gap culturale.

Si è perso il gusto di lavorare.

Sì, hanno finito per finanziarizzare gli sforzi e le aziende hanno smesso di immaginare un mondo diverso. Vale per tanti altri pezzi d’Italia, sia chiaro. Mancando di fatto una base culturale, davanti alla difficoltà non sono stati capaci di andare oltre.

Chi sono i tuoi interlocutori?

Fatte le dovute eccezioni, se la tua domanda cerca di capire se ho imprenditori tra i miei clienti, la risposta è no e aggiungo purtroppo. Tu li vedi al volo quelli che leggono e lo vedi dalle loro imprese, li vedi quelli che hanno trasformato le aziende in laboratori di arte contemporanea per fare un esempio. Li capisci subito quelli che vogliono investire la ricchezza in qualcosa che vada al di là del denaro. Ma, ripeto, parliamo di dovute eccezioni.

Da parte delle istituzioni cosa arriva verso questo settore?

Mi viene da sorridere, è un discorso talmente lungo. Vengo proprio da una due giorni romana molto interessante in audizione alla settima Commissione del Senato, quella sulla Cultura, dove a differenza di chi ci ha preceduto (un importante editore) e a differenza di chi ci ha seguito (una importane catena libraria), siamo stati ascoltati 50 minuti, 20 in più rispetto agli altri. Avevamo tutti slot da mezzora ma noi siamo entrati con 5 minuti di ritardo rispetto alla tabella di marcia e chi è venuto appunto dopo di noi è entrato con ben 40 minuti di ritardo. Cosa vuol dire? Che senatori della maggioranza abbiano avuto interesse ad ascoltare noi poveri librai, questo ci ha stupiti e inorgogliti. Il giorno dopo invece abbiamo avuto udienza con il Sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria che è Vito Crimi, siamo quindi entrati nel cuore del grillismo della prima ora. Con altrettanta sorpresa è arrivata una ammirevole capacità di ascolto e comprensione di ciò che gli dicevamo e non posso negare che, nella mia precedente esperienza, di politici ne avevo incontrati tanti ma sempre con esiti diversi e soglie di competenza molto scarse.

Cosa vi chiede la politica quando vi convoca a casa sua?

Esattamente quello che mi hai appena chiesto tu: cosa può fare la politica per supportarci? Un discorso immenso, complesso. La Commissione Cultura, per essere precisi, ci ha convocati per la questione della App18 mentre Crimi ha richiesto un incontro con ALI (Associazione Librai Italiani) tramite la nostra casa madre che è Confcommercio.

Noi librai stiamo cecando di andare oltre tutte quelle politiche che riteniamo di base, necessarie e dovute, per sostenere il settore. Stiamo dicendo a voce alta alla politica che stiamo chiudendo bottega, uno dopo l’altro. Quindi o ci danno una mano o salta tutto. Non chiediamo assistenza, chiediamo attenzione. 

Concretamente proviamo a tradurlo.

Un esempio su tutti è la legge sul libro. Chiaro che c’è un discrimine molto sottile tra le esigenze del consumatore e le esigenze della libreria, ma se c’è un modo di arginare il progressivo dilagare del nemico numero uno che sta distruggendo il mercato delle librerie fisiche, questo modo passa necessariamente attraverso il rispetto delle regole, regole che debbono esserci e valere per tutti.

Esiste una lobby dei librai nella rappresentanza politica in Parlamento? Finora la storia ci ha sempre mostrato ben altre categorie professionali a spingere, molto più potenti già dal proprio interno.

Mi piacerebbe molto che esistesse una lobby dei librai, di fatto non c’è anche se noi nel piccolo ci proviamo. Ma, ripeto, siamo davvero piccoli. Io mi sono voluto mettere in prima linea anche personalmente, candidandomi alle recenti elezioni amministrative qui a Vicenza con una lista civica e ho fatto della cultura uno dei miei messaggi portanti. Un amico mi aveva avvisato: “In Italia con la cultura non ha mai vinto nessuno”. Infatti è andata così.

La cultura va giocata di sponda perché, difesa apertamente, fa paura.

Proprio quello che abbiamo detto a Crimi. Oggi 13 milioni di italiani non hanno una libreria sotto casa – ed è normale che nessuno apra una libreria nei piccoli paesi – ma proviamo a immaginare una grande città dove inizino a chiudere librerie e piccoli negozi di vicinato: quella città comincerà a cambiare faccia, fisionomia, relazioni, urbanistica, valore immobiliare. Solo iniziando a ragionare di scenario possiamo intuire la tragedia a cui rischiamo di soccombere, altro che fingere di preoccuparsi di sicurezza pubblica che è un totale falso problema. 

Su quali tasti sensibili state facendo appello alle Istituzioni?

Piccole cose che aiuterebbero le librerie a reggere i colpi: piccole detassazioni che non manderebbero in crisi i bilanci, affrancamento dal timbro comunale e relativa tassa per le librerie che promuovono attività culturali, alleggerimenti sulla tassa dei rifiuti. Sono esempi che spero rendano l’idea del punto di partenza oggi necessario. Non posso nascondere che in Italia esiste già una legge generosa che permette di comprare un libro anche col 15% di sconto – in tutti i maggiori Paesi europei non è così, in Germania è zero, in Francia e in Spagna è il 5%.”

Passiamo ai giovani, se vogliamo guardare un po’ oltre anche per il Veneto. Che mercato è per te?

Sui giovani la politica nazionale e locale segue un passo non corretto. Continuano a scodellare la storia della App 18 ma non è solo un discorso di avere o non avere un gruzzoletto per sostenere spese in cultura; qui il punto è educare i giovani a gestirlo un gruzzoletto in cultura, anche per chi le possibilità economiche le ha già. Sto parlando di educazione con una visione più allargata. Sappiamo di essere un Paese che si infastidisce di fronte alle regole, ma in questo settore più che mai le regole servirebbero a risollevarci. Il bonus cultura è ridicolo senza regole eppure la tecnologia avrebbe tanto da offrirci, peccato che pecchiamo diffusamente anche di competenze e visioni digitali. Molti, con entusiasmo, la chiamano “pedonalità”: significa che, grazie al bonus cultura, i ragazzi hanno messo piede in libreria e mi pare già un gran successo il solo fatto aver contrastato il fenomeno illegale delle fotocopie. Se solo immaginassimo di quanto altro potremmo beneficiare culturalmente tutti quanti se educassimo intere generazioni alla consapevolezza e alla necessità delle regole.

Tra i librai di questa regione, ogni provincia va a sé o si riesce a sviluppare progetti comuni? 

Abbiamo provato per anni a lavorare per distretti in questo pezzo d’Italia, funzionava bene ma poi è saltato perché non abbiamo saputo rinnovarne la visione. Il dato importante è che qui c’è un tessuto molto fitto di librerie indipendenti, e anche molto coeso, a parte qualcuno che crede di essere al di sopra delle parti. Esempi di reti tra i librai ci sono solo in Veneto, in Piemonte con Torino e infine a Roma. Però come regione siamo lenti. E siamo anche cani sciolti. 

Lenti, addirittura?

Forse è più corretto dire cani sciolti.

 

(Photo credits: Yuma Martellanz)

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