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Nel lavoro vince chi sfugge

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Francesco

Nato a Monza, classe ’97. Si laurea in Filosofia all’università Statale di Milano con una tesi su John Stuart Mill e il concetto di “libertà”. Prosegue gli studi in filosofia presso l’università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Qui si avvicina agli studi di genere, settore in cui vorrebbe specializzarsi. Ama l’arte, soprattutto quella moderna e contemporanea; il cinema, meglio se d’autore; la fotografia, specialmente se fatta da lui.

Francesco Emanuele Schifano

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Informazione senza filtro

Il mondo del lavoro, da tempo, è rimasto senza parole. Andiamo alla ricerca di un linguaggio che avrebbe dovuto unirci, ma che rischia di dividerci ancora di più.

Numero 108 - Lavoro senza parole


<p>Quando si varca il sontuoso portone di <strong>Palazzo Mezzanotte</strong>, sede della <strong>Borsa Italiana</strong> e tempio degli affari, realizzato dall’architetto Paolo Mezzanotte nel 1932, sembra di entrare in una chiesa. Il silenzio domina i marmi bianchi e neri e le ampie scalinate che portano alle sale operative e agli uffici; un silenzio quasi religioso dove però è il dio denaro a essere idolatrato.</p>



<p>Anche quando si raggiungono i saloni delle contrattazioni e si dà uno sguardo dalle vetrate alle decine di desk occupati da operatori incollati a tre computer per scrivania, l’unico rumore è quello dei bip. Non ci si immagina che fino alla fine degli anni Novanta era tutto diverso, il silenzio fin dalle prime ore del mattino era rotto da gruppi di scalmanati in giacca e cravatta che per tutta la giornata delle contrattazioni urlavano fino allo sfinimento cose incomprensibili e <strong>facevano andare le mani con gesti </strong>altrettanto intellegibili.</p>



<p>Era la cosiddetta <strong>Borsa gridata</strong> <strong>o <em>corbeille</em></strong><em>, </em>il luogo “sacro” dove si acquistavano e si vendevano fiumi di denaro sotto forma di azioni, obbligazioni future e altri certificati ad alto rischio; il luogo dove le cattedrali del capitalismo italiano celebravano le loro glorie o le loro tragedie, dove in qualche minuto si verificavano giganteschi crack finanziari o successi societari improvvisi.</p>



<p>Oggi di quella gestualità resta soltanto la <strong>scultura di Maurizio Cattelan</strong> che mostra l&#8217;irriverente dito medio al tempio del denaro proprio di fronte a Palazzo Mezzanotte. In verità le intenzioni dello scultore erano altre, il gesto non è una sfida alla cinica comunità degli affari, che pure ne avrebbe bisogno: è una critica al fascismo. <strong><em>Love</em></strong>, il nome della scultura, sta per “libertà, odio, vendetta, eternità”. La prima cosa che balza all’occhio è il lungo dito medio che si estende per più di due metri. Se tuttavia si osserva attentamente la scultura le altre dita non sono chiuse, ma mozzate: <em>Love</em>, come ha spiegato lo stesso Cattelan, rappresenta una mano impegnata in un saluto fascista ed erosa dal tempo in tutti gli arti, tranne appunto che nel dito medio. Il palmo della mano è rivolto verso palazzo Mezzanotte, e non il contrario, come avviene nel caso del celebre gesto di offesa. Non a caso la scultura è stata posizionata davanti alla Borsa, uno dei più noti esempi di architettura del ventennio fascista a Milano.</p>



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<h2 id="h-la-borsa-e-l-efficienza-silenziosa-dei-gesti-attorno-alla-corbeille">La Borsa e l’efficienza silenziosa dei gesti attorno alla <em>corbeille</em></h2>



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<p>Ma nell’era che precede l’avvento massiccio dell’informatica <strong>quali erano i gesti che</strong>, come per magia, <strong>muovevano flussi ingenti di denaro</strong> in tutto il mondo e con una velocità impressionante?</p>



<p>Immaginate <strong>una ringhiera circolare</strong>, <strong>la<em> corbeille</em></strong>, attorno alla quale si riunivano agenti di cambio e procuratori per concludere gli ordini e gli acquisti delle azioni. Trattandosi di scambi di enormi quantità di miliardi trattati ogni minuto ed essendo massima la confusione nei momenti della negoziazione, le grida erano accompagnate da <strong>gesti convenzionali</strong>.</p>



<p>Un secondo campo di impiego del linguaggio gestuale stava nella <strong>comunicazione tra le diverse zone della sala</strong>, in particolare tra le corbeille e la zona dei tavolini degli operatori, dove giungevano telefonicamente gli ordini di acquisto o vendita dalla clientela. L&#8217;addetto al tavolo li trasmetteva al collega in corbeille per la contrattazione. Nei gesti dell’agente di cambio, acquirente o venditore, c’era sia la <strong>quantità di azioni</strong> che una società voleva negoziare, sia il <strong>tipo di società</strong> da contrattare. Quando l’agente di cambio doveva dichiarare per quale società vendeva o comprava si affidava all’<strong>alfabeto muto</strong>.</p>



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<h2 id="h-corna-bastoni-e-volanti-il-linguaggio-gestuale-degli-operatori-di-borsa">Corna, bastoni e volanti: il linguaggio gestuale degli operatori di borsa</h2>



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<p>Ecco <strong>alcuni gesti</strong> che rappresentavano le società maggiormente trattate in Borsa.</p>



<p>Quando veniva trattato il titolo <strong>Bastogi</strong>, l’operatore simulava con la mano aperta che si muoveva dall&#8217;alto verso il basso in segno di rimprovero o addirittura a indicare bastonate.</p>



<p>Più semplice il gesto per indicare il gruppo <strong>Eridania,</strong> controllato ai tempi dalla famiglia Ferruzzi: per ordinare ad esempio cinquantamila azioni Eridania l’operatore apriva la mano destra a ventaglio come se dovesse fare una pennellata in orizzontale e contemporaneamente metteva un dito della mano sinistra sulla lingua come se dovesse assaggiare lo zucchero. Più complicato ordinare le <strong>Trenno</strong>: si trattava di mimare le redini di un cavallo durante la cavalcata.</p>



<p><strong>Toro Assicurazione</strong> necessitava delle semplici corna. A questo proposito, mi raccontava divertito un operatore siciliano, che nella sua Regione era difficile ordinare nella borsa locale delle azioni Toro con quel gesto.</p>



<p>La <strong>Snia Viscosa </strong>veniva chiamata con il gesto che il sarto fa tastando dal grossista la bontà e la qualità della stoffa che deve acquistare per il suo cliente.</p>



<p>Una volta era la <strong>Sip</strong>, oggi sarebbe TIM. I titoli telefonici venivano contrattati con un gesto semplice: la mano a pugno con l’indice e il pollice che richiamavano il telefono.</p>



<p>Per ottenere o vendere <strong>Ras</strong> bastava piegare la mano a mo’ di artiglio come per graffiare qualcuno o raschiare qualcosa.</p>



<p>Divertente il titolo <strong>Pirelli</strong> che veniva chiamato alle grida con un gesto osé: l’operatore simulava un seno abbondante tenendo le mani a coppa e muovendole in avanti e indietro come farebbe una ballerina brasiliana.<strong> Pirelli &amp; C.</strong>,detta anche Pirellina, veniva indicata invece con una mano tenuta parallela al pavimento come a mostrare l’altezza di un bambino.</p>



<p>Per acquistare o vendere <strong>Italgas </strong>l’operatore doveva simulare con il dito indice e pollice che stringevano il naso l’odore di gas, mentre <strong>Liquigas</strong> veniva richiamata con la mano a pugno chiuso e il pollice rivolto verso la bocca simulando una bevuta.</p>



<p>I due titoli più negoziati come <strong>Fiat </strong>e <strong>Generali</strong> avevano rispettivamente il gesto del volante e del saluto militare, mentre il titolo <strong>Olivetti </strong>veniva rappresentato dal ticchettio delle dita su una macchina da scrivere immaginaria.</p>



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<h2 id="h-gesti-e-giuramenti-chi-trasgredisce-non-entra-piu-in-borsa">Gesti e giuramenti: “Chi trasgredisce non entra più in Borsa”</h2>



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<p>Alla <strong>Borsa dei <em>Future</em> di Londra</strong> la gestualità è ancora oggi il modo per comunicare gli scambi tra le aziende di tutto il mondo.</p>



<p>La scena muta che si vede se andate a guardare da una vetrata il salone delle contrattazioni sembra un’istantanea di Oliviero Toscani: immaginate di vedere un gruppo di <strong>operatori</strong> che stanno in piedi e sono posizionati in circolo. Ognuno di loro ha una giacca di diverso colore che rappresenta la loro società. Per ore e ore gli operatori si scambiano titoli gesticolando. È uno dei lavori più alienanti nella comunità finanziaria: le contrattazioni per ogni operatore possono durare al massimo sei ore, con numerosi intervalli per consentire ai gesticolanti di sedersi e riposarsi.</p>



<p>I non addetti ai lavori si chiederanno come fosse possibile affidare alla gestualità scambi e quantità di denaro così ingenti. “Intanto – mi ricorda un vecchio broker di Piazza Affari – non tutto si esauriva nei gesti, c’era un giorno del mese in cui domanda e offerta si incontravano e i conti venivano saldati. Ma poi c’era, e ancora c’è, una legge non scritta nel mondo degli affari: gli impegni, sia pure gestuali, si rispettano, e <strong>chi trasgredisce anche una sola volta a Palazzo Mezzanotte non entra più</strong>”.</p>



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<hr class="wp-block-separator has-text-color has-background has-black-background-color has-black-color is-style-wide" />



<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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<p><em>Foto dal sito www.toledoblade.com</em></p>


La Borsa gridata e i mestieri che parlano a mano


<p>“<strong>1 articolo a 1 euro!</strong>” non è una provocazione, ma una realtà quotidiana che molti – troppi – nell’ambito editoriale conoscono e neanche nascondono.</p>



<p>Per chi non è addetto ai lavori, il vaso di Pandora è stato aperto da <strong>un annuncio</strong>, l’ennesimo, questa volta pubblicato dal sito nazionale <strong>Bakeca</strong> (sito di annunci gratuiti per chi cerca anche lavoro) in cui si ricercava “un copywriter (ghostwriter) che sappia scrivere <strong>due contenuti da 850 parole</strong> circa al giorno, ottima padronanza della lingua italiana e puntualità nella consegna. Titoli e argomenti dati dall’azienda. Retribuzione <strong>1 euro ad articolo</strong>”.</p>



<p>Inizio a cercare offerte di lavoro simili e comprendo appieno che la <strong>svalutazione economica dei lavori editoriali</strong> è una prassi, non un’eccezione. Chiedo a diversi rappresentanti di questo mondo di commentare la loro realtà, o almeno di aiutarmi a interpretare assieme i pochi dati ufficiali presenti su internet che si interessino delle tariffe gli “invisibili editoriali”, ossia copywriter, ghostwriter, web writer, articolisti e simili.</p>



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<h2 id="h-quanto-guadagnano-i-freelance-dell-editoria">Quanto guadagnano i freelance dell’editoria?</h2>



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<p>Prima di tutto, <strong>quasi mai è chiesto al freelance quale sia la sua tariffa</strong> (oraria o a pagina lavorata), ma sono solitamente proposti dei <strong>forfait</strong>, cioè una cifra complessiva nella quale far rientrare tutte le operazioni di lavorazione di un progetto editoriale. Per chi collabora con le piccole case editrici si assiste sempre più spesso alla concentrazione di più attività nella stessa figura professionale, racchiuse in maniera non specifica in quel pacchetto forfettario di cui sopra.</p>



<p>A partire da settembre 2019 <strong>Redacta</strong> (nata dall’iniziativa di alcuni soci e socie ACTA come inchiesta sulle condizioni di lavoro nel settore dell’editoria libraria) ha fotografato tramite un <strong>sondaggio anonimo</strong> online la condizione attuale in cui versa il lavoro editoriale.</p>



<p>L’indagine è rimasta aperta anche nei primi mesi del 2020. Finalmente ho sottomano dei dati ufficiali sulle tariffe e i compensi, i quali costituiscono la parte più rilevante del sondaggio, che viene costantemente aggiornata con nuove segnalazioni.</p>



<p>Se ci si focalizza sulle condizioni reddituali, il <strong>55%</strong> degli intervistati dichiara un <strong>reddito lordo inferiore ai 15.000 euro</strong>, mentre solo il 7% supera i 30.000 euro. Sopra i 20.000 euro, l’orario di lavoro supera le 42 ore settimanali. Tariffe medie orarie basse, da un massimo di 14 euro a un minimo di 6.</p>



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<h2 id="h-le-norme-europee-contro-gli-autonomi-dell-editoria-non-possono-ancora-contrattare-collettivamente">Le norme europee contro gli autonomi dell’editoria: non possono ancora contrattare collettivamente</h2>



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<p>Contatto <strong>Mattia Cavani</strong> (editor freelance e membro del consiglio direttivo ACTA) che mi conferma quanto “gli editori negli ultimi anni hanno spinto sia verso una compressione delle tariffe del cottimo, con un trasversale risparmio sui costi contributivi, sia verso una sempre maggiore esternalizzazione del lavoro di redazione”, e mi spiega con accuratezza il lavoro sugli equi compensi che con Redacta stanno portando avanti per definire “calcolatrice alla mano” quanto è giusto farsi pagare per ogni lavoro.</p>



<p>Da un lato troviamo i compensi consueti, estratti tra gli editori; dall’altra parte una costruzione sensata di quella che potrebbe essere una tariffa: i due risultati, come si può immaginare, divergono di molto.</p>



<p>Mattia mi chiarisce che solo negli ultimi anni la Commissione Europea ha cominciato una <strong>revisione delle normative antitrust</strong> che, al momento, <strong>impediscono ai lavoratori autonomi di contrattare collettivamente i compensi</strong>: per esempio, due grafici che concordano una tariffa sono trattati come imprese che fanno cartello.</p>



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<h2 id="h-una-guerra-tra-poveri-c-e-chi-lavora-a-un-centesimo-a-parola">“Una guerra tra poveri: c’è chi lavora a un centesimo a parola”</h2>



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<p>Le fragili condizioni contrattuali portano a un’<strong>omertà sulle retribuzioni</strong>. Più parlo con freelance e più mi accorgo che “metterci la faccia” per la loro giusta causa ha un prezzo alto da pagare: hanno paura che anche quel poco che guadagnano si possa perdere denunciando il loro malcontento nero su bianco. Come ad esempio <strong>Rebecca</strong> (nome di fantasia), 42 anni, copywriter con quindici anni di esperienza, diversi master e un dottorato in tasca. Appena la rassicuro sull’anonimato, diventa un fiume in piena.</p>



<p>“Nel nostro campo non c’è solidarietà, è una <strong>guerra tra poveri</strong>. Aziende importanti, Nord o Sud non fa differenza in questo (tranne poche realtà), pagano <strong>10 o 20 euro a pezzo</strong>, che non ti permettono di vivere di questo lavoro con dignità. Ti assicuro che il prezzario accettato va dai 5 ai 10 euro; per aziende maggiori, 20, a meno che non si parli di testi tecnici dove possono pagare 50 euro a cartella (con una mole intensa di materiale tecnico da studiare). Ma per i blog o i testi per siti web, dove non conta lo studio dell&#8217;argomento, chiedono davvero prezzi assurdi; arrivano a contare <strong>1 centesimo a parola</strong>. Se chiedi 20 euro a pezzo fatturato ti abbandonano. Accettano 5 euro a testo. Questo lavoro dopo 15 anni è diventato un hobby, il reddito me lo fornisce altro ormai. Sono tutti così. Infatti io mi sto reiscrivendo all&#8217;università per fare della mia laurea e del mio dottorato la base di un terzo titolo, con la speranza di insegnare. <strong>Sono troppo stanca di essere mal pagata</strong>.”</p>



<p>“L’amarezza è tanta, la rabbia pure. Sapere di non potersi permettere la vita per cui si è lavorato così tanto è duro da digerire, ma la partita IVA non perdona, e a <strong>ogni dieci euro fatturati ne restano sette puliti</strong>. Ovviamente da dividere per le diverse ore impiegate, con la modifica cifra di 3,50 euro, ossia l’equivalente del tuo impegno.”</p>



<p>È un duro sfogo quello di Rebecca, unito alla rassegnazione che non vedrà mai un lavoro dignitoso come ricompensa agli studi di una vita. La ascolto in silenzio. In casi come questi ogni parola è superflua.</p>



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<h2 id="h-silvia-faenza-amministratrice-di-ghostwriter-italia-non-siamo-tutelati-servirebbe-un-compenso-minimo-garantito">Silvia Faenza, amministratrice di Ghostwriter Italia: “Non siamo tutelati. Servirebbe un compenso minimo garantito”</h2>



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<p>La mia ultima intervista è con <strong>Silvia Faenza</strong>, ghostwriter, copywriter e blogger, amministratrice della pagina Facebook “Ghostwriter Italia”, che in sette anni di lavoro e due di gestione pagina ha visto transitare tante richieste e offerte di lavoro. Purtroppo mi conferma quanto essere sottopagati sia la normalità tra <strong>copywriter</strong>, <strong>web writer</strong> e <strong>ghostwriter</strong> e anche la <strong>confusione </strong>tra questi ruoli e la <strong>mancanza di un codice ATECO</strong> per ogni diversa categoria non aiuta. Anzi, affossa ancora di più queste professioni.</p>



<p>“La questione <strong>compenso equo</strong> è una problematica presente praticamente in ogni gruppo dedicato alla scrittura, al copywriting e lavoro online. Il problema? <strong>Non siamo tutelati</strong>, non esiste un ordine, né la reale possibilità di introdurre una tariffa minima per tutti, in quanto la gente che lavora gratis o sfruttata c&#8217;è e continuerà a esserci. Come continueranno a esistere coloro che propongono queste offerte da fame. Il problema principale è che c’è uno stuolo di persone che si credono professionisti e che lavorano a un centesimo a parola o anche meno. Il motivo? Poca professionalità, problemi economici, ma fino a quando ci sarà chi svende il suo lavoro, il problema non si risolverà mai. Molti editori si accontentano e quindi il mercato va sempre al ribasso.”</p>



<p>“Un <strong>compenso minimo garantito</strong> permetterebbe di non arrivare allo sfruttamento. È una cosa che non piacerebbe solo a me, è stata fatta anche una proposta di legge per i liberi professionisti, e più volte richiesta l&#8217;introduzione dal consiglio nazionale degli ordini e collegi professionali”<em>.</em></p>



<p>La loro pagina cerca di scremare il più possibile le offerte a ribasso, ma non sempre è possibile: non essendoci né un albo né un controllo sui tariffari, chi lo stabilisce che non si possa pagare un euro a cartella o in visibilità? Le realtà editoriali più piccole utilizzano questo ultimo metodo sempre più spesso nel far west di internet, dove <strong>solo se l’articolo viene cliccato e letto</strong> si dà all’autore un <strong>pagamento forfettario</strong>. Se il sito guadagna due euro, all’autore verrà gentilmente donato il dieci per cento, ossia venti centesimi.</p>



<p>È fondamentale che i professionisti abbiano una presa di posizione sul loro valore: non è né un hobby né un passatempo, è lavoro. Purtroppo l’<strong>assenza di forze politiche e sociali</strong> a difesa di una nuova società arrivata alla sua quarta rivoluzione industriale, quali ad esempio il sindacato, è palese e lotta contro di noi.</p>



<p>Non si vive di sole parole per chi ha bisogno anche del pane.</p>



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<hr class="wp-block-separator has-text-color has-background has-black-background-color has-black-color is-style-wide" />



<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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Freelance dell&#8217;editoria, il popolo del forfait guadagna un centesimo a parola

<p>“Come sei acida oggi, hai le tue cose?”; &#8220;per prendere questa decisione ci vogliono le palle, lo sai?&#8221;; “sai fare uno sguardo sensuale in ufficio?”; “hai intenzione di avere figli?”.</p>
<p>Sono solo alcune delle domande che almeno una volta nella vita una donna si è sentita rivolgere durante l’orario di lavoro. E sono tutti chiari esempi di <strong>sessismo</strong>, cioè quando si valuta le capacità o le attività delle persone in base al sesso di appartenenza, mettendo in pratica atti discriminatori.</p>
<p>Non di rado, tuttavia, si parla di sessismo con un livello di generalità che rasenta la chiacchera da bar, talvolta con faziosità e settarismo, molto più spesso con superficialità. Qui, invece, ne parliamo dati alla mano: dopo aver gettato la rete con il <strong>sondaggio lanciato da novembre a gennaio da FiordiRisorse all’interno della propria community</strong>, oggi mettiamo a disposizione di tutti quanto abbiamo raccolto. Da dentro il mondo del lavoro sono emerse tante voci che con le loro parole e le loro esperienze ci dicono tanto, molto, rispetto a cosa è il <strong>sessismo sul luogo di lavoro</strong> e a quanto è diffuso e dannoso.</p>
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<h2 id="h-i-risultati-del-sondaggio-di-fiordirisorse-sul-sessismo-sul-posto-di-lavoro">I risultati del sondaggio di FiordiRisorse sul sessismo sul posto di lavoro</h2>
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<p>Le <strong>669 risposte</strong> arrivate ci permettono di avere uno sguardo più chiaro sulla situazione, che non appare affatto rosea.</p>
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<figure class="wp-block-media-text__media"><img loading="lazy" decoding="async" width="359" height="214" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine1-1.png" alt="" class="wp-image-48017 size-full" /></figure>
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<p>Sono <strong>4 su 5 le donne che dichiarano di aver subito almeno un episodio di sessismo durante l’orario di lavoro</strong>, mentre gli uomini solo 1 su 5 (Grafico 1).</p>
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<figure class="wp-block-media-text__media"><img loading="lazy" decoding="async" width="362" height="267" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine2.png" alt="" class="wp-image-48018 size-full" /></figure>
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<p>Tuttavia, se domandiamo <strong>se si è mai assistito ad un episodio di sessismo</strong>, il 90% delle donne e l’80% degli uomini dichiara di essere stato protagonista o testimone di tale evento. Dato che ci indica un’elevata diffusione del fenomeno, oltre che, parrebbe, una certa conoscenza sul tema, anche da parte maschile (Grafico 2). </p>
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<p>La <strong>diffusione del fenomeno</strong> è decisamente omogenea tra Nord, Centro e Sud (Grafico 3), così come non si presentano differenze rispetto alla <strong>grandezza dell’azienda</strong>: episodi di sessismo sono similmente riscontrati a partire dalle realtà più piccole, sino a quelle più grandi (Grafico 4).</p>
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<figure class="wp-block-image size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine3.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="309" height="179" data-id="48020" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine3.png" alt="" class="wp-image-48020" /></a></figure>
<figure class="wp-block-image size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine4.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="344" height="185" data-id="48021" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine4.png" alt="" class="wp-image-48021" /></a></figure>
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<h2 id="h-che-cosa-succede-quando-si-denunciano-i-casi-di-sessismo">Che cosa succede quando si denunciano i casi di sessismo?</h2>
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<figure class="wp-block-media-text__media"><img loading="lazy" decoding="async" width="347" height="180" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine5.png" alt="" class="wp-image-48023 size-full" /></figure>
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<p>I dati veramente interessanti emergono allorché viene domandato <strong>se ci si sia rivolti all’ufficio personale</strong> in seguito a un episodio di sessismo subito: mediamente <strong>il 60% delle vittime non lo fa</strong>. Degna di attenzione è la distribuzione rispetto al genere, dal momento che ci segnala che circa l’80% degli uomini non si rivolge all’ufficio personale, mentre le 1 donna su 2 lo fa (Grafico 5). Questi valori ci segnalano una mancanza di fiducia rispetto alla possibilità di una presa di posizione da parte dell’azienda nei confronti di atteggiamenti sessisti; inoltre, la ancor più scarsa propensione degli uomini a rivolgersi all’ufficio personale indica la persistenza di consolidati stereotipi di genere per cui un uomo non può mai domandare aiuto in situazioni di difficoltà.</p>
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<p><strong>Ma cosa succede quando ci si rivolge all’ufficio personale?</strong> E nel caso in cui ciò non avvenga, quali sono le motivazioni? Come si apprende dal Grafico 6, il 25% delle vittime di episodi di sessismo non denuncia neanche il fatto, e le ragioni sono svariate: timore di ripercussioni, la paura di non essere creduti o semplicemente per mancanza di fiducia. Tra chi invece si rivolge all’ufficio personale ci sono esiti diversi; purtroppo, però, <strong>solo nel 10% dei casi questo comporta una sanzione</strong>, un richiamo o il licenziamento per il colpevole. <strong>Nel 45% dei casi è tutto perfettamente inutile</strong>: la denuncia non viene neanche ascoltata, oppure vengono promesse azioni che non si concretizzano mai. Tuttavia il dato ancora più preoccupante è quel <strong>20%</strong> di vittime che, in seguito alla denuncia, <strong>vede il fatto minimizzato</strong>, talvolta giustificato, e nei casi più estremi è la vittima stessa subire il licenziamento.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine6.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="351" height="297" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine6.png" alt="" class="wp-image-48024" /></a></figure>
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<p>Questi valori diagnosticano una situazione di tremenda gravità: sono infatti 9 su 10 le persone che affermano che vivere in un ambiente di lavoro sessista può condurre a lasciare il posto di lavoro. </p>
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<h2 id="h-le-frasi-sessiste-rivolte-alle-donne-sul-posto-di-lavoro">Le frasi sessiste rivolte alle donne sul posto di lavoro</h2>
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<p>Fino a ora abbiamo messo in luce i dati, freddi e crudi nella loro trasparenza, che tuttavia, probabilmente, non rendono in maniera abbastanza chiara che cosa possa significare subire violenze verbali sul posto di lavoro. <strong>Ma quali sono allora le frasi che una donna si sente dire?</strong></p>
<p>Si parte con la domanda per eccellenza in sede di colloquio: “<strong>Lei vuole avere figli?</strong>”. Una domanda sottile, ma che spesso traccia un invalicabile confine tra chi può ambire a un’assunzione e chi invece si deve rassegnare a essere lasciato a casa. Si passa poi al consolidato stereotipo del “<strong>nervosismo da ciclo</strong>” (“Siamo nervose oggi, sei mestruata?”), il più delle volte per screditare la reazione di una donna a frasi o atteggiamenti non graditi da parte di un uomo, come: “Bella quella gonna, si toglie anche facilmente!” oppure sproloqui di offensività senza pari come “Più che una crescita verticale, la vedrei meglio in posizione orizzontale&#8221;.</p>
<p>Ci sono poi gli apprezzamenti, o le <strong>denigrazioni</strong>, <strong>dell’aspetto estetico delle donne</strong>, un <em>evergreen</em> del sessismo: dai complimenti non richiesti come “hai proprio un bel c*lo”, sino a “potresti truccarti quando vieni a lavoro? Altrimenti i clienti si lamentano”. E non mancano le calunnie: si accusa di aver concesso favori sessuali per ottenere promozioni: “Quella ha fatto carriera sotto le scrivanie” e svalutazioni rispetto alla capacità di svolgere un compito: “Dai, è una donna, non è capace a fare questo”.</p>
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<h2 id="h-le-risorse-umane-inermi-nella-gestione-dei-casi-di-sessismo">Le risorse umane inermi nella gestione dei casi di sessismo</h2>
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<p>Il sessismo è strisciante, sopravvive, e talvolta prospera con atteggiamenti di tolleranza e passiva accettazione. Ma i comportamenti e le frasi sessiste sono più delle maschere goliardiche di cui vengono ammantati: sono vere e proprie <strong>forme di discriminazione e violenza</strong>. E come si può intuire, sul posto di lavoro questo origina un ambiente non adatto a trascorrere un terzo della propria giornata. Inevitabilmente si generano scompensi, come riporta l’EIGE, l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere: “È stato dimostrato che <strong>le aspettative e i comportamenti sessisti influenzano negativamente le prestazioni</strong>, il senso di appartenenza, la salute mentale e la soddisfazione sul posto di lavoro”.</p>
<p>Come mostrato dai dati, non di rado è una questione sottovalutata, soprattutto se si considera che <strong>l’organo preposto alla gestione delle risorse umane nel 65% dei casi si rivela inutile se non dannoso</strong>. Come ricorda sempre l’EIGE, un primo passo per affrontare diversamente queste situazioni è la formazione del personale destinato alle risorse umane: una conoscenza del tema deve essere un prerequisito fondamentale, oggi, per chi intende svolgere in maniera adeguata questo ruolo professionale. E le stesse aziende dovrebbero essere le prime a valutare con maggior attenzione la gestione dell’ambiente lavorativo, per il benessere dei lavoratori, per l’immagine dell’azienda e, anche in maniera egoistica, per la sua efficienza. </p>
<p>L&#8217;osservatorio completo è <a href="https://bit.ly/FdR_Osservatorio_Sessismo">scaricabile a questo link</a>.</p>
<p>Per ulteriori informazioni si consiglia la lettura del <a href="https://eige.europa.eu/sites/default/files/documents/20204159_mh0220657itn_pdf.pdf" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">manuale fornito dall’UE</a>.</p>
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Sessismo sul lavoro: a certi HR va bene così

Un sondaggio realizzato da FiordiRisorse all&#8217;interno della propria community raccoglie dati inquietanti sui fenomeni di sessismo nel lavoro: solo in un caso su dieci gli uffici del personale agiscono in modo positivo.

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<p>Un cambiamento culturale profondo, che si fonda sulla flessibilità spazio-temporale e sulla valorizzazione delle competenze: così potremmo definire lo <strong>smart working</strong>, l’approccio organizzativo <em>extra moenia</em> sempre più diffuso nelle piccole e grandi imprese, complici l’apporto di <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/lindustry-4-0-senza-le-persone-e-un-meccanismo-perfetto-con-le-lancette-al-contrario/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Industry 4.0</a> e le specificità del quadro pandemico.</p>



<p>La diffusione della COVID-19, infatti, ha indotto un numero sempre maggiore di organizzazioni a riconfigurarsi, con l&#8217;obiettivo di continuare a produrre in un contesto dominato dall’alea. In quest’ottica, lo smart working ambisce a superare la <strong>logica concessiva della pandemia</strong>, secondo la quale è necessario lavorare malgrado il virus, per aderire piuttosto al regime dell’<strong>implicazione</strong>: se il virus non permette di svolgere in azienda la propria attività, allora se ne ottimizzano le procedure. aggiustandosi alle potenzialità offerte dalla situazione.</p>



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<h2 id="h-l-importanza-di-essere-flessibili">L’importanza di essere flessibili</h2>



<p>Il cambiamento ambito dal lavoro smart prevede tre concetti-chiave: <strong>flessibilità</strong>, <strong>specializzazione</strong> e <strong>valorizzazione delle competenze</strong>.</p>



<p>Infatti, laddove il lavoro post-fordista vincola il <em>know-how</em> alla mera esecuzione di programmi ripetitivi, <strong>lo smart working valorizza l’espressione del potenziale</strong>, attraverso un paradigma che consente di scegliere quando, dove e come raggiungere l’obiettivo indicato. «Quindi, sostenendo implicitamente di adattare il processo lavorativo ai piani di vista del lavoratore», commenta <strong>Pierluigi Cervelli</strong>, docente di Scienze semiotiche del testo e dei linguaggi all’Università La Sapienza di Roma.</p>



<p>L’obiettivo, dunque, è <strong>ottimizzare</strong>. E ripensare in toto alle modalità di gestione del cambiamento: «Non basta un computer per riorganizzare la propria attività e oggi diventa sempre più necessario adeguare anche le modalità di esercizio del potere direttivo e di controllo», precisa <strong>Michel Martone</strong>, docente di Diritto del lavoro all’Università La Sapienza di Roma.</p>



<p>È questo il contesto in cui si colloca il concetto di <strong>flessibilità organizzativa</strong><em>.</em><em></em></p>



<p>In un <a href="https://www.jstor.org/stable/23192605" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">articolo del 1990</a>, Paul Hirst e Jonathan Zeitlin definiscono questa nozione come la capacità dell&#8217;impresa di adattarsi ai mutamenti in un contesto dato. Lo strumento-chiave? La <strong>specializzazione flessibile</strong><em>.</em> Quest’ultima, sfacciatamente ossimorica sul piano dell&#8217;espressione, richiama a livello profondo <strong>la nozione di mito secondo Claude Lévi-Strauss</strong>: la costruzione logica capace di accordare le opposizioni e risolvere le incoerenze. Di conseguenza, parlare di flessibilità organizzativa e di specializzazione flessibile induce a riflettere sulla specializzazione e sulla flessibilità, due concetti che strizzano l’occhio al tema delle competenze.</p>



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<h2 id="h-la-specializzazione-in-competente">La specializzazione (in)competente</h2>



<p>Il dizionario<a href="https://www.treccani.it/vocabolario/specializzazione/"> </a>Treccani la definisce come il possesso di una particolare esperienza o capacità in un determinato settore; nonostante ciò, i contorni della specializzazione sembrano oggi sempre più sfumati rispetto all’idea di competenza in un campo specifico e si definiscono, piuttosto, in una chiara prospettiva di flessibilità.</p>



<p>Come evidenziano Gianfranco Marrone e Tiziana Migliore in un <a href="http://www.meltemieditore.it/catalogo/la-competenza-esperta/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">celebre saggio</a>, i nostri sono i tempi della <strong>crisi dell&#8217;expertise</strong>: prese le distanze dalla specializzazione parcellizzata e ufficiale, e complice un contesto un contesto che sembra evocare una forma singolare di “guerriglia<a href="https://www.youtube.com/watch?v=hQutFV0hyXs"> </a>semiologica”<em> </em>(pensiamo a quelle che Anna Maria Lorusso definisce come “postverità”), <strong>oggi tutti si sentono esperti in tutto</strong>. Anche nelle aziende smart<em>,</em> che sempre più spesso minimizzano la portata specialistica delle hard skill a favore delle competenze soft: trasversali e flessibili.</p>



<p>Non è un caso che le competenze soft attengano in modo specifico al <strong>gruppo di lavoro</strong>, altro concetto-chiave del lavoro smart: «Un contesto nel quale ciascuno può prendere la parola e occupare la posizione di soggetto di discorso, per domandare chiarimenti e fare proposte, ma anche per definire le modalità attraverso cui raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione», commenta Cervelli. «D’altro canto, la <strong>possibilità permissiva</strong> che caratterizza questa forma di lavoro pretende di compensare la flessibilità spaziale, temporale e professionale con lo scambio d’informazioni all’interno del gruppo, definito a sua volta da una leadership sempre meno direttiva e da un’interazione sempre più slegata dalle vecchie logiche gerarchiche».</p>



<p>Questi elementi producono un sentimento di <strong><em>empowerment</em></strong>, un senso di responsabilizzazione e un effetto di autonomia: «Da questo punto di vista, sembra che si tratti di una sorta di compimento di quel processo di lavoro “creativo” tipico dell’immaginario legato al mondo statunitense di alcune aziende hi-tech di successo», chiarisce Cervelli.</p>



<p>In definitiva, pare proprio che la specializzazione flessibile consenta al lavoratore di valorizzare il proprio potenziale, adattando skill diverse a sfide spesso impreviste: «Per rispondere con creatività al cambiamento e risolvere in modo autonomo tutti quei problemi che, in un contesto organizzativo tradizionale e basato sulla programmazione, avrebbero implicato il coinvolgimento dell’intero sistema produttivo», sottolinea Cervelli.</p>



<p>Questo in un’ottica evidente di <strong>autodeterminazione</strong>: «La rivalutazione della dimensione contrattuale, individuale e collettiva, diventa il luogo in cui le parti concordano le modalità dell’adempimento, il modo di svolgimento e gli orari di lavoro», commenta Martone. «Malgrado ciò, l&#8217;effetto di autonomia alla base dello smart working non è esente da rischi, e il principale, legato a un’eccessiva autonomizzazione della prestazione, consiste nello <strong>sgretolamento della dimensione collettiva</strong> che caratterizza l’impresa».</p>



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<h2 id="h-il-fascino-seducente-della-specializzazione-flessibile">Il fascino seducente della specializzazione flessibile</h2>



<p>Ma questa specializzazione flessibilmente smart, che si contrappone alla regolarità del lavoro tradizionale, è davvero in grado di evocare quello che Algirdas Julien Greimas definisce come il “<strong>codice della sovranità</strong>”, che consente al lavoratore di scegliere al tempo stesso <strong>cosa poter fare e cosa poter non fare</strong>? E ci troviamo realmente di fronte a quella che Éric Landowski definirebbe come una forma di <strong>aggiustamento</strong>, nella quale né lo <em>smarter working</em> né le organizzazioni flessibili pianificano in anticipo e con esattezza ciò che dovrà risultare dall’interazione con l’altro?</p>



<p>Dal punto di vista normativo, probabilmente sì. Ci troviamo di fronte a un cambio di passo epocale: «La libertà del lavoratore si configura nell’<strong>assunzione della responsabilità rispetto al risultato</strong>», prosegue Martone. «Un tempo, il lavoratore dipendeva dall’equazione lavoro-tempo e l’adempimento dipendeva dalle istruzioni fornite dal datore di lavoro; nel caso dello smart working, invece, tutto si configura in base al risultato e quindi, quando questo è soddisfatto, il lavoratore acquista la libertà di lavorare al di fuori degli orari di lavoro, quando, dove e con le modalità che ritiene più opportune, perché ciò che conta è semplicemente l’adempimento».</p>



<p>Dal punto di vista semiotico, invece, probabilmente no. E per <strong>tre ragioni</strong>.</p>



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<h2 id="h-la-ragione-ideologica-una-trasformazione-che-viene-dall-alto">La ragione ideologica: una trasformazione che viene dall’alto</h2>



<p>La prima è quella <strong>ideologica</strong> e riguarda il cambiamento culturale che sottende questa forma di lavoro extra moenia.</p>



<p>Perché Guy Clapperton e Philip Vanhoutte, autori dello <em>Smarter Working</em><a href="https://books.google.fr/books/about/Il_manifesto_dello_smarter_working_Quand.html?id=5RbYoAEACAAJ&amp;redir_esc=y"><em> </em></a><em>Manifesto</em>, lo evidenziano con chiarezza: <strong>la trasformazione dev’essere guidata dall’alto</strong>. Di conseguenza, lo smarter working aderisce in modo prescrittivo a un sistema assiologico eterodefinito, anche quando questo non è condiviso. Pensiamo al modello<a href="http://www.benschneiderphd.com/People_Make_the_Place_PP_1987.pdf"> </a>ASA, proposto da Benjamin Schneider nel 1987, secondo il quale le organizzazioni hanno tendenza ad attrarre, selezionare e allontanare il lavoratore in base al grado di aderenza al sistema di valori aziendale.</p>



<p>In definitiva, l’adesione al cambiamento non si fonda semplicemente su un far sembrare vero da parte dell’organizzazione e su un credere essere vero da parte del lavoratore; piuttosto, lo smarter worker è posto di fronte alla valorizzazione dell&#8217;apparire rispetto alla categoria veridittoria apparire-non essere. Con un chiaro effetto di <strong>illusione</strong> rispetto al suo effettivo coinvolgimento nella definizione delle prassi aziendali.</p>



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<h2 id="h-la-ragione-organizzativa-radicata-negli-obiettivi-aziendali">La ragione organizzativa radicata negli obiettivi aziendali</h2>



<p>La seconda ragione è quella <strong>organizzativa</strong>.</p>



<p>Come sottolinea Cervelli: «Gli obiettivi aziendali restano inevitabilmente eterodefiniti rispetto al lavoratore e la flessibilità riguarda i soli tempi, spazi e modi da applicare per raggiungerli». In una parola, le <strong>tattiche</strong>. «D’altra parte gli obiettivi non possono che essere aziendali, perché altrimenti il lavoratore non sarebbe altro che un libero professionista», precisa Martone.</p>



<p>In tutti i casi, benché lo smarter worker venga incoraggiato a prendere iniziative e a proporre soluzioni, il suo raggio d’azione resta ampiamente ridotto e comunque subordinato alle rigide <strong>strategie aziendali</strong>. In definitiva, il far-fare attivato dall’organizzazione si fonda su una manipolazione i cui contorni del voler-fare sono sempre più sfumati rispetto a quelli del dover-fare.</p>



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<h2 id="h-la-ragione-tecnica-onori-e-oneri-della-flessibilita">La ragione tecnica: onori e oneri della flessibilità</h2>



<p>La terza ragione è quella <strong>tecnica</strong> e riguarda il tema delle competenze.</p>



<p>«La specializzazione flessibile, lo strumento indicato per raggiungere gli obiettivi aziendali, vincola di fatto il lavoratore alla loro realizzazione», commenta Cervelli. «Di conseguenza, il <strong>mancato raggiungimento degli obiettivi</strong> non è più imputato a eventuali lacune dell’organizzazione e <strong>ricade invece sul lavoratore</strong>, incapace di applicare le competenze trasversali valorizzate dal lavoro smart».</p>



<p>«In altri termini, il permesso dato ai lavoratori di flessibilizzare tempi, modi, spazi e competenze si traduce di fatto nell’obbligo a farlo, quindi nella necessità perpetua di imparare a imparare: non già nell’acquisizione continua di know-how<em>,</em> ma piuttosto in una perdita di competenza che si può rinnovare senza limiti. E quella che potrebbe apparire come una forma di aggiustamento tout court si configura, piuttosto, in un <strong>aggiustamento costrittivo</strong><em>.</em> Inoltre, quello che si definiva “imparare a imparare” spesso non è altro che l’ingresso indebito delle modalità dell’interazione lavorativa nel tempo del privato e del personale», conclude Cervelli.</p>



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<h2 id="h-la-specializzazione-flessibile-un-processo-in-divenire">La specializzazione flessibile, un processo in divenire</h2>



<p>In definitiva, sotto il profilo normativo ci troviamo probabilmente di fronte a una svolta, e il cambio di passo, dalla mansione all’adempimento, sembra spostare il focus <strong>da una rappresentazione protocollare del lavoro a una concezione più finemente</strong> <strong>prototipica</strong>, in grado di valorizzare le peculiarità del lavoratore e il grado di contingenza che ne determina il raggio d’azione. Malgrado ciò, un’analisi delle strutture alla base della specializzazione flessibile sembra lasciare la questione aperta.</p>



<p>E allora, smarter worker di tutto il mondo, unitevi!</p>



<p>Non avrete da perdere che le vostre catene: quelle stesse catene che, ancora oggi, uniscono a doppio filo il lavoratore a certi riti idealmente connaturati alla mansione svolta. Per il momento, però, di fronte all’interrogativo tendenzioso sulla prospettiva di un braccialetto elettronico, più sofisticato rispetto alle catene di metallo di ieri, non possiamo che sospendere il giudizio. E pensare, come direbbero Battisti e Mogol, che lo scopriremo solo vivendo.</p>



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<p><em>Foto di copertina di Vlada Karpovich da Pexels</em></p>


Smart working, parola agile per una cultura lenta


<p>Quando dalle nostre parti – nella nostra piccola porzione di mondo cosiddetto benestante – pensiamo al <strong>significato della parola</strong> “<strong>lavoro</strong>”, ci destreggiamo tra due estremi: da un lato evoca fatica e dispiacere, dall’altro la nobiltà che dovrebbe garantire all&#8217;uomo.</p>



<p>Di certo i suoi numerosi e spesso contrastanti significati, a seconda dei contesti e delle epoche, rimbalzano dal concetto di maledizione a quello di benessere, fino a significare anche occasione di redenzione. Come mai? Proviamo ad approfondire.</p>



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<h2 id="h-l-etimo-del-lavoro-una-storia-di-sofferenza">L’etimo del lavoro, una storia di sofferenza</h2>



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<p>Già dal punto di vista dell’<strong>etimologia</strong>, quella parola appare un’arma a doppio taglio.</p>



<p>Nella cara vecchia Enciclopedia Einaudi si spiega bene quello che intendiamo: «“Lavoro” in italiano, <em>labour</em> in inglese, <em>travail</em> in francese, <em>trabajo</em> in spagnolo…: questi sono i termini in alcune lingue europee. “Lavoro” e <em>labour</em> derivano dal latino <em>labor</em> che significava “<strong>pena</strong>” “<strong>sforzo</strong>” “<strong>fatica</strong>” “<strong>sofferenza</strong>”…». In <strong>Francia</strong>, «nel XII secolo, insieme a <em>labeur</em> era apparso <em>ouvrier,</em> dal latino <em>operarius</em> “uomo di pena”» (il nostro “operaio” di oggi).</p>



<p>Sorprendentemente – ma forse no, come vedremo – nelle <strong>lingue anglosassoni</strong> e <strong>slave</strong> pure altre parole che significano “lavoro” derivano da radici che suggeriscono fatica e sofferenza: è il caso di <em>arbeit</em> in tedesco (dal protogermanico <em>arbaidiz</em>, “servitù”), di <em>work</em> in inglese (dalla radice indoeuropea <em>*werg</em>, <em>*worg</em>, “fatica”) e di <em>rabota</em> (in origine “lavoro forzato”) nelle lingue slave (da cui nasce la parola “robot”, il nome con cui lo scrittore ceco Karel Čapek, nel dramma fantascientifico <em>R</em>.<em>U</em>.<em>R</em>. del 1920, definisce gli automi che lavorano al posto degli operai).</p>



<p>È molto interessante anche la <strong>storia del termine francese <em>travail</em></strong>, usato per “lavoro” a partire dalla fine del XV secolo: in quel periodo «assume il significato moderno di “opera da fare”&#8230; Bisogna attendere la fine del XVII per vedere infine apparire <em>travailleur</em>» (“lavoratore”). <em>Travail</em> fu “importato” nell’Italia medievale per diventare la parola “travaglio”. In varie lingue o dialetti neolatini ha mantenuto il significato “lavorativo”: dallo spagnolo <em>trabajo</em> al portoghese <em>trabalho</em>, dal sardo <em>traballu</em> al genovese <em>travaggiu</em>, dal <em>travagghiu</em> in Sicilia al <em>travai</em> in Piemonte e al <em>travagghiare</em> in Salento.</p>



<p>In italiano “travaglio” oggi è usato quasi esclusivamente col significato di pena, sofferenza, afflizione, guarda caso anche riferito ai dolori della partoriente. Il bello è, si fa per dire, che la parola <em>travail </em>in Francia era comparsa già a partire dall’XI secolo: <strong>per designare uno strumento di tortura</strong> chiamato in latino medievale <em>tripalium,</em> “composto di tre pali”. «<em>Travailler</em> significava quindi torturare per mezzo del <em>tripalium</em> e il <em>travailleur</em> non era la vittima, ma il boia», si legge nella Einaudi. Finché è diventato “lavoratore”, in generale.</p>



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<h2 id="h-il-lavoro-nella-bibbia">Il lavoro nella Bibbia</h2>



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<p>Le parole usate per “lavoro” in varie lingue lasciano dunque intravedere <strong>un’atavica coercizione</strong>, piuttosto che la salvezza.</p>



<p>Questa circostanza ricorre anche nell&#8217;<strong>Antico Testamento</strong><em>, </em>comune a tutte le religioni monoteiste (ebraismo, islamismo, cristianesimo).All’inizio del libro della <em>Genesi</em>, <strong>Dio è il primo lavoratore</strong>, orgogliosamente impegnato nella creazione. Nella Bibbia cattolica si legge che il Signore, «nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro». Fa parte dell&#8217;essenza del divino: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona».</p>



<p>Peccato (inteso come quello originale) che <strong>Adamo ed Eva</strong>, nonostante si stessero godendo il ruolo di amministratori delegati del Paradiso terrestre loro attribuito dall’Onnipotente, non resistettero alla tentazione della famosa mela proibita. Risultato: la coppia fu licenziata in tronco e nella Bibbia il concetto di “lavoro” viene subito dopo sostituito dalla parola “fatica”, intesa come necessità di lottare contro la natura divenuta ostile, tra difficoltà e sfinimento.</p>



<p>«Con il sudore del tuo volto mangerai il pane», decreta l’Onnipotente rivolgendosi a Adamo. Detto fatto, «il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché́ lavorasse il suolo da cui era stato tratto».</p>



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<h2 id="h-il-lavoro-nobilita-l-uomo-ma-come-ci-si-e-arrivati">Il lavoro nobilita l’uomo, ma come ci si è arrivati?</h2>



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<p>La condanna divina è uno dei due estremi, quello negativo, cui ci riferivamo all’inizio. All’estremo opposto c’è un celebre modo di dire: “<strong>Il lavoro nobilita l’uomo</strong>” (non per caso il Festival lanciato da <em>FiordiRisorse</em> e <em>SenzaFiltro </em>si chiama <em>Nobìlita</em>). Quel modo di dire è spesso attribuito a <strong>Charles Darwin</strong>, padre della teoria dell’evoluzione, anche se non esistono prove documentali. Si tratta di un concetto molto moderno, considerando che il lavoratore normale per decine di secoli nel mondo occidentale si è ammazzato di fatica senza avere alcuna garanzia, e in gran parte del pianeta va ancora così.</p>



<p>Di certo, il significato di quel modo di dire è chiaro e noi contemporanei ce lo sentiamo ripetere fin dall&#8217;infanzia: <strong>l&#8217;uomo diventa migliore</strong>, eleva la sua dignità, <strong>soltanto quando lavora</strong>.</p>



<p>Ovviamente oggi si ritiene che, per sentirsi nobilitati, occorra lavorare nel modo giusto, con la corretta <strong>retribuzione</strong>, con il giusto <strong>contratto</strong>, nel rispetto dei doveri e dei diritti, in sicurezza, senza subire i soprusi del datore di lavoro o del capo di turno. Infatti è difficile che si senta “nobilitato” chi – con contratti più che precari e a termine – deve passare ore e ore rispondendo per telefono a utenti imbizzarriti o deve correre senza tutela per portare pizze qua e là; oppure chi – in nero e per pochi euro – deve trascorrere giornate sotto il sole in estate o al gelo in inverno, per raccogliere i nostri pomodori o mandarini.</p>



<p>Per illustrare <strong>l’evoluzione del rapporto col lavoro</strong> da parte del genere umano occorrerebbe molto spazio: la strada è stata lunga, partendo dalla maledizione biblica contro Adamo ed Eva (o, più laicamente, dal primo utensile impugnato dalla specie Homo sapiens) per arrivare, dalla fine del Settecento in poi, a rivoluzione industriale, capitalismo, marxismo, movimenti operai e contadini, socialismo, sedicenti “paradisi dei lavoratori” di matrice comunista, fino alla nostra ottimistica <strong>Costituzione</strong> (articolo 1: «L&#8217;Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro») e alle <strong>conquiste sociali e sindacali</strong> raggiunte dei Paesi liberal-democratici durante la seconda metà del Novecento, come il nostro Statuto dei lavoratori (la legge 20 maggio 1970, n. 300).</p>



<p>Sicuramente, le conquiste sindacali e politiche che hanno garantito ai lavoratori una serie di <strong>diritti</strong> (assieme ai doveri), sono un traguardo raggiunto a partire dagli ultimi 150 anni, per lo meno nei Paesi di matrice occidentale. Frattanto molte conquiste sono state minacciate o cancellate. Conquiste minate – Italia in testa – dalla <strong>precarizzazione</strong> divenuta la regola, grazie a vari politici compiacenti e a molti imprenditori che li hanno sostenuti. È il caso, in Italia, del progressivo <strong>smantellamento dello Statuto dei lavoratori</strong> a colpi di contratti depotenziati e diritti mutilati (il cosiddetto Jobs Act renziano, parzialmente censurato dalla Corte costituzionale, ne è stato un esempio).</p>



<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<h2 id="h-lavoratori-di-tutto-il-mondo-nobilitatevi">Lavoratori di tutto il mondo, nobilitatevi</h2>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>Resta il fatto che il dualismo tra lavoro come pena e il lavoro come realizzazione personale è ancora oggi irrisolto; è non risolto nonostante l&#8217;emergenza pandemica abbia fatto emergere l’era luccicante dello <strong>smart working</strong>, che vorrebbe farci apparire trendy ciò che è spesso solo vecchio sfruttamento e nuova precarietà in salsa informatica (per non parlare dei moltissimi lavoratori stranieri e italiani sfruttati, nel vecchio stile, in tante nostre campagne).</p>



<p><strong>Come restituire alla parola “lavoro” la nobiltà che merita?</strong> Occorre, tra l’altro, contrastare la narrazione in base alla quale esistono “imprenditori buoni” costretti a subire la presunta mancanza di lavoratori all’altezza delle loro aspettative e ad “assumere” ragazzi che non avrebbero voglia di lavorare; quando semmai troppe aziende sono così incolte e destrutturate da non sapere trovare la manodopera, se non a colpi di impieghi sottopagati e precari.</p>



<p>Nei <em>Manoscritti economico-filosofici </em>del 1844, Karl Marx affermava che «il lavoro fa dell’operaio una merce», partendo dal presupposto che «diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce»; ben 178 anni dopo, nell’era digitale, una marea di lavoratori rischia troppo spesso di riconoscersi ancora in quell’affermazione e anche nelle radici ataviche dell’etimologia della parola: lavoro come sofferenza e non come realizzazione personale.</p>



<p><strong>È ora di nobilitarsi e di mobilitarsi. Sul serio</strong>.</p>



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Il lavoro, che travaglio

<p><strong>I maschi sono in crisi</strong>.</p>
<p>Da circa cinquant’anni, gli uomini vivono un processo di ridefinizione della propria identità. Se l’identità delle donne è passata tramite una serie di acquisizioni di nuovi diritti, prima negati, gli uomini stanno affrontando – almeno alcuni, almeno in parte – un processo di abdicazione più o meno volontario rispetto a consolidati doveri e privilegi. La figura del padre-padrone ha subito forti contraccolpi, anche grazie al paziente lavorio del femminismo, ma molto resta ancora da fare, soprattutto per quanto riguarda la <strong>relazione tra l’identità maschile e il lavoro</strong>.</p>
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<h2 id="h-procurare-il-pane-e-una-questione-di-autostima">Procurare il pane è una questione di autostima</h2>
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<p>Una parte costitutiva dell’identità maschile è sempre stata allacciata a doppio filo con la sfera del lavoro. Se la donna è stata infatti legata e relegata all’ambito della sfera familiare e domestica, l’uomo ha sempre fornito, tramite il suo lavoro, una <strong>fonte di sostentamento e dignità</strong> alla sua famiglia, in quanto responsabile di essa nei confronti della società.</p>
<p>Un uomo è spesso <strong>prima il suo lavoro e poi il suo nome</strong>, persino a livello di linguaggio. Quanto è radicata l’abitudine, anche nei contesti più informali, di chiamare l’uomo che si ha davanti in base alla professione? L’“avvocato”, il “dottore”, l’“ingegnere” e via discorrendo, seguito dal nome. Ma cosa ci può dire questa consuetudine? Oltre che un’evidente forma di rispetto per lo status sociale, questo fenomeno indica quanto nella e per la <strong>definizione di un uomo</strong> sia cruciale <strong>l’associazione alla professione</strong>.</p>
<p>Per l’identità maschile <strong>riconoscersi ed essere riconosciuti come lavoratore</strong> non è un’opzione: da ciò deriva buona parte dell’autostima e la possibilità di vedersi assegnato un ruolo e uno status. La capacità di costruirsi una carriera è, per molti uomini, non solo occasione di benessere materiale, ma prima di tutto di benessere mentale.</p>
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<h2 id="h-gli-oneri-del-privilegio-maschile-quattro-suicidi-su-cinque-sono-uomini-e-molti-per-cause-lavorative">Gli oneri del privilegio maschile: quattro suicidi su cinque sono uomini, e molti per cause lavorative</h2>
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<p>Per lungo tempo il lavoro è stato visto solo ed esclusivamente come un privilegio per gli uomini e un diritto negato alle donne, ma per certi aspetti rischia di trasformarsi in un destino ineludibile e una condanna a una sola dimensione. Come ricorda l’antropologo Pierre Bourdieu ne <em>Il dominio maschile</em>: “<strong>Il privilegio maschile è anche una trappola</strong> e ha la sua contropartita nella <strong>tensione</strong> e nello <strong>scontro permanenti</strong>, spinti a volte all’assurdo, che ogni uomo si vede imporre dal dovere di affermare in qualsiasi circostanza la sua virilità […]. L’uomo ‘veramente uomo’ è quello che si sente tenuto a essere all’altezza della possibilità che gli viene offerta di accrescere il suo onore cercando la gloria e la distinzione nella sfera pubblica”.</p>
<p>La <strong>condanna alla sfera pubblica</strong>, e a trovare una legittimazione in essa, spinge gli uomini a trovare conferma della propria identità maschile tramite la <strong>competizione</strong>, che nella società post-industriale è incanalata nel lavoro. Che sia la ricerca di una carriera di successo o l’assunzione di responsabilità rispetto al benessere della famiglia, l’uomo si riconosce e si costruisce un’identità nella sua relazione col lavoro.</p>
<p>Il patriarcato imbriglia gli uomini nelle catene di un ruolo che li costringe sempre a dare il massimo per dimostrarsi all’altezza del loro compito. Se alle donne non è mai concesso di superare una certa soglia, e l’elenco dei “non puoi” si potrebbe estendere per interi volumi trasformandone la vita in una gabbia di obblighi di condotta restrittivi, <strong>agli uomini è sempre richiesto di raggiungere il massimo</strong>. Per loro non c’è una lista di “non puoi”, c’è una lista di “devi”, una tensione ideale verso la perfezione. Estremizzando si potrebbero usare le parole dello scrittore Ferdinando Camon in <em>La malattia chiamata uomo</em>: “Essere donne è difficile, per farcela tutte si lamentano. Essere maschio è impossibile, nessuno ce la fa”.&nbsp;</p>
<p>Non è un caso che negli ultimi vent’anni <strong>quattro suicidi su cinque</strong> siano stati <strong>compiuti da uomini</strong>, e non lo è neanche che tra le maggiori cause ci siano <strong>questioni lavorative</strong>. Come ricorda l’Istituto Beck, riconosciuto centro di terapia cognitivo-comportamentale: “Sappiamo che il tasso di suicidi per motivi economici è ancora più a maggioranza maschile: quasi la totalità. È indubbiamente legato alla pressione, una pressione storica, esclusivamente maschile a mantenere, che in passato era addirittura legge (vi era l’obbligo del marito a mantenere la moglie). Questo vuol dire che in caso di tracollo finanziario, la situazione, per un uomo, che ha la pressione sociale a mantenere sua moglie e i suoi figli, sarà un rischio suicidario maggiore che per una donna, che non ha tale pressione sociale”.</p>
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<h2 id="h-uomini-e-lavoro-un-binomio-da-ridefinire">Uomini e lavoro, un binomio da ridefinire</h2>
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<p>Alla luce di ciò: quanto potrebbe essere utile, in un’ottica di utilità e benessere individuale, oltre che sociale, <strong>ripensare la relazione degli uomini con il lavoro</strong>? Quanto potrebbe essere significativo dire agli uomini che il lavoro non è tutto, che non sono il loro lavoro, che la loro dignità non si decide dalla loro capacità di mantenere una famiglia?</p>
<p>Tuttavia, in questa direzione, purtroppo <strong>le istituzioni non aiutano</strong>. Pochi giorni fa si è decisa la legge di bilancio 2022, ma ancora una volta è stata bocciata la proposta, questa volta della parlamentare PD Giuditta Pini, di estendere a tre mesi il <strong>congedo di paternità</strong>. Una proposta di equità che avrebbe dato una spinta a un processo di ridefinizione dei ruoli che permetterebbe a chiunque, uomo o donna, di realizzarsi nella maniera che più ritiene opportuna. Perché non consentire a un uomo di realizzarsi come padre, se più predisposto, e a una donna come lavoratrice, se questi sono i loro desideri? Perché imbrigliare in ruoli cristallizzati gli individui? Questo permetterebbe di liberare energie inaspettate, facendo scoprire agli uomini dimensioni da cui sempre sono stati tenuti lontani: la sfera dell’affettività, delle emozioni, della cura dei rapporti e dei figli.</p>
<p>Liberare gli uomini dal carico di queste aspettative non sarebbe solo un vantaggio per loro, ma ne gioverebbe la società tutta. Un uomo da cui non ci aspetta solo che possieda disponibilità economiche per sé e per la propria famiglia è un uomo che più facilmente collabora nei lavori di casa, che si prenda cura dei figli non solo mantenendoli, ma contribuendo attivamente nella loro gestione e curando la sfera affettiva. È, in fin dei conti, semplicemente una persona migliore.</p>
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<p><em>Foto di copertina di Andrea Piacquadio da Pexels</em></p>


L&#8217;identità maschile? È una trappola cercarla nel lavoro

Il binomio tra uomini e lavoro va ridefinito. Il rapporto tra maschi e mondo professionale ha spesso effetti tossici sulle donne e sugli uomini stessi: vediamo perché.

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Francesco Emanuele Schifano

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