Un quartiere disagiato di Mantova è stato rigenerato dal sodalizio tra arte e cultura e dalla partecipazione della cittadinanza. Ecco come.
Betlemme ha scelto Prato
Sono toscani i restauratori che da cinque anni e con un approccio praticamente chirurgico stanno operando il cuore della cristianità. Un luogo che da sempre richiama pellegrini e turisti da tutto il mondo, e che in questi anni di imponenti restauri non è stato chiuso neppure per un giorno. “Non si poteva vietare a nessuno […]
Sono toscani i restauratori che da cinque anni e con un approccio praticamente chirurgico stanno operando il cuore della cristianità. Un luogo che da sempre richiama pellegrini e turisti da tutto il mondo, e che in questi anni di imponenti restauri non è stato chiuso neppure per un giorno.
“Non si poteva vietare a nessuno di accedere alle origini della cristianità. Questi erano gli accordi iniziali. E ad oggi sono stati rispettati, anche se il progetto non è ancora terminato”. La conversazione con Giammarco Piacenti, uno degli eredi della storica bottega familiare di restauro, che oggi è una Spa, è iniziata con il loro ingresso nella basilica della Natività, ma poi ha preso pieghe inaspettate. Del resto l’arte ti porta sempre dove non immagini.
Da Betlemme siamo volati in Canada dove ha vissuto e lavorato un artista toscano sconosciuto in patria e apprezzatissimo in tutto il Nord America. Da Montreal a San Pietroburgo il passo è stato breve per scoprire che i russi non cercano soltanto la moda e il nostro concetto di lusso, ma amano gli italiani che si prendono cura del loro patrimonio artistico. E questo succede anche ai cinesi della regione dello Zhejiang (la stessa zona da cui provengono tutti gli immigrati che si sono stabiliti in Italia in generale e a Prato in particolare), dove la Piacenti Spa ha sviluppato diversi progetti. Ma facciamo un passo alla volta, e ora torniamo dentro la cappella della Natività.
Come avete ottenuto il lavoro di restauro della chiesa di Betlemme?
Tutto è nato da una gara vista su internet, in quel momento c’era da fare il restauro del tetto e delle finestre. Si trattava di una delle chiese cristiane più antiche, edificata intorno al 330 su iniziativa dell’imperatore Costantino I e della madre Elena, dove i primi cristiani celebravano la nascita di Gesù. Nel VI secolo poi Giustiniano decise di ampliarla e restaurarla. Insomma mettere le mani su una commissione di Costantino e Giustiniano a me faceva venire i brividi.
Poi c’è anche da aggiungere il pathos derivato dal simbolismo religioso.
Mettere le mani su quello che la cristianità intera considera il luogo in cui Cristo dal cielo è sceso sulla Terra è un bell’impegno. Anche perché in Italia il fervore religioso è decisamente calato, ma ci sono Stati in cui è molto più sentito e che considerano questo luogo come il simbolo della nostra civiltà. E in effetti stando laggiù ti accorgi di essere al centro del mondo, a qualsiasi religione tu appartenga. C’è guerra, ma c’è anche tanta fratellanza. Ci sono musulmani, ebrei e cristiani di mille differenti confessioni che convivono anche serenamente.
La chiesa stessa è gestita da differenti confessioni, giusto?
La chiesa è di competenza di tre confessioni: greco-ortodossa, cattolico-latina e armena. Ma la grotta della Natività compete solo ai francescani e ai greci ortodossi, e non so ancora se il suo restauro sarà di nostra competenza. I lavori finiranno a dicembre a 2019, perché nel 2020 Betlemme sarà la capitale della cultura del mondo arabo e inaugurare l’anno con l’apertura totale della chiesa è fondamentale. Ci tengo a sottolineare che durante i lavori la chiesa non è mai stata chiusa, neanche per un giorno.
Come è possibile fare un lavoro di questa portata senza chiudere neanche per un giorno?
Si lavora di notte. Abbiamo iniziato montando ponteggi e creando lo spazio lavorativo sopra i turisti, sopra i pellegrini e sopra il culto. Tutto di notte. Nemmeno una messa è stata fermata. Nella cappella della Natività hanno lavorato circa 250 persone, quasi tutte maestranze italiane. Italiane erano anche le aziende, i centri di ricerca e le università che hanno partecipato, e non è difficile capire il perché.
In effetti, anche se non se ne parla molto, nel mondo del restauro siamo una potenza.
Se io cerco il migliore del mondo ad analizzare le tessere dei mosaici lo trovo solo a Venezia e si chiama Marco Verità. Ma anche il miglior tecnologo del legno è un signore italiano di nome Massimo Mannucci. Il suo compito a Betlemme è stato analizzare uno per uno tutti pezzi di legno del tetto della Natività. Noi lo abbiamo soprannominato “il tarlo”.
A che punto sono i lavori dentro la chiesa?
Dopo cinque anni abbiamo restaurato il tetto, le pareti esterne e interne, compresi intonaci e mosaici. Scendendo dalle pareti ci sono gli architravi in legno e le colonne dipinte. Mancano poche colonne da finire, e da circa sei mesi abbiamo iniziato i mosaici pavimentali del IV secolo voluti da Elena. L’unico luogo ancora in sospeso è la grotta della Natività, il punto focale su cui è stata costruita la basilica.
Prima della Palestina avete lavorato anche in Russia e in Cina. Come vi hanno accolto questi Paesi?
La Russia è il luogo dove abbiamo lavorato di più, con progetti importantissimi come il restauro della reggia di Caterina a San Pietroburgo. Ci siamo sempre trovati bene perché i russi sono molto legati alla loro storia e hanno grande stima di chi può salvaguardare il loro patrimonio. In Cina invece ho fatto interventi all’università e proposto un progetto nella regione dello Zhejiang. Però il nostro lavoro si è limitato al progetto, perché intervenire manualmente non era possibile in quel momento; per poter lavorare devi aprire un’azienda e ottenere molte certificazioni a livello provinciale e federale. È un’operazione che richiede molto tempo, e in quel momento non eravamo pronti.
Qual è il peso della ricerca scientifica e tecnologica nel lavoro di restauro?
La Piacenti è nata circa 150 anni fa come “bottega medievale” e questo tesoro non lo vogliamo perdere, ma la realtà è che oggi abbiamo rapporti indispensabili con le università, i centri di ricerca e parecchie multinazionali. Cerchiamo contatti con chiunque sviluppi tecnologie nel mondo dei beni culturali, e non si tratta solo di restauratori, ma anche di chi studia il rilievo geometrico e la progettazione. Per esempio il BIM (Building Information Modeling) è un metodo che ci permette di ottimizzare la pianificazione perché schiva l’errore progettuale, ovvero salvaguarda le tutte parti antiche evitando di farci passare gli impianti strutturali. Il rilievo architettonico invece racconta lo stato di un determinato edificio, di una statua o di un quadro. Ne definisce il materiale e il suo stato di degrado. Attraverso il rilievo vogliamo lasciare ai posteri la storia di quello che è capitato all’opera d’arte o all’edificio.
Praticamente è un modo per agevolare il restauratore del futuro.
È esattamente questo il sogno da realizzare. Comunque, anche se la tecnologia aiuta, la mano, l’occhio e la sensibilità dell’uomo restano fondamentali e insostituibili. E in questo campo l’italiano è vincente perché questa sensibilità ce l’ha naturalmente, anche se non sempre è apprezzata come dovrebbe.
Nel tuo mondo ci sono tanti toscani o italiani che non hanno il riconoscimento che meritano?
Ho scoperto poche settimane fa che il Michelangelo canadese è un pratese. Sono pronto a scommettere che il nome Guido Nincheri non dice nulla ai lettori. Eppure in Canada è amatissimo, ha realizzato migliaia di vetrate e pitture. Fa un certo effetto sapere che in tutto il Nord America è considerato un artista eccelso e in Italia non ne ricordiamo neppure il nome. E poi c’è il mio maestro Leonetto Tintori, anche lui di Prato. Era un uomo semplice, ma i suoi committenti erano il Getty Museum e i Rockefeller. Tanto amato in America quanto criticato in Italia. Ha vissuto sempre una contrapposizione insanabile con il mondo accademico, che lo definiva un restauratore artigianale quando invece aveva un approccio molto scientifico. Lui già nel ‘44, quando nessuno lo faceva, mandava le sue analisi materiche alle università di chimica americane. Eppure lo hanno sempre definito un artigiano.
Oggi però i rapporti con l’università vanno meglio.
Abbiamo legato molto con quel mondo. In Italia, del resto, i centri di eccellenza sono molti. Stiamo portando avanti un rapporto stretto con l’università di Palermo, che nel mondo dei beni culturali è diventata un centro importante insieme alla Sapienza di Roma. Ma ci sono anche Ravenna e Firenze, Ferrara e Pavia. In Italia le occasioni di approcciare l’eccellenza nello studio e nella ricerca sui beni culturali non mancano di certo. Basta semplicemente non farsele sfuggire.
Leggi anche
Disordini alimentari, tentativi di suicidio, autoisolamento: sono solo alcune delle forme del disagio che affligge le nuove generazioni, e che tra le sue cause vede anche il lavoro. Umberto Galimberti racconta la vulnerabilità dell’età verde attraverso una rilettura del filosofo tedesco
C’è un grande evento, in Toscana, che non ha mai avuto il riconoscimento internazionale che avrebbe meritato. E anche se questa è una frase sentita e risentita nel contesto regionale, per l’evento di cui parliamo lo è ancora di più. L’esaltazione del lavoro artigiano e ingegneristico in un campo che del materiale fa la sua […]