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Buona causa o buon salario: il fundraiser di professione
Disagio e senso di colpa, le armi del fundraising sono note: toccare le coscienze delle persone per generare una donazione economica. È di indubbia efficacia questo copione, ripetuto degli spot di numerose organizzazioni, governative e non, che compaiono come mosche soprattutto con l’approssimarsi del “più solidale” periodo natalizio. Lo è ancora di più quando sono gli sguardi di bambini scheletrici […]
Disagio e senso di colpa, le armi del fundraising sono note: toccare le coscienze delle persone per generare una donazione economica. È di indubbia efficacia questo copione, ripetuto degli spot di numerose organizzazioni, governative e non, che compaiono come mosche soprattutto con l’approssimarsi del “più solidale” periodo natalizio. Lo è ancora di più quando sono gli sguardi di bambini scheletrici e con le pance gonfie ad attrarre l’attenzione del potenziale donatore e la voce fuori campo aggiunge alle già drammatiche immagini dei bambini morti per guerra, denutrizione e ondate migratorie.
Da qui il recente appello per coniugare dignità e fundraising lanciato da Nino Santomartino, responsabile Comunicazione sociale e Rsi nell’esecutivo dell’AOI, l’Associazione Organizzazioni Italiane di cooperazione e solidarietà internazionale, per costruire una tavola rotonda volta a individuare un codice di condotta comune in materia di etica della comunicazione. In gioco c’è la credibilità del Terzo Settore e, ben più importante, la tutela della dignità dei professionisti e degli stessi destinatari dei progetti di cooperazione e solidarietà internazionale.
Proprio su questa falsariga abbiamo voluto aprire una riflessione, insieme a Luciano Zanin, presidente Assif, l’Associazione Italiana Fundraising, e cercare di comprendere meglio la definizione, il ruolo e il compito delicato di chi si occupa di raccolta fondi per il non profit visto che normativa traballante, pregiudizi sociali e instabilità economica fanno di questo lavoro un grande punto interrogativo.
Una definizione di fundraiser
“Non è facile trovare una definizione unica di fundraiser. È una figura dalle mille facce, identità e funzioni” si legge sul sito dell’ Associazione Italiana Fundraiser. “Nell’articolo 1 del Regolamento di ASSIF è definito come colui che opera in modo professionale ed etico, remunerato o a titolo gratuito, nella definizione e realizzazione delle strategie di comunicazione sociale, marketing sociale e raccolta fondi per organizzazioni del non profit”.
In questo modo vengono definite varie tipologie di fundraiser:
- Fundraiser professionista, cioè il manager della raccolta fondi, il quale si occupa della pianificazione strategica e coordina l’intera attività di raccolta fondi.
- Professionista del fundraising, che si occupa della pianificazione (talvolta anche della realizzazione concreta) di aspetti tecnici del fundraising, come il direct marketing o il database dei donatori.
- Operatore del fundraising, che si occupa invece solo della realizzazione concreta della raccolta fondi, all’interno di uno o più settori specifici del fundraising
- Consulente di fundraising, il quale, come il fundraiser professionista, accompagna, anche se dall’esterno, l’organizzazione nella pianificazione strategica dell’attività di fundraising, di alcuni particolari ambiti o di specifici progetti, e solitamente non si occupa di operatività.
Luciano, ma qual è il compito del fundraiser?
Il compito del fundraiser è mettere in contatto i potenziali donatori con gli effettivi beneficiari. Soddisfare i desideri del donatore e contemporaneamente i bisogni dei beneficiari, attraverso il perseguimento della mission dell’Organizzazione per la quale opera, è la sintesi del nostro lavoro. Sia che si tratti di cooperazione internazionale, che di servizi alla persona, che di cultura o ambiente, dove i beneficiari sono la comunità o l’umanità, questo è quello che facciamo stimolando e sviluppando la cultura del dono.
In che modo è regolato dalla normativa vigente ed è soddisfatta la definizione e il ruolo di questo professionista?
Non vi è alcuna norma che regoli l’attività del fundraiser in questo momento. Come Associazione siamo iscritti all’Albo delle professioni non regolamentate tenuto dal Ministero del Lavoro. Unica eccezione il contratto di lavoro delle ONG che prevede la nostra figura, per il resto non siamo ancora definiti.
Qual è la provenienza o il backgroud culturale di chi diventa fundraiser di professione?
Arrivano da ogni dove, da materie umanistiche a quelle economiche, da percorsi di studi universitari a esperienze di volontariato e mestiere appreso “by doing”.
Da oltre 13 anni vi è in Italia un master universitario dedicato al fundraising “Master in Fundraising per le organizzazioni non profit e gli enti pubblici” diretto dal prof. Valerio Melandri presso la sede di Forlì e si sono sviluppate, nel tempo, diverse scuole ed enti di formazione che propongono corsi sul tema: Fund raising School (Forlì); Scuola di Fundraising di Roma; ConfiniOnline (Trento); Asvi (Roma).
Si trovano poi molti altri corsi, forum, blog di cui è difficile avere traccia completa e puntuale, in giro per l’Italia tra offline e online. Generalmente i fundraiser hanno un livello d’istruzione medio alto, il 48% ha una laurea e il 36% un master o PhD (fonte Censimento 2014 Philantropy Centro Studi).
Qual è la giornata tipo del fundraiser?
Dipende dalle mansioni, nelle grandi ONP va in ufficio e si mette “ai posti di combattimento” concentrato sul suo ruolo della raccolta fondi. Nelle organizzazioni medio – piccole fa un po’ di tutto, dalla comunicazione alle relazioni interpersonali, dallo studio alla ricerca e analisi dei trend e dei “mercati” dei donatori.
Per tutti comincia presto la giornata e, molto spesso, non finisce, nel senso che è un po’ difficile definire quando “smette” di lavorare” un fundraiser. La donazione e le opportunità di trovare un donatore sono continue nel corso delle giornate, in ogni ambiente e in ogni momento.
Un lavoro che non avrebbe diritto al salario
Uno degli argomenti più discussi tra i fundraiser è la disputa tra salario fisso o a percentuale…
Quello che è scritto e che condivido, nel codice etico di ASSIF: la percentuale, quando si tratta di fundraising e quindi di donazioni, è vietata!
Inoltre è anche poco efficace, chi l’ha provata lo sa, e non intendo solo da parte del fundraiser, ma anche da parte del committente o ente che lo incarica.
Nel fundraising ciò che conta, più ancora della donazione, è la relazione con il donatore. Questa, in caso di pagamento a percentuale, inevitabilmente, viene stressata perché spinta in termini commerciali di vendita e con una logica di brevissimo periodo. Questo non funziona per l’ente che ha l’opportunità attraverso il fundraising di attivare delle strategie di medio-lungo periodo di sostenibilità che si fondano su una relazione di cura e coinvolgimento nel tempo dei propri donatori. Non funziona per il fundraiser perché per fare questo deve dedicare tempo e attivare una serie di leve e condizioni che non si esauriscono in una trattativa one-off, quindi l’essere pagato a percentuale, per lo stretto risultato incassato, è poco dignitoso e scarsamente stimolante. Il dono è un’attività libera e volontaria e la percentuale non si addice a questo mondo.
Possono invece essere previsti degli incentivi o bonus di performance, ma che devono essere sempre e comunque residuali rispetto alla retribuzione principale.
Come reagisce l’opinione pubblica ai salari del mondo non profit?
Male, perché molto spesso vittima di pregiudizi e luoghi comuni e, a volte, di idee sbagliate in merito alla professionalità degli operatori del non profit. Come dice Dan Pallotta in un suo video, in questo nostro mondo è accettabile strapagare un manager che vende video games violenti o altre cose simili, ma non è invece considerato corretto pagare bene un manager che si occupa di salvare vite o di aumentare la ricerca medico scientifica.
Questo perché vi è la falsa (e a volte un po’ ipocrita) idea che determinati lavori debbano essere svolti gratuitamente o quasi, senza pensare che, così facendo, coloro che sono bravi davvero molto spesso se ne vanno in altri settori perché in questo non trovano riscontro, anche economico, magari ad anni di studio e di esperienza.
Probabilmente influisce anche il fatto che il fundraising, nel pensare comune, sia ancora legato alla carità e alla beneficenza. I fundraiser non chiedono per sé, chiedono a persone (donatori) per raggiungere e sostenere altre persone. È una professione come le altre, anzi una professione che più delle altre sta cercando di prendersi cura di una serie di bisogni a cui lo Stato e il Mercato non riescono più a provvedere.
L’altra idea da cambiare è che le organizzazioni non profit non siano imprese: ma un ente con centinaia di soci o dipendenti, che assiste decine o centinaia di persone e che utilizza strumenti, immobili, risorse economiche, eccetera, non è forse un’impresa? Un’impresa che non ha scopo di lucro, certo, ma per questo ancor più delicata nella gestione, perché le risorse devono essere impiegate ancor meglio che nel profit, perché l’obiettivo riguarda molto spesso la vita delle persone. E allora, chi si occupa di questo, non deve essere ben retribuito per il servizio che rende alla comunità?
Quanto influisce il salario sulla decisione di diventare un fundraiser professionista?
Come in qualunque altro lavoro. Sicuramente è un lavoro che richiede una motivazione un po’ speciale, altrimenti non si riesce a svolgere, o comunque non per lungo tempo. Si può anche dire che il salario fa la sua parte, perché fare il fundraiser è un “iper-professione”, nel senso che richiede più di altre una varietà ampia di capacità e abilità trasversali e non solo di competenze tecniche.
Per questo le iper-professioni hanno una probabilità di finire in burn-out più alta del normale e un po’ di gratificazione economica non guasta.
La maggior parte dei fundraiser lavora autonomamente o in team?
Stiamo assistendo ad uno sviluppo del settore che non ha eguali nella storia del nostro Paese. Possiamo dire che nelle organizzazioni storiche o più strutturate, lavorare in team è una consuetudine ed una necessità. Ora però si stanno dotando di fundraiser molte piccole e medie organizzazioni ed in questo caso invece molto spesso i fundraiser sono soli o al massimo in due o tre. Riscontriamo sempre più spesso il desiderio e il bisogno da parte dei fundraiser di confrontarsi con colleghi, ma anche con professionisti di altri settori (management, comunicazione, esperti legali, ecc) e anche per questo esiste ASSIF, che vorrebbe essere un luogo d’incontro tra professionisti, oltre che cercare di rappresentarli.
Una figura emergente: il consulente della raccolta fondi
Secondo lei, è più conveniente fare raccolta fondi in proprio o per una grande associazione? E perché?
Se con il termine “in proprio” s’intende che un ente affida ad un “terzo” la raccolta fondi, dico che, per la mia esperienza, nel nostro Paese questa pratica non è diffusa e laddove viene applicata spesso non produce risultati. Il fundraiser, se non è “applicato” ad una buona causa e quindi anche ad un ente, perché mai dovrebbe raccogliere fondi?
Invece se per “in proprio” s’intende come libero professionista, quindi come consulente, si apre un altro capitolo del mestiere.
I consulenti del fundraising s’impegnano a guidare e consigliare le organizzazioni, ma soprattutto a creare le condizioni necessarie all’avvio del fundraising, a trasmettere competenze e metodo per far sì che le organizzazioni si dotino degli strumenti, del know how e delle risorse umane per essere autonome nella raccolta fondi.
Poi che l’organizzazione sia grande o piccola, ciò che conta è il suo patrimonio relazionale, le competenze che possiede e il budget che ha a disposizione per sostenere l’attività di raccolta fondi che, inevitabilmente, richiede investimenti.
Dal punto di vista metodologico, invece, non c’è differenza. Se devo preparare la terra per seminare, se ho un orto lo farò con la vanga, se ho un ettaro, lo farò con il trattore, ma l’attività di rivoltare la terra è sempre quella. Importante è farlo bene e con gli attrezzi adeguati al contesto ed agli obiettivi che si vogliono raggiungere.
Pensa che i donatori siano fiduciosi che quanto donato vada in buona parte per la causa dell’organizzazione (ovvero costi di struttura come organizzazione, marketing e comunicazione)?
Penso di sì, altrimenti non donerebbero. Questo non significa che tutto il settore nel nostro Paese deve assolutamente impegnarsi di più in attività di accountability: rendere trasparente sempre di più la gestione delle ONP e rendicontare puntualmente ai donatori e sostenitori l’esatto utilizzo delle risorse; anche questo, per tanti motivi non è andato come si sperava o si era programmato.
D’altro canto, però, i donatori devono comprendere che per lavorare bene servono strumenti e persone preparate e questo richiede risorse che rendano più efficienti gli interventi e soprattutto migliorino l’impatto che si può ottenere.
I cosiddetti “costi generali” fanno parte dei progetti. Non posso pensare di fare un intervento di cooperazione internazionale o di sostegno ai poveri, senza avere telefoni, sedi, attrezzature, mezzi, e personale qualificato, così come non posso pensare di avere buoni risultati nella raccolta fondi se non s’investe in comunicazione e marketing.
Ciò che bisogna verificare è l’impiego delle risorse e soprattutto la corrispondenza tra quello che si voleva ottenere e l’impatto che si è verificato.
Davvero pensiamo che ad un malato di cancro importi così tanto quanto è stato speso per trovare la cura alla sua malattia? O forse importa di più che sia stato fatto tutto quello che serve per trovare la cura alla sua malattia. In mezzo a tutto questo ci sta una buona gestione e una conduzione trasparente delle organizzazioni.
Il non profit in Italia
In quale prospettiva vede il mondo del non profit italiano?
Il trend continua ad essere positivo ed in crescita. L’ultimo censimento ISTAT del 2011 – dati diffusi nel 2013 – ha dato questo settore in grande sviluppo rispetto allo stesso censimento effettuato 10 anni prima.
Sono aumentate le organizzazioni, i dipendenti, il volume amministrato, i posti di lavoro, e soprattutto il valore per la comunità che questo settore produce.
Questo trend continuerà nel futuro almeno per due motivi:
- Ce n’è un estremo bisogno, sempre più le organizzazioni non profit ideano, progettano e gestiscono servizi e produzioni che sono indispensabili alle nostre comunità non solo per questioni etiche o di equità, ma anche per la qualità della vita di tutti, non solo di coloro che versano “in condizioni di bisogno”. Cultura, sport dilettantistico, istruzione, partecipazione, sono settori che non riescono a trovare sostenibilità con le regole dell’economia di mercato capitalistico, per cui vi è un estremo bisogno di altre forme di impresa che abbiano scopi diversi dal lucro e che siano sostenibili nel tempo capitalizzando valore per le società.
- Perché è l’unico settore in grado di produrre quel patrimonio di fiducia di cui si nutrono gli altri settori: lo Stato e il mercato che senza fiducia non funzionano. Il Terzo settore in realtà è il primo, senza il quale gli altri non funzionano.
Provate a pensare come sarebbe la vita di tutti senza le attività del Terzo Settore: non solo triste, ma credo proprio insopportabile.
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