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Come la Fondazione Fitzcarraldo ci misura la cultura
In mezzo a centinaia di autopresentazioni aziendali che si vendono come fossero i migliori al mondo, resto già colpita dalla definizione di centro indipendente di progettazione, ricerca, formazione e documentazione sul management, l’economia e le politiche della cultura, delle arti e dei media. Non mi era mai capitato di incrociare chi lavorasse su tutto questo […]
In mezzo a centinaia di autopresentazioni aziendali che si vendono come fossero i migliori al mondo, resto già colpita dalla definizione di centro indipendente di progettazione, ricerca, formazione e documentazione sul management, l’economia e le politiche della cultura, delle arti e dei media. Non mi era mai capitato di incrociare chi lavorasse su tutto questo dal sottobosco di un Paese in piena anoressia: si è anoressici quando si rifiuta volontariamente il nutrimento e pare evidente che l’Italia lo sia.
A darsela è la Fondazione Fitzcarraldo, a Torino da oltre vent’anni. Non vendono e non svendono nulla, dicono di stare al servizio di chi crea, pratica, partecipa, produce, promuove e sostiene le arti e le culture. Producono anche report che fanno girare gratuitamente tra banche, istituti finanziari, soggetti politici, decisori. Ultimamente hanno coinvolto e chiesto a 70 Fondazioni come mai finanzino progetti di altissimo valore ma che mediamente hanno poco a che fare con la cultura in senso stretto oltre ad averle spinte a ragionare su un piano di percezione delle proprie identità.
Ne parlo con Ugo Bacchella, il Presidente. È professore a contratto all’Università di Bologna ma soprattutto pendola coi suoi progetti costantemente verso l’estero per consulenze a organizzazioni pubbliche e private, forte anche delle spalle larghe fatte al Consiglio d’Europa e in Commissione Europea. Laurea in Storia contemporanea per poi occuparsi di cultura dalla a alla zeta: radio, organizzazione e produzione di festival, coreografie di massa, cogestione di una discoteca negli anni ’80, rassegne di opera lirica. “Un po’ mi sembrava fosse interessante saltellare in ambiti diversi e un po’ è stato il caso a portarmici, perché negarlo?”. Capisco di poter andare subito al sodo con lui.
Cos’è un’impresa culturale? Partiamo dalle basi e dai nodi.
Il nodo fondamentale è che storicamente la cultura ha dato vita a forme specifiche di “intrapresa” che di fondo consistevano nel mettere al centro del processo di creazione artistica il contenuto, l’oggetto, il prodotto come espressione migliore dell’artista. Potremo citarne a centinaia di esempi che nei secoli si sono legati a incomprensioni, a prescindere da chi finanziasse i progetti: sia che fosse la Chiesa, il potere religioso o la nuova borghesia emergente nei Paesi Bassi o le famiglie del nostro rinascimento italiano. Come si fa a non definire impresa opere come le cattedrali che ancora oggi non riusciamo bene a decifrare per quanto siano complesse e perfette, sofisticate e belle? In quei progetti c’era indiscutibilmente un concorso di risorse finanziarie, competenze tecniche e artigianali, rischio e organizzazione: insomma la combinazione di elementi che caratterizzano ancora oggi un’impresa.
Chi ci ha portati fuori strada nel pensare che cultura e arte fossero attività solitarie, individuali, senza un’impronta di sistema?
Di sicuro il Romanticismo ha inciso parecchio nel restituirci un’immagine di artisti chiusi da soli nelle proprie stanze a realizzare capolavori ma le botteghe già dei tempi di Rembrandt erano luoghi con decine e decine di persone che riproducevano copie dello stesso ritratto e che poi lo inviavano in giro per l’Europa.
Le chiamavamo botteghe e invece erano fabbriche.
Proprio così, diremmo fabbriche se ne capissimo il valore.
Anche la parola “patrimonio culturale” meriterebbe un chiarimento, fino alla rivoluzione francese la parola non esisteva. Aldilà del fatto che molte delle opere fossero state realizzate con lo sfruttamento del popolo e fossero finalizzate all’arricchimento della povertà, in quel momento capirono che potevano segnare un passaggio, una svolta. Da lì poi i musei arrivarono i musei di epoca vittoriana, le prime collezioni reali fino all’accezione di musei come luoghi di studio, significato che ci ritroviamo ancora oggi quando vediamo esempi virtuosi che tendono a rendere quegli spazi anche qualcos’altro, a estrarne un’identità più contemporanea.
Perché noi italiani – storicamente tra i popoli più attivi nel generare l’arte – siamo arrivati così in ritardo nell’aprirne il significato e farlo evolvere?
Il ritardo esiste ed è oggettivo perché credo abbia molto contato l’esigenza di volerlo difendere durante il Novecento, in parte lo capisco con tutti gli scempi che è stata costretta a subire. Poi va anche detto che è un tratto molto italiano quello di chiudersi e guardarsi l’ombelico, tratto che caratterizza molto spesso gli artisti e gli operatori. Il paradosso è che credono di fare il mestiere più bello del mondo ma alla fine non lo valorizzano, non lo proteggono come dovrebbero. Come quando sento dire – ed è vero – che l’Italia ha una delle migliori legislazioni in materia di tutela ambientale ma se arrivasse un marziano e guardasse oggi come trattiamo il nostro Paese, dalle coste alle montagne fino alle abitazioni abusive, ne vedrebbe soltanto la contraddizione. Sono le azioni a caratterizzarci, non le regole.
Così come anche il campo delle arti e della cultura necessita di sforzi congiunti, competenze elevate e passi indietro rispetto al proprio interesse circoscritto.
Lo chiamiamo advocacy questo spirito ed è lo scopo della Fondazione oltre che del nostro ArtLab, piattaforma indipendente e itinerante dedicata all’innovazione delle politiche, dei programmi e delle pratiche culturali. Tiene insieme oltre 40 partner tra reti europee, agenzie e istituti culturali di diversi Paesi, pubbliche amministrazioni, agenzie territoriali, fondazioni, imprese, istituzioni, università, organizzazioni professionali. Quando si parla di cultura, non c’è più tempo per parlare e basta di questa urgenza: o mettiamo insieme e rafforziamo le relazioni dentro un ecosistema allargato o vanifichiamo tutto. Serve un dialogo e non dichiarazioni di bandiera, serve una revisione congiunta e costante di idee e di azioni. Se tutti questi soggetti non dialogano e non capiscono criticamente in cosa consista lo sviluppo culturale e il rafforzamento della cultura, superando anche resistenze e diffidenze, non ne usciamo. Non parlo solo dei classici finanziatori e operatori ma di tutti coloro che non si occupano di pura produzione della cultura ma di pianificazione territoriale, sempre più necessaria.
Quale leva state muovendo per accomunarli davanti a uno scopo comune?
Allontanarli dalla retorica per guardare in faccia la realtà anche quando è spiacevole e contraddice i programmi che hanno sperimentato per anni. La condivisone è fondamentale in tutto sennò si vive di malintesi. Se le scelte di programmazione fatte dagli operatori hanno uno scopo di pura sensibilizzazione e diffusione artistica, se le scelte della politica sono quelle di usare la cultura per il marketing territoriale, se le scelte delle fondazioni e di altri soggetti istituzionali mirano a vedere la cultura come strumento di coesione sociale e quindi per loro non è così importante competere sul mercato internazionale del turismo ma restare radicati alla cittadinanza, allora ci siamo già detti tutto: non stanno andando dalla stessa parte. Ognuno di questi soggetti va in una direzione propria: il nostro lavoro è farli incontrare su una strada comune senza azzerare nessuno. La politica europea, tra l’altro, sta producendo molto sul legame tra lavoro, manager e cultura anche se non ne parla mai nessuno.
Ma le imprese culturali sanno rivendicare un proprio valore, sanno misurarsi?
Parliamo di un settore che è vissuto a lungo di finanziamento pubblico e in cui ci sono state indiscutibilmente non poche degenerazioni. Non è affatto vero che l’arte e la cultura si possano produrre soltanto o al meglio in modalità di supporto pubblico. Lo dimostra ormai tutti i giorni la contemporaneità.
Usciamo dalla retorica, mi faccia un esempio.
Le Cirque du Soleil. È nato da due artisti che con intransigenza hanno perseguito quella poetica lì pensando che bisognava fare altro, ripensare il circo e ricomporlo in modo diverso. Oggi nel mondo è uno degli esempi di impresa culturale più potenti in assoluto.
Davanti alle banche un produttore di cultura e un produttore di cibo hanno lo stesso peso?
Il confronto tra settori è forse il più calzante, la risposta è che oggi banche e istituti finanziari non hanno la conoscenza adeguata. Tutti parlano di economia circolare e innovazione, e ci si aspetterebbe che prima di rifiutare un sostegno economico vadano a guardare i brevetti o altri parametri di valore e invece non è così. Non valorizzano queste risorse perché le ignorano.
Qual è il livello di competenze davanti a cui vi trovate quando, come Fondazione Fitzcarraldo, vi relazionate col mondo dei musei?
Cerco di rispondere con cura perché la questione è delicata e complessa. Debbo dire che, nel rapporto con noi, spesso i soggetti migliori sono quelli meno colti, più preparati ma meno colti. Quelli che non sanno già tutto loro, quelli che dimostrano umiltà nel fare connessioni con le politiche culturali. Gli altri sono per noi molto meno interessanti anche perché fortemente influenzati e influenzabili da artisti, intellettuali e curatori; non c’è niente di male ma tendono a rispondere spesso a quelle logiche, hanno un’idea di cultura non solo sostenuta ancora dalle casse pubbliche ma soprattutto già definita in partenza mentre ormai tutto si è scomposto e va valorizzato in questo senso.
Sponsor e privati in ambito culturale e artistico. C’è resistenza verso di loro?
Il tema è forte, è molto sentito. Pensi che anni fa in Germania è stato alzato un muro altissimo verso una presunta invadenza degli sponsor in ambito culturale fino ad arrivare ad un vero e proprio Manifesto che ha poi spopolato. Esiste il tema del ripensarsi, invece. Basti dire che il vecchio tema della sponsorizzazione ha ceduto ormai il passo e molti brand oggi si strutturano per fare i propri progetti dentro i propri spazi. Quante grandi aziende ormai usano le proprie fondazioni, soprattutto nel campo della moda, anziché legarsi a un soggetto pubblico o a un luogo d’ arte contemporanea? Moltissime e sempre di più. Contrattualizzano un curatore e fanno progetti rispondenti al cento per cento alle proprie esigenze imprenditoriali o di comunicazione, anziché negoziare una “tassa” col museo di turno e ora che l’ho chiamata tassa farò innervosire qualcuno, di sicuro. I costi dell’intermediazione dell’istituzione sono saltati, tanto più oggi che la comunicazione digitale chiede sempre di più di essere libera e veloce, svincolata.
Fin dove si è già spinto il digitale in ambito culturale?
Ci faccia caso, faccia questo test coi suoi amici nei prossimi giorni. Chieda loro qual è lo spettacolo che li ha entusiasmati di più, recentemente. Le parleranno di spettacoli nati dai privati, dai singoli, dalle associazioni e in luoghi anomali rispetto a una volta. La strada dei prossimi anni è segnata, un numero crescente di persone deterrà il pubblico e ciò avverrà nel bene e nel male perché non possiamo dimenticare che molti di questi credono di essere capaci di produrre cultura ma non lo sono affatto. Il digitale apre a tutti ma tra quei tutti c’è di tutto.
Proviamo a ragionare sul concetto di frontiera quando si applica nei musei la logica del digitale.
Sinceramente mi fa sorridere chi digitalizza senza un’idea, chi intasa gli archivi seppur immateriali senza averne valutato il senso. Bisogna rinnovarsi nei pensieri e nelle logiche e produrre nuovo materiale proprio a partire dai nuovi archivi, ricreare prodotti che siano magari più attuali del passato, offrire altro. Vantarsi di aver semplicemente digitalizzato centinaia di opere nel proprio museo è l’ultima cosa di cui ha oggi bisogno l’Italia.
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