Com’è la pausa estiva per una musulmana che vive in Italia

Quando si pensa alla donna musulmana subito si pensa al velo, alla negazione, alla sottomissione. Di questi periodi, con il Ramadan in corso e le immagini delle donne arabe che portano il burquini che si mescolano con le immagini delle vacanze e le abitudini estive degli occidentali, è ancora più facile maturare pregiudizio su una cultura diversa dalla […]

Quando si pensa alla donna musulmana subito si pensa al velo, alla negazione, alla sottomissione. Di questi periodi, con il Ramadan in corso e le immagini delle donne arabe che portano il burquini che si mescolano con le immagini delle vacanze e le abitudini estive degli occidentali, è ancora più facile maturare pregiudizio su una cultura diversa dalla propria. Racconterò la mia storia, di giovane professionista che vive in Italia e porta il velo e, che, forse in parte proprio per questo, ha ricevuto tante attenzioni e molto successo.

Com'è la pausa estiva per una musulmana che vive in Italia

Sono arrivata in Italia nel 1999, quando avevo 8 anni, con mamma e i miei cinque fratelli più grandi di me grazie al ricongiungimento familiare. Mio padre era già qui in Italia come rifugiato politico da qualche anno prima del nostro arrivo. Essendo uno dei migliaia di oppositori alla dittatura di Ben Alì, è stato perseguitato dalle autorità in Tunisia, ma è riuscito a fuggire prima che lo prendessero. Era il 1991, avevo 4 mesi quando ha lasciato il paese, infatti ho avuto il piacere di conoscerlo e parlargli per la prima volta solo quando siamo arrivati in Italia nel 1999. Prima di allora non sapevo come era fatto, non ci ho mai parlato nemmeno telefonicamente, non sapevo niente di lui, a parte le cose belle che ci raccontava la mamma durante la sua assenza.

La Primavera Araba

Durante la dittatura non venivano perseguitati solo gli oppositori, ma anche le famiglie degli oppositori e chiunque cercasse di aiutare le famiglie degli oppositori, nel senso che le famiglie venivano interrogate di continuo, isolate socialmente non permettendo loro di lavorare per vivere, oltre ai disordini che venivano a fare ogni notte a casa per dare fastidio. Insomma, non è stata una vita facile.

Oltre a papà, mamma aveva anche il fratello che era incarcerato e torturato. Lo zio era per me la figura di un padre: ricordo di lui quelle poche volte che l’ho visto fuori dal carcere con i segni di tortura sul corpo, anche se lui cercava di nasconderli davanti a noi e ai suoi figli. Ma era abbastanza evidente e non ho dimenticato quei segni nonostante fossi piccola. Per me e la famiglia è stata una grande perdita. Ma devo ammettere che quegli anni nonostante fossero brutti e da dimenticare, mi hanno insegnato molto, mi hanno insegnato il valore della libertà, della dignità.

Infatti, solo dopo la rivoluzione del 2011 ho potuto rivedere la Tunisia dopo 12 anni di esilio e mio padre dopo 20 anni di esilio. Ricordo bene il ritorno in Tunisia, c’era ancora il coprifuoco post-rivoluzione, durante la Pasqua del 2011. Sinceramente, dopo così tanti anni di esilio non mi aspettavo che i famigliari si ricordassero di me, anche perché io non mi ricordavo di nessuno di loro, a parte quelli più stretti. Invece, l’aeroporto dove siamo atterrati era pieno di gente e non ci hanno accolto in lacrime. Erano mesi in cui migliaia di persone facevano ritorno in patria. Aeroporti e porti pieni, strade in festa, coprifuoco, controlli, era tutto un caos. Con famigliari ed amici feci un viaggio fino al Sud in macchina, 7 ore di viaggio, verso la città natale Douz. Arrivammo la notte tardi: la casa dove abitavamo era ridotta in macerie, saccheggiata e distrutta, non era rimasto nulla a parte qualche scritta sui muri che feci da bambina, qualche disegnino e una lista di nomi, il mio e quelli dei miei fratelli, il nome di mamma e il nome del papà che ancora non conoscevo. Era l’unica cosa che il ladri non potevano portare via, che la dittatura non poteva portare via, ed è stato in quel momento che ho ricordato e ho pianto per giorni.

La nuova vita a Roma e l’11 settembre

Tutta la mia famiglia ora vive in Italia. A Roma, dove studio e lavoro, io ormai ho messo radici. I primi mesi non parlavo con nessuno: a scuola, frequentavo la terza elementare, non sapendo parlare italiano, comunicavo attraverso il disegno con le maestre, ero immersa in un profondo silenzio, e quando ho pronunciato la prima parola i miei compagni hanno fatto festa in classe, facevano a gara per farmi parlare, m’insegnavano parole in italiano.

Ho due sorelle più grandi di me, di 10 e 7 anni. Loro portavano il velo, io ancora no perché ero piccola. Quando uscivo con loro non succedeva nulla, il velo era visto come qualcosa di culturale e religioso e la maggioranza delle persone portava rispetto. Finchè qualche mese dopo, l’11 settembre, cambiò tutto. Cambiò la nostra vita, cambiò lo sguardo delle persone, gli atteggiamenti, e anche le parole. Era così evidente che persino io me ne accorsi. Dopo un anno, era il primo giorno di scuola alle scuole medie, ed ero presa dalla curiosità di indossare il velo, e vedere se quello che succedeva alle mie sorelle sarebbe successo anche a me, e così è stato infatti. Uscita di casa, andando a scuola, un bambino mi fermò per strada e mi urlò “talebana, terrorista!”, non sapevo cosa significasse, e neanche lui.

Da quel giorno non l’ho più tolto, sempre più convinta di aver preso la decisione giusta. Volevo dimostrare che l’Islam non è quello che si racconta in televisione e nei giornali.

Come nasce il lavoro di fumettista interculturale

La Tunisia mi manca, non ho mai dimenticato le mie origini. I miei genitori mi hanno insegnato l’arabo e molte cose della mia cultura, senza interferire sulla mia “integrazione” e l’appartenenza all’Italia e all’occidente: mantenere le culture di origine è una ricchezza e devo ammettere mi ha aiutato molto nella mia crescita personale, nella mia personalità aperta, e soprattutto nel mio bagaglio culturale che mi serve anche per il mondo del lavoro, o semplicemente a socializzare con persone di altre culture. Ho sempre pensato che non esistono due culture che non hanno niente in comune ed è sui punti in comune che bisogna lavorare per fare dialogo interculturale. Io mi sento esattamente così, un ponte interculturale. Per le per persone sono tunisina in Italia, e italiana in Tunisia. Sono tutti e due e nessuna delle due. Sono una oppure l’altra. Sono esattamente nel mezzo. Ed è così che si sentono moltissimi giovani con più bagagli culturali come me. Ed è così che è nato il fumetto intercultura.

Da giovane professionista che lavora in Italia la mia appartenenza a una cultura diversa da quella italiana per il successo che sto ottenendo sicuramente influisce tanto.
Non è solamente fumetto e cinema d’animazione, ma è soprattutto ciò che racconto attraverso questi mezzi di comunicazione: il mio io ora, e anche ciò che ero. Racconto l’io di tantissime persone che vivono ciò che vivo io, e cerco di trasmetterlo a chi invece non ci conosce. In un periodo come questo pieno di pregiudizi e discriminazioni abbiamo soprattutto bisogno di conoscerci. E non c’è miglior modo per abbattere questi muri che raccontarle. Perché conoscersi e conoscere l’altro è importante per una migliore convivenza.

In questo settore professionale non ho mai subito razzismo, almeno non dai datori di lavoro. Qualche lettore razzista mi ha mandato a quel paese ogni tanto. Ma non gli ho dato importanza, insomma la mia parte io l’ho fatta. Per convivere ci vuole l’impegno di entrambi le parti. Qualcuno forse non s’impegna a voler conoscere e quindi convivere. Devo ammettere che in Italia in questo caso ci vuole tanto lavoro: la disinformazione è causata da una mala informazione mediatica. Per fare degli esempi, se una donna magari porta il velo e vuole fare la poliziotta, qui è impossibile, sono sicura che scatenerebbe una polemica. Invece, in America o in Inghilterra è possibile: le trovi in polizia, nelle guardie giurate, tra i medici, diventano professoresse nei licei o nelle università, maestre, imprenditrici, avvocatesse. Lì è abbastanza normale e le difficoltà non sono enormi come in Italia. Qui ho avuto molte amiche laureate con alti titoli di studio e poi rifiutate solo perché portavano il velo. L’Italia è abbastanza indietro su questo e mi dispiace ammetterlo.

 

 

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