Donne nel settore primario, un terzo che lavora per tre

Le imprenditrici di pesca e agricoltura si dedicano al lavoro, alla casa e all’assistenza in famiglia, ma riconoscimenti e diritti latitano. La situazione di un pilastro fondamentale per un settore da 62 miliardi all’anno.

“Ci sono le donne”: si dice così nel gergo dell’industria alimentare quando si vuole indicare la fase di cernita, selezione e confezionamento di frutta e verdura nella linea produttiva.

Un processo che, come spiega Alessandra Ravaioli, presidente dell’Associazione nazionale Donne dell’Ortofrutta, per tradizione è affidato in larga parte alla compagine femminile impiegata nella filiera agroalimentare.

Qui le donne, che rappresentano quasi il 70% della forza lavoro secondo i numeri dell’Associazione, “giocano un ruolo chiave, soprattutto in quanto deputate alle attività di controllo qualità, probabilmente in virtù dell’attenzione particolare che hanno per questo aspetto”. Un atteggiamento e un approccio al prodotto che, secondo Ravaioli, rivela la capacità specialmente femminile di empatizzare con il consumatore finale: un vantaggio per chi acquista e per l’industria stessa, che si trova a commercializzare materie prime Made in Italy di alto livello.

Specialmente femminile sì, ma non unicamente, perché proprio gli stereotipi rischiano di essere controproducenti, e “la competenza – prosegue Ravaioli – va rivendicata a prescindere dal genere”.

Eppure, guardando ai due estremi della filiera, non è sempre facile ritrovare l’applicazione di questo principio: a monte, ai tavoli istituzionali, la presenza delle donne si dirada, col rischio di perdere di vista alcune questioni cruciali per le lavoratrici; mentre a valle la manodopera femminile – così come quella maschile – assume spesso i connotati dello sfruttamento e della discriminazione, aggravati da violenze a sfondo sessuale.

Le braccianti, discriminate al Sud come al Nord

Di questi fatti sono testimoni alcuni recenti reportage sulla condizione di schiavitù in cui versano le lavoranti indiane dell’Agro Pontino o le braccianti dedite alla raccolta di fragole, pomodori e frutti rossi di Spagna, Marocco e Sud Italia.

L’indagine (realizzata da CREA insieme al Mipaaf nell’ambito del Programma Rete Rurale Nazionale 2014-2020      nell’arco ionico, un territorio a elevato rendimento agricolo tra la Puglia, la Basilicata e la Calabria) rivela la presenza di 22.702 donne impegnate nell’agricoltura, di cui 5.901 straniere (26%). Di queste, oltre il 76% proviene da Paesi dell’Unione europea (soprattutto Romania e Bulgaria), per un’incidenza pari al 20% sulla manodopera comunitaria nell’area.

E tuttavia, le stime effettuate sulle giornate lavorative in rapporto agli ettari coltivati risultano superiori ai dati ISTAT e INPS sulla disponibilità di manodopera familiare ed extrafamiliare, a conferma del fatto che qui gran parte del lavoro non viene regolarizzato o non raggiunge i livelli minimi per l’accesso a misure di welfare basilari.

A mancare in questo pezzo di filiera è la dignità delle lavoratrici, non solo straniere: a cominciare dalla retribuzione e dalle condizioni di vita e lavoro, per finire con i servizi di prima necessità e supporto. Una lacuna, quest’ultima, che accomuna anche alcune delle imprenditrici agricole del nord.

Le imprenditrici agricole lavorano in campagna, in casa e in famiglia

Secondo i dati ISTAT, solo il 31% circa delle cariche imprenditoriali del settore primario è ricoperto da donne. Alla disparità numerica si aggiunge il dato anagrafico: il segmento agricolo conta su una popolazione piuttosto matura (il 70% dei titolari ha più di 50 anni) con una buona percentuale di aziende familiari (30,7%).

“Tutti fattori che concorrono alla difficoltà delle donne di inserirsi, soprattutto se giovani”, afferma Luana Tampieri, presidente regionale Emilia-Romagna dell’Associazione Donne in Campo-CIA. E questo nonostante il grado di istruzione femminile sia generalmente superiore rispetto a quello maschile. O a dispetto del fatto che le donne, più spesso degli uomini, sono promotrici di iniziative volte a garantire l’ecosostenibilità dei processi e incrementare la multifunzionalità aziendale, con l’apertura di agriturismi e fattorie didattiche integrate all’attività principale. Direzioni fortemente incoraggiate dai piani di sviluppo nazionali ed europei. Però, “per quanto riguarda le politiche sociali veramente a sostegno e tutela della donna imprenditrice o lavoratrice”, sottolinea Tampieri, “c’è ancora tanto da fare”.

Tra le principali carenze rilevate dalla presidente rientrano anche la mancata estensione della Legge 104 per chi ha partita Iva, o il tema “tabù” della maternità, che induce molte donne a “lavorare fino alla fine”, con tutti i rischi che questo comporta. Ma a mancare sono anche i servizi: punti nascita, ospedali e asili nelle zone rurali o doposcuola prolungati che agevolino e incentivino le donne nelle loro attività di produzione e cura della famiglia. Due ruoli complementari, di cui molte si fanno carico anche per via della promiscuità tra luogo di lavoro e abitazione tipica del settore primario.

“Se dici che abiti in campagna, le badanti non vengono perché giustamente preferiscono il centro città e le varie opportunità che offre. Persino certi medici di base si rifiutano di andare nelle aree più difficoltose da raggiungere”, prosegue. Il risultato è che chi vive lì si trova generalmente isolato e le donne ricadono in quella “povertà di tempo, in conseguenza dei compiti che si accumulano sulle loro spalle al di fuori del lavoro” ben descritta anche dal rapporto ILO 2018 relativo a donne e lavoro.

“Non si quantificano mai il tempo e l’impegno che poi la donna dedica a questa assistenza non pagata”, aggiunge Tampieri. Un calcolo che la FAO, nella sua recente pubblicazione Rural women and girls 25 years after Beijing, valuta tra le due e le dieci volte superiore rispetto a quello maschile su scala globale.   

 

Il ruolo silente delle donne “neglette” a supporto della pesca

Se ci si sposta dall’entroterra al mare la situazione non cambia molto. Soprattutto per quelle che Adriana Celestini, già presidente dell’Associazione Penelope-Donne nella Pesca, chiama “le neglette”. Non le imprenditrici, le lavoratrici delle cooperative, le impiegate della filiera o delle capitanerie, che possono contare su un inquadramento formale e una retribuzione precisa, ma le mogli, le compagne, le cosiddette “coadiuvanti” dell’impresa familiare: posizione che esiste già, a livello giuridico, per le donne dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio. Non per quelle della pesca, che pure svolgono un’attività fondamentale occupandosi di tutti gli aspetti legati alla commercializzazione, alle pratiche burocratiche e all’amministrazione.

Basta guardare alla marineria di Ancona per rendersene conto: qui il mercato ittico notturno costringe le donne a svegliarsi nel cuore della notte per caricare le casse del pescato e provvedere alla vendita, cercando acquirenti migliori qualora i prezzi non fossero congrui con l’impegno e le spese sostenute dagli uomini nella giornata in mare. Il tutto entro un tempo compatibile con gli altri impegni mattutini, domestici e lavorativi.

L’obiettivo di questo riconoscimento, spiega Celestini, “non è tanto la remunerazione ma l’accesso, attraverso una contribuzione equa, a certi diritti, come l’assicurazione infortunistica, la malattia e una pensione alla fine del lavoro”.

L’ostacolo principale, invece, è la persistenza di un’iconografia generale sbagliata che ritrae il mondo della pesca come unicamente maschile e relega le donne a “figure ornamentali, intente a salutare i mariti col fazzoletto bianco o a scrutare preoccupate le nubi nere all’orizzonte”. Un’immagine che non ha aiutato in primo luogo le donne a raggiungere la piena consapevolezza della loro funzione e a scardinare la convinzione che questa sia solamente una mansione in più nella loro quotidianità.

Chi sposa un pescatore, sposa un mestiere”, dicono le francesi: Celestini è convinta che proprio su questa adesione acritica si debba lavorare per far emergere queste figure dal cono d’ombra in cui si trovano e lasciare che esprimano le loro potenzialità.

Gli obiettivi 5 e 8 dell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile ci ricordano che parità di genere e inclusione sociale sono fattori di crescita. In Italia, la produzione di agricoltura, silvicoltura e pesca vale 61,6 miliardi di euro. Le donne ci sono, sì, ma come?

Foto di copertina by Unsplash

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