Editoriale 27. Conflitti

Il contrario di pace non è guerra, anche se da Tolstoj in giù lo abbiamo sempre pensato. La parola giusta è conflitto, più intensa perché più sfumata. La guerra si immagina e si evoca, anche se le forme sono in costante evoluzione: resta il fatto che dire guerra presuppone un’arma. Nel conflitto entrano in gioco […]

Il contrario di pace non è guerra, anche se da Tolstoj in giù lo abbiamo sempre pensato. La parola giusta è conflitto, più intensa perché più sfumata.
La guerra si immagina e si evoca, anche se le forme sono in costante evoluzione: resta il fatto che dire guerra presuppone un’arma. Nel conflitto entrano in gioco variabili diverse a seconda di come lo guardiamo, è per questo che si fà generazionale, sociale, interiore, economico, personale.
Dovremmo essere più onesti coi conflitti e farli parlare senza usare per abitudine il solo tramite legale e giudiziario. L’Italia ha una matrice litigiosa talmente forte che periodicamente gli organi di informazione elaborano i dati del Ministero della Giustizia e delle Finanze per fornire da nord a sud la mappa delle città col maggior numero di cause penali, civili e liti fiscali. Sembra assurdo, dovremmo monitorare le infinite risorse turistiche e culturali che abbiamo e finiamo per dare voce ai vizi, magari per poi litigarci ancora su.

Litigare è anche una questione di stile con cui diamo conto della cultura su cui abbiamo investito.
Il programma televisivo Forum, che usa la formula dell’arbitrato rituale, è addirittura in onda dal novembre del 1985. ll format era stato trasmesso anche in Spagna, sia su Telecinco che da Antena 3 la quale, con lo stesso canovaccio, lo aveva poi dovuto cancellare per via degli ascolti troppo bassi; la tv spagnola di Mediaset ha ritentato poi il lancio dal 2009 al 2014 col nome De Buona Ley ma è ormai chiaro che nessun pubblico batte quello italiano.
Oggi siamo arrivati a credere che per litigare sul serio occorra andare sui giornali, comprando spazi e pagine che una volta erano appannaggio della pubblicità. Lo fanno i singoli cittadini, le associazioni di categoria, gli imprenditori: è tutto legittimo ma suona comunque come una incapacità di dialogo a monte, non sempre la spinta muove dal bisogno di informare. Anche per separarsi si arriva alla lettera pubblica, per non dire quanta ira si nasconde dietro i profili personali sui social.

Troppa gente, ormai, crede di essere un brand, con tutte le storture che derivano quando rinneghiamo la dimensione relazionale – fatta di corpo e parole – che ci rende unici. Certo non consola sapere che non succede solo in Italia eppure pochi mesi fa una polemica accesa è esplosa pubblicamente sulle pagine del Frankfurter Allgemeine Zeitung, protagonisti lo scrittore svizzero Lukas Bärfuss e il tedesco Roger Köppel, editore e caporedattore del settimanale tedesco Weltwoche, prima caporedattore storico in Die Welt e commentatore ambito in Germania sulla cronaca svizzera. Bärfuss, amatissimo dentro i confini della Merkel, accusa insomma i connazionali di essere diventati “nani insignificanti in un mondo globale”, spaventati e immobili; l’editore, svizzero di nascita e profondamente legato alle sue origini pur avendo eletto la Germania come seconda patria, replica alzando il baluardo democratico elvetico come modello unico al mondo, senza macchia. Un conflitto come tanti per noi italiani ormai anestetizzati ai talk-show televisivi a cui assistiamo come fossero puntate de L’Isola dei famosi. Invece il litigio svizzero traccia una strada nuova nonché delicata: ora si litiga di cose proprie a casa d’altri.

Con gli autori di Senza Filtro siamo andati a raccontare la cultura italiana dei conflitti e non ci siamo fermati ad una lettura esclusivamente aziendale. Nel lavoro tutto confligge in un’ottica pigra e pessimistica, così come tutto diventa restituzione e progresso in una chiave di apertura per i beni condivisi. I contributi con cui abbiamo tradotto i conflitti italiani parlano di medici obiettori, mobbing, pensioni passate e future, formazione giuridica nelle università italiane, generazioni a confronto, grandi opere e comunità ambientali, gioco degli scacchi tra uomini e macchine, megacommunity che ibridano pubblico e privato, culture straniere, cibo come mediazione.
Non abbiamo usato a caso la parola cultura per raccontare i contrasti, non è solo un vanto personale la cultura. Con una visione più ampia aumentano le pedine da poter occupare sulla scacchiera delle soluzioni, cresce la consapevolezza e cala il rancore. Antonino Cannavacciuolo ne è convinto: chi cucina con rabbia la trasferisce nei piatti.
C’è da rassegnarsi al fatto che la giustizia italiana sia sempre più asincrona ma non per questo dobbiamo delegare qualcuno ad ogni costo per risolvere il problema. Vale nel lavoro di ogni giorno, vale nelle aziende e vale per ogni tipo di contrasto perché c’è sempre un livello di risoluzione intermedio che con leggerezza tendiamo a trascurare.

Quello che una volta era il duello – discutibile ma a quei tempi comprensibile per rivendicare una onorabilità – noi lo abbiamo mistificato in tutto e per tutto attraverso la rete, l’unico elemento in comune è che anche noi ci connettiamo ai profili social già dall’alba, come duellanti. Per il resto manca una qualsiasi solennità, la segretezza del luogo è stata messa alla berlina dal vouyerismo, insultiamo senza sforzo diritti e persone e non ci fermiamo quasi mai alla prima ferita che era invece regola sacra nelle sfide tra gentiluomini.
Ripartire da una nuova forma di rispetto sarebbe già un passo avanti per raccogliere il guanto moderno della sfida.

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