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Editoriale 34. Il rientro perfetto
Di perfetto non c’è niente e chi pensa di vederlo si sbaglia. Ancor meno perfetti sono i consigli degli altri su come riadattarci al lavoro dopo la pausa, valgono nella misura in cui pensiamo di somigliarci tutti. Nessun decalogo ci aiuta se non quello che modelliamo su noi stessi e che ciclicamente modifichiamo per andar […]
Di perfetto non c’è niente e chi pensa di vederlo si sbaglia. Ancor meno perfetti sono i consigli degli altri su come riadattarci al lavoro dopo la pausa, valgono nella misura in cui pensiamo di somigliarci tutti. Nessun decalogo ci aiuta se non quello che modelliamo su noi stessi e che ciclicamente modifichiamo per andar dietro ai cambiamenti.
La notizia delle ferie settembrine all’Ufficio Turistico del Comune di Bolsena dice molto sulla relatività dei valori e sulla scala delle competenze. Il cartello con le insolite date di chiusura, affisso oggi sul portone e al centro di non poche polemiche, toglie la solita maschera a chi si improvvisa protagonista sul palco senza conoscere il mestiere. Davvero complesso intuire come si possa generare un piano ferie come questo quando si è ancora in piena stagione turistica per la nostra Bella Italia, difficile capirne la logica o giustificarne l’errore. Non reggono eventuali scuse legate a clausole contrattuali di appalto, non reggerebbe nemmeno la solita mancata comunicazione tra gli uffici; qui non regge più niente se non cominciamo a puntellarci di orgoglio verso ciò che ci spetta e un servizio pubblico non si chiama così per caso. A settembre, evidentemente, non tutti i rientri sono perfetti.
Quando la macchina riprende a girare, lo scivolone più facile lo facciamo sul tempo e sulle aspettative perché a entrambi concediamo di parlare troppo. La narrativa poliziesca ci insegna che il delitto perfetto viene concepito fin nel minimo dettaglio e poi eseguito senza lasciare tracce o sbavature che facciano risalire al colpevole, allo stesso modo il rientro perfetto al lavoro andrebbe pensato e preparato con cura e per tempo per uscirne indenni. Trascuriamo con troppa leggerezza i periodi più sensibili dell’anno – quelli che precedono lo stacco – perché con la mente e per istinto pensiamo già al mentre. In ferie bisogna invece andarci preparati perché sono una bella prova di abilità. Nelle fessure del calendario c’è il meglio di noi. Per carità, non parlo del programmare al meglio la destinazione, gli alberghi o i musei, mi riferisco al prepararci dentro. E’ inevitabile arrivare stanchi alla pausa estiva ma la sensazione diffusa è che quella stanchezza ci domini ormai sempre, persino durante le ferie, proprio perché ce la portiamo in vacanza e la mandiamo in conflitto coi due logorroici di prima, cioè il tempo e le aspettative. Una scelta drastica va fatta: tutti e tre in ferie insieme non li possiamo più portare.
In vacanza farò, leggerò, andrò, dormirò perché finalmente avrò tutto il tempo per me. L’abbiamo pronunciata tutti almeno una volta nella vita e forse tutti, almeno una volta nella vita, ce ne siamo pentiti.
Il rientro perfetto non è quello fisico del primo giorno di lavoro dopo le ferie, ben cucito intorno ai migliori intendimenti e abbottonato alle promesse; sul rientro perfetto ci si comincia a ragionare qualche settimana prima della sosta proprio per parare i colpi e depistare gli errori. L’anno prossimo, quando l’estate si avvicina, piuttosto che specchiarsi inutilmente per la prova costume varrebbe la pena pesarsi i progetti, la fattibilità, la propria identità in divenire. Giusto per non perdere il baricentro alla fine delle settimane di sospensione e sapere già da quale strada ripartire.
Perfetto è anche il rientro di chi non smania per ridare subito gas bruciando le riserve nuove, imparando al contrario a far parlare l’estate con l’autunno e a non considerare più i mesi come un calendario in progressione ma come un’idea più fluida. Collegarci ad una nuova concezione del tempo ce lo rende certamente meno ostile.
Curioso sarebbe anche ipotizzare che i mesi di lavoro fossero di pausa e viceversa. E’ dura da ammettere ma alla fine neanche quelli ci basterebbero, forse ci lamenteremmo per il troppo riposo e di sicuro avremmo la conferma che lavorare, più che piacerci, ci serve. Ci serve prima dei soldi, prima dei ruoli, prima del futuro: ci serve perché ci dice chi siamo e chi vorremmo essere.
E’ per questo che riprendere il ritmo abituale ha il suo fascino, perché continuamente ci restituisce la rotta su noi stessi e se ne frega del tempo che fa fuori. Se iniziamo a capire che il nostro fare è la nostra espressione, ogni pausa dovrebbe insegnarci quanto il lavoro ci manca, senza vergognarcene, e che ogni tanto è giusto separarsi per recuperare obiettività.
Immaginarci un po’ diversi ci rende già più nuovi, tanto per la perfezione c’è ancora tempo.
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