Editoriale 60. È la mindfulness, bellezza

Per buona pace di chi ripete da anni che i robot toglieranno il lavoro agli umani: avevate ragione, ma vi sbagliavate. A partire dal prossimo aprile, in Giappone sarà disponibile il drone T-Frend a circa 400 dollari al mesi: dotato di videocamera e in grado di registrare le immagini di impiegati che restano al lavoro […]

Per buona pace di chi ripete da anni che i robot toglieranno il lavoro agli umani: avevate ragione, ma vi sbagliavate.

A partire dal prossimo aprile, in Giappone sarà disponibile il drone T-Frend a circa 400 dollari al mesi: dotato di videocamera e in grado di registrare le immagini di impiegati che restano al lavoro troppo a lungo, gli verrà chiesto di iniziare a volare sopra le scrivanie aziendali non appena verrà superato l’orario di lavoro previsto da contratto. Dovrà avvicinarsi ai dipendenti che non mollano la presa e lasciar partire un ronzio a dir poco fastidioso sulle note di una musica tradizionale scozzese che i giapponesi associano comunemente alla chiusura dei centri commerciali. T-Frend fa tutto da solo e col gps integrato sarà anche capace di tornare autonomamente alla base per ricaricarsi. In fase di perfezionamento c’è persino la funzione di riconoscimento facciale oltre a qualche altro sistema inserito per monitorare la sicurezza interna delle aziende; ad ogni modo, per adesso è più che incisivo il lavoro che gli è stato assegnato: mandar via le persone dagli uffici. Sì, è vero che i robot ci toglieranno il lavoro, ma magari ci faranno un favore.

I giapponesi l’hanno messa subito sul drastico e senza mezzi termini poiché la loro cultura fortemente stressata dal lavoro ha da tempo superato una soglia di inconsapevolezza che mette seriamente a rischio l’equilibrio tra vita privata e lavoro, tra benessere e attività professionale. Per dirlo ancora meglio, le persone hanno dimenticato di essere un’unità e continuano a vivere in un modo e lavorare in un altro.

Noi, in Italia, ce la giochiamo con le carte culturali che abbiamo a disposizione per risistemare le temperature interne delle aziende, i ritmi di lavoro e le relazioni d’ufficio. Anna Viscogliosi è l’Assessore al personale e alle pari opportunità del Comune di Genova. La sua idea non è l’unica su e giù per lo stivale, ma a lei va riconosciuto di esser riuscita meglio d’altri a farla emergere. Ha da poco istituzionalizzato il ‘coffee time’ per mettersi a disposizione di tutto il personale del Comune e garantire incontri periodici di un’ora. Basta prenotarsi, fissare la data e andare al bar. Nelle dichiarazioni raccolte a mezzo stampa, l’intento sottolineato è quello di “approfondire la conoscenza reciproca e il confronto su proposte e progetti, all’interno delle iniziative avviate per la comunicazione interna e il benessere organizzativo”. Tutti i risultati delle pause caffè con l’Assessore vengono messi in rete e resi accessibili ai dipendenti con lo stile del forum. “L’obiettivo è costruire insieme un buon ambiente di lavoro basato sulla comunicazione e sulla fiducia reciproca”.

In Giappone ti mandano a casa, in Italia ti offrono un caffè: la questione aperta è di cosa parliamo quando ci troviamo davanti alla consapevolezza. Il problema è che l’abbiamo tradotto così l’inglese midfulness, forse perché ci sembrava più comodo e intuitivo, forse perché speravamo di essere sbrigativi e sintetici come gli anglosassoni pur sapendo di non esserne capaci. Al  contrario, siamo molto più sfaccettati e sottili, e la nostra lingua è un armadio pieno di vestiti nuovi che per pigrizia non indossiamo mai.

La mindfulness di fatto non si spiega perché semplicemente non ha una forma, non è un oggetto.

Stare sul presente rispetto a ciò che ci sta accadendo non è esattamente la definizione di consapevolezza. Certo che Jon Kabat-Zinn, padre dei padri, parla di mindfulness come della “consapevolezza che emerge dal prestare attenzione di proposito, nel momento presente e in maniera non giudicante, allo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento”. Una cosa però è tradurre lapidariamente con consapevolezza, altro è tradurre troppo in fretta certe condizioni fisiche e mentali per le quali ci manca la parola esatta.

Ogni parola è un prodotto della mente, il guaio è che questo processo lo diamo per scontato o persino lo dimentichiamo di inerzia.

La mente è un sistema di livelli simbolici attraverso i quali abbiamo bisogno di incasellare con un nome ciò che vediamo con gli occhi; tra il prima e il dopo di quel processo sottilissimo, che vuol dire un tempo infinitesimale, se ne sta comoda la consapevolezza. Tanto comoda quanto impalpabile. La sospensione, saldamente radicata sul presente, è il suo habitat naturale. Eppure la sospensione noi tendiamo continuamente a manipolarla con le mani pur di poggiarla a terra, a cercare di toccarla per capirla, spesso persino a volerla riempire perché ogni vuoto insostenibile ci fa l’eco dentro e ci tormenta. Non si riempie un vuoto con un altro e vita e lavoro non hanno gli stessi volumi.

Ogni volta che non riesco a spiegare qualcosa con la lingua, mi viene in mente uno stato primordiale; penso a dimensioni del passato con cui abbiamo perso confidenza ma non presenza. Questo è ciò che mi ispira la mindfulness. Ne avremmo tutti un bisogno matto di sospendere per qualche minuto al giorno non tanto ciò che facciamo bensì ciò che siamo. Vergognarci di farlo è il primo limite, il secondo è non iniziare a dircelo liberamente nei luoghi di lavoro e chiedere che venga sistematizzato, adattato al nostro ambiente quotidiano. Ogni spazio di lavoro ha una pelle che tira in un modo diverso dall’altro.

Siamo ancora in tempo per evitare l’imbarazzante ronzio di un aggeggio tecnologico assunto per allontanarci dal posto di lavoro e illuderci che basti una musica di sottofondo a ricordarci chi siamo. Ci serve proprio una sentinella esterna che rimpiazzi un pieno inutile con un vuoto necessario? Anche se i passi non portano sempre dalla stessa parte dei pensieri, va tenuto a mente che dalla testa ai piedi siamo un tutt’uno fatto di distretti. Concentrarsi solo sui distretti è fuorviante tanto quanto non sapere che esistano anche loro. Concentrarsi solo sui passi o solo sui pensieri ugualmente non funziona. Il problema – scommettiamo? – è l’aver creduto che bisognasse concentrarsi attivamente su variabili poste fuori di noi per poi renderci conto, paradossalmente, che il fuori ci pareva un dentro.

 

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