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Editoriale 77 – Emilia tua, Romagna mia
Quando l’Italia trema, oppure frana o si allaga, c’è una prima rete spontanea dei soccorsi da cui sempre tutto riparte. In alcune regioni si sente più forte, persino più della natura. Lo Stato – lo Stato in carne e ossa e senso del dovere, non quello delle rappresentanze – arriva sempre un po’ dopo e […]
Quando l’Italia trema, oppure frana o si allaga, c’è una prima rete spontanea dei soccorsi da cui sempre tutto riparte. In alcune regioni si sente più forte, persino più della natura. Lo Stato – lo Stato in carne e ossa e senso del dovere, non quello delle rappresentanze – arriva sempre un po’ dopo e un po’ troppo impettito più nel ruolo che nel senso.
Lo Stato spesso la buca, la rete.
Sacrosanto che l’Emilia-Romagna sia per eccellenza la terra di una cooperazione stratificata e naturale ma anche la cooperazione non è più quella di una volta, nel bene e nel male sta ricercando un altro sé che a tratti funziona, a tratti meno. Tenere insieme tante differenze è politica sottile e il risultato non è scontato.
L’Emilia-Romagna, col trattino in mezzo, spiega già col nome una frattura che non è solo un fatto di punteggiatura: c’è un sud che come tutti i sud si sente messo fuori gioco, anzi escluso dai giochi, e c’è un nord che come tutti i nord si dimentica dove tiene fissi i piedi. La Romagna, per quanto ancora sottotono e in mano alla prudenza, sta imbastendo la regia di una trasformazione culturale con cui andare a scalare fino agli ultimi gradini delle istituzioni regionali per poi gridare da lassù che c’è anche lei, che devono capire quanto vale, che così non le sta bene, che il turismo è cambiato, che può contribuire più di quanto pensino. Intanto abbiamo provato a intervistare da quelle parti i primi coordinatori della Fondazione che muove le fila del mutamento ma si sono negati.
Basta poi pensare a Parma e a come non abbia avuto paura di svestire gli abiti unici del cibo a tutti i costi per fatturare e a come si stia ritagliando il primato di provincia col più alto tasso di imprese B-Corp dove profitto e benessere si cercano e si corteggiano. Nei bilanci entrano voci fino a poco tempo fa impensabili. Quante trasformazioni. Persino il rosso delle cooperative si è slavato.
Intanto è di poche ore fa il vanto del Presidente di Regione che porta la stampa a guardare i numeri e a tirare le somme dei primati. I primati passano, conta costruire dal basso.
“I dati sull’occupazione diffusi oggi da Istat, insieme a quelli del commercio estero di ieri, confermano la forza e la vitalità del tessuto socio-economico dell’Emilia-Romagna, ancora una volta locomotiva del Paese. La disoccupazione dal 6,5% al 5,9% certifica la performance migliore tra tutte le regioni, tolta la provincia autonoma di Trento, così come per l’export pro-capite confermiamo il dato più alto dell’intera penisola. C’è un fattore qualità, di sistema e di prodotti, che premia un territorio e le scelte che qui abbiamo compiuto insieme tra istituzioni e parti sociali. La qualità dei nostri prodotti nasce dalla capacità di innovare degli imprenditori insieme alla professionalità di una manodopera altamente qualificata. Un valore aggiunto sul quale abbiamo puntato e su cui continueremo ad investire, sostenendo formazione, ricerca e sviluppo, processi di internazionalizzazione. È l’Emilia-Romagna che non si ferma, nonostante le nubi che si addensano all’orizzonte e la flessione di tutti i principali indicatori economici del Paese. Ribadiamo la nostra richiesta al Governo di cambiare strategia economica, rilanciando gli investimenti e una politica industriale di sostegno alle imprese e al lavoro. In caso contrario anche la situazione in Emilia-Romagna è destinata a peggiorare”.
Più che i numeri, vien da dire che la forza stia altrove perché i numeri sono cagionevoli di salute, a costruire sono le persone. In Emilia-Romagna il primato sta nella tensione positiva con cui la gente vive e produce, nella misura precisa con cui il lavoro tiene in palmo di mano la sapienza artigiana e manifatturiera e non l’impalpabilità delle start-up, nell’innovazione che non ha bisogno di entrare dalla porta degli inutili convegni per riempire la bocca di qualcuno, nella insolita modalità con cui la politica allunga la mano ai cittadini che la afferrano perché non erano poi così abituati a partecipare dato che destra e sinistra sono pur sempre state soltanto forme verbali e non sostanze reali. Qui hanno capito di essere l’avanguardia italiana mentre tutti guardavano fissi a Milano e che il nord a cui ispirarsi forse è proprio il loro; loro che fino a pochi anni fa pensavano di essere solo un buon Centro Italia come tanti e di avere di diverso solo il buon bere e il buon mangiare.
Anche la geometria economica italiana non è più la stessa, lo si ripete ormai da mesi, e oggi il triangolo ha le punte in Emilia, Veneto e Brianza: siamo passati dal triangolo equilatero e politico firmato Torino-Milano-Genova allo scaleno più moderno che attrae di più l’Europa.
Si chiamano “soggetti sociali” i protagonisti nuovi agli occhi di quella parte d’Italia che sempre sbuffa. Anche qui eravamo abituati alle associazioni di categoria con la pancia piena e i progetti vuoti, alle politiche dall’alto in basso senza via di ritorno e a un odore stantio di impresa e di prodotto. In Emilia le fabbriche hanno caviglie salde di cui andare fieri pur senza somigliare ai capannoni del Veneto padronale che non conosce pausa e vede solo fatica, i giovani sanno dare un significato al lavoro perché la parola non affoga dentro gli inglesismi incubati da culture che non sentono loro, lo sviluppo sostenibile chiama in causa una crescita che passa per le politiche attive, la mobilità, gli investimenti, la tutela dei lavori digitali in ogni forma, la competenza nel decifrare un mondo del lavoro che non somiglia più a se stesso e che chiede di essere interpretato in fretta.
In controtendenza totale non sono franati manifatturiero, automotive, packaging, meccatronica, biomedicale, agroalimentare e wellness: la Germania li osserva e impara.
Guardo fin da bambina le cartine geografiche immaginando l’Emilia-Romagna come una regione dal bacino largo, largo il fianco, la postura stabile e la fibra forte nel tenere insieme due pezzi di Paese. A chi piace pensarlo, pare che sia femmina.
Nemmeno qui è tutto rose e fiori ma ci si prova meglio che altrove e altrettanto meglio ci si riesce. Toppe vanno ancora messe e ferite geografiche interne chiedono di essere ricucite con mano ferma. Anche qui la spaccatura esiste e non è solo tra Turtlèn e Caplèt seppure i toni della diatriba di provincia a tavola sia alta tanto quanto l’appartenenza a un partito o a una parrocchia o alla squadra di basket e di pallone. Del resto in questa pancia d’Italia lo stile di vita sfiora il perfetto equilibrio: professionale e privato si toccano e insieme ci bevono su davanti a un piatto di brodo.
Agli emiliani e ai romagnoli snaturare non piace, chi snatura paga. Il terremoto dell’Emilia sette anni fa ha bussato forte, talmente forte che strati di pelle e di terra sono venuti giù in blocco: in un attimo era sembrato che il buco fosse per sempre ma così non è stato grazie al carattere di chi emiliano lo è fino all’osso.
Con la punta del compasso su Bologna, il settimo viaggio di Senza Filtro ha toccato un lungo raggio e da nord a sud, da est a ovest, la regione è sembrata matura.
Si matura quando si anticipano i tempi.
Si matura quando si accetta il passaggio da un prima a un dopo.
Si matura anche quando non si è pronti, spesso di più.
Si matura quando non si cerca di crescere da soli.
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