Gian Antonio Stella e quando il Veneto rinunciava ai funerali

«Un aneddoto vissuto in prima persona sulla cultura imprenditoriale dei veneti? Se vuoi ti racconto quello che mi è capitato anni fa. È emblematico, credimi. Un giorno mi telefona a casa Antonio Albanese. Io non lo conoscevo, poi siamo diventati amici. Lui sapeva che avevo scritto parecchia roba sui veneti, sugli schei, sul loro attaccamento […]

«Un aneddoto vissuto in prima persona sulla cultura imprenditoriale dei veneti? Se vuoi ti racconto quello che mi è capitato anni fa. È emblematico, credimi. Un giorno mi telefona a casa Antonio Albanese. Io non lo conoscevo, poi siamo diventati amici. Lui sapeva che avevo scritto parecchia roba sui veneti, sugli schei, sul loro attaccamento all’azienda, così mi parla di un suo progetto. Voleva raccontare una storia di fantasia, la storia di un industriale veneto che rinuncia ai funerali di suo padre perché deve fare una consegna importante per la sua azienda. “Ti sembra una storia assurda”, mi chiede Albanese. Assurda? Ti posso assicurare che è una storia vera. È realmente accaduto. Mi è capitato di conoscere un industriale veneto, di cui non farò il nome, che ha rinunciato ai funerali di suo padre perché doveva fare una consegna per la sua fabbrica. E quando io gli ho chiesto perché aveva rinunciato a partecipare ai funerali di suo padre lui mi ha risposto: “Papà mi avrebbe capito”. Questo aneddoto la dice lunga sullo spirito dei veneti».

Quando riesco a rintracciarlo attraverso la segreteria di redazione del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella accetta volentieri di parlare del “suo” Veneto e di tutti i volti, le luci e le ombre che caratterizzano il Nord Est d’Italia. Lui quelle terre le conosce bene, le ha vissute da ragazzo, le ha guardate con l’occhio dell’inviato del Corsera e le ha studiate da diverse angolazioni, da sempre. 65 anni, nativo di Asolo, un borgo di poco più di novemila abitanti in provincia di Treviso, inviato ed editorialista del quotidiano di via Solferino, autore di numerosi libri di grande successo come La Casta, scritto assieme a Sergio Rizzo, L’Orda, quando gli albanesi eravamo noi, sulla xenofobia e il razzismo contro gli emigrati italiani, Schei, un’indagine ante litteram sulla patria dei Benetton, dei Marzotto, di Leonardo Del Vecchio, deus ex machina di Luxottica, e di migliaia di piccole e medie imprese che costituiscono la fitta rete del territorio industriale più ricco d’Italia. E ancora La Deriva e poi Negri, froci, giudei & co. L’eterna guerra contro l’altro; un libro sul razzismo di grande attualità definito da Claudio Magris “un potente, ferocemente ilare e doloroso dizionario o prontuario universale di tutte le ingiurie, odi e pregiudizi nei confronti del diverso d’ogni genere”.

 

 

Torniamo indietro negli anni. Schei è un libro di 22 anni fa e racconta come il denaro sia uno degli elementi cruciali per capire il Nord Est. Che cosa è cambiato da allora?

Ovviamente è cambiato tutto. C’era una regione che usciva dal dominio della Democrazia Cristiana ed entrava in una nuova era. A mio parere non è stato neppure un passaggio troppo traumatico: la Lega, anche se il 1996 fu l’anno della dichiarazione d’indipendenza a Venezia (parole, parole, parole…) si rivelò sul territorio assai meno guerresca, subentrando quasi senza traumi, qua e là, alla vecchia dc dorotea.

Dunque la politica ha svolto un ruolo importante nei mutamenti degli ultimi 20 anni.

Direi di no. I cambiamenti sono passati per altre vie. Anzi, sai cosa penso? Che nella politica italiana il Veneto ha sempre contato ben poco. Poi ci torniamo, su questa questione. C’era una battuta: la politica andava lasciata al mona de’a fameja. C’era l’idea che il bravo imprenditore non aveva il tempo di occuparsi di politica, tutto il suo tempo doveva essere dedicato a fare impresa. L’orgoglio più grande in quelle zone è l’azienda di famiglia, non la politica. Luca Zaia è stato coraggioso a ricordare, dopo la tragedia genovese, che fino a due mesi fa i Benetton erano l’orgoglio del Veneto. Poi è crollato il ponte e tutto è cambiato. È giusto indagare sulle responsabilità di quella tragedia e chi ha sbagliato deve pagare, ma nei confronti dei Benetton ci sono stati online anche insulti e volgarità infami. La famiglia Benetton non è solo la Società Autostrade. Fino al ponte di Genova (ripeto: chi ha sbagliato paghi) c’erano stati reportage e polemiche per le immense tenute comprate in Sudamerica, per i rapporti con imprenditori dai modi spicci come Briatore, per qualche operaio troppo giovane assunto in qualche fabbrica delocalizzata. Cosa, com’è noto, sempre negata. Ma in ogni caso nessuno aveva messo in dubbio la loro storia di imprenditori venuti dal nulla: anche loro, nel Veneto di allora, hanno cominciato a lavorare da ragazzi. Giuliana cominciò a 11 anni, a 14 era caporeparto che faceva due turni per portare a casa due stipendi. Gilberto diceva di essere quello dei fratelli che aveva studiato di più: fino a 14 anni. Luciano lo stesso. Semmai si è discusso sull’autosfruttamento, molto diffuso tra gli imprenditori veneti, non solo tra i Benetton.

Una storia simile a quella di Leonardo Del Vecchio, che partendo dallo sfruttamento del lavoro a domicilio nelle case di Agordo è riuscito a costruire un impero come Luxottica. Un’accumulazione di capitale piuttosto dura, fondata spesso sul lavoro dei minori, che ricorda quella dell’Inghilterra del 1700.

C’era anche questo aspetto. È vero. Ma parliamo di aree svuotate da decenni di povertà ed emigrazione: quella era l’alternativa. In ogni caso anche per Leonardo del Vecchio vale il discorso dell’autosfruttamento: la sua vita era pazzesca. Partiva alla mattina prima dell’alba per Milano con la sua Fiat 1100, consegnava gli occhiali, tornava subito ad Agordo (e non c’era l’autostrada di oggi), lavorava fino a notte e la mattina dopo tornava a Milano. Così ogni giorno. In ufficio, dietro la sua scrivania ad Agordo, paesotto di quattromila abitanti dove venne fondata la Luxottica nel 1961, Leonardo Del Vecchio teneva attaccata alla parete la cambiale del primo prestito.

Mi stai dicendo che questi due esempi, Benetton e Leonardo Del Vecchio, rappresentano lo spirito imprenditoriale del Veneto?

Non solo loro. Ci sono tanti casi simili. Penso ad esempio a Ivano Beggio, il fondatore di Aprilia (poi passata alla Piaggio) morto nel marzo di quest’anno. Il giovane Beggio si costruisce il primo “cinquantino” da solo, nel negozio di bombole, ferramenta e biciclette del papà. Quando gli subentra comincia a fabbricare motorini e vent’anni dopo, battendo la Honda, vince il primo di 56 titoli mondiali e comincia ad assumere, lui con la terza media, decine e decine di ingegneri.

Oggi il Nordest che ho conosciuto e che ho provato ad analizzare e capire è molto diverso. Il passaggio generazionale non sempre ha funzionato come era nelle speranze dei “condottieri” degli anni d’oro. Si pensi, ad esempio, al caso di Pietro Marzotto, che era un gigante, ma…

Che cosa invece non è cambiato a tuo parere?

Il rapporto con la politica. Ne parlavamo all’inizio della nostra conversazione. Nonostante il Veneto, dagli anni ‘60 in poi sia stato uno dei motori più potenti dell’economia italiana, non ha mai avuto un peso né nella politica né in Confindustria. Pietro Marzotto è stato per anni vicepresidente di Confindustria ma non è mai arrivato alla presidenza. E quando gli chiedevano perché non si candidava a guidare la Confindustria lui rispondeva: «Mi son un industrial, no un presidente». Lo stesso vale per la politica. Dopo il democristiano Mariano Rumor (unica eccezione con Luigi Luzzatti in 150 anni di storia!), citami un politico veneto che abbia avuto un peso vero a livello nazionale. Gui? Tremonti, forse. Ma è solo di origine veneta. Sì per un certo periodo, negli anni Ottanta ci sono stati uomini politici come Gianni De Michelis e Carlo Bernini. Ma è poca roba se si pensa al peso che il Veneto ha avuto nella crescita economica dell’Italia.

E la Lega di Matteo Salvini ce la siamo dimenticata? Lo sanno tutti che il Nord Est è la base elettorale della Lega.

Direi che anche in questo caso non cambia niente. Anzi: si tratta di una conferma della regola. Bossi, Maroni, Salvini: ma un veneto, gli altri sono lombardi. I contrasti sono noti e comunque non credo che gli imprenditori del Nord Est si identifichino totalmente con la Lega che oggi governa. Certo, i voti vengono anche da quel bacino, ma ad esempio sul tema dell’immigrazione e dell’integrazione ci sono modi diversi di gestire il fenomeno.

Questo è vero. Un imprenditore del Nord Est mi raccontava che, se gli portassero via la manodopera straniera, per le loro aziende sarebbe un tragedia. È così?

Certo che è così. Poco tempo fa sul Corriere della Sera ho raccontato una storia che è significativa a proposito dell’immigrazione.

Racconta.

Bepi Covre, proprietario a Oderzo, nella grassa provincia trevisana, di un’azienda metalmeccanica che fa componenti per l’arredamento e di un’altra che fa tavole e sedie (soprattutto per Mondo Convenienza, «roba buona perché alla prima “carega” che si rompe, nel nostro settore, hai chiuso»), mi ha raccontato di avere cercato a lungo personale da assumere. «Ne abbiamo 250, ce ne servivano quaranta. Non sono poche, quaranta assunzioni a tempo indeterminato. Con uno stipendio di partenza intorno ai 1.300 o addirittura 1.500 euro. Niente da fare. Alla fine, dopo il “decreto dignità” di Di Maio ne ho presi una decina qui della zona e una trentina di varia provenienza. Rumeni, moldavi, indiani, bosniaci, africani; residenti in Italia, magari nati in Italia, scolarizzati in Italia. Gente che non fa problemi a spostarsi e andare a lavorare dove c’è il lavoro. Gli diamo anche una mano a trovar casa».

Meridionali niente? Zero, mi ha risposto l’imprenditore: «Solo uno, Piero, viene da Norcia, dove aveva perso il lavoro a causa del terremoto. L’ho assunto e son contento. Come è contento lui». Il punto è che qui sì, il lavoro c’è. Ma, dispiace dirlo, non troviamo giovani meridionali disposti a venir su. Non solo io, anche tanti colleghi. C’è un mio amico, importante fornitore di Ikea, oltre 1.200 dipendenti, che ha incaricato le agenzie interinali di fare scouting al Sud per cercare lavoratori disposti a trasferirsi in provincia di Pordenone. Non per lavori in miniera: soprattutto periti, tecnici, operai specializzati. Niente da fare. Pensi che siamo arrivati a “prenotare” ragazzi che vanno ancora a scuola», mi ha detto l’imprenditore in quell’intervista che ti ho citato. La realtà è che in Veneto molti immigrati si sono integrati meglio che in altre regioni. E quando c’è stato un problema è stato gestito e risolto. Guarda il caso di via Anelli a Padova. Via Anelli era il simbolo italiano del degrado, della violenza, dello spaccio. Simile (in peggio) a quello che oggi è il quartiere di San Lorenzo a Roma. Lo hanno risolto. Ora quel problema non c’è più. Ma non l’hanno risolto con le ruspe. Hanno sparpagliato la gente, hanno trovato appartamenti e lavoro a chi ne aveva bisogno. Hanno risolto in modo semplice un problema complicato. È un po’ questa la natura dei veneti.

Alla fine di questa conversazione vorrei farti una domanda su un tema assai delicato. Come mai il livello dei suicidi è stato così alto in Veneto negli anni della grande crisi?

Se il lavoro è tutto, se pensi solo a quello, se tutto il resto passa in secondo piano (la famiglia, gli amici, il tempo da spartire con gli altri, la fede religiosa stessa), se lavori anche di notte e poi anche il sabato e poi anche la domenica, se rinunci ai funerali di tuo padre per una consegna urgente… Alla fine, se le cose vanno male, ti spari. Perché ti manca tutto. Il centro di gravità. L’ossigeno. La crisi? È stata come una giungla, è sopravvissuto chi è riuscito a non farsi schiacciare dalle difficoltà. Oggi in Veneto la disoccupazione è bassissima. Di recente il Sole 24 ore ha pubblicato un servizio nel quale si dimostrava che il manifatturiero italiano (Veneto in testa) è cresciuto negli ultimi tre anni più che in Germania, in Gran Bretagna o Francia.

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