Il «padrone», ovvero l’antagonista

Nella canzone popolare italiana il protagonista non lavora spesso, quasi mai lavora di buon grado. Operaio, impiegato o lavoratore dei campi che sia, si tratta nella quasi totalità dei casi di un dipendente o assimilato, e le posizioni di responsabilità sono del tutto assenti dalla narrazione: dirigenti d’azienda, quadri, capireparto non si trovano mai all’interno […]

Nella canzone popolare italiana il protagonista non lavora spesso, quasi mai lavora di buon grado. Operaio, impiegato o lavoratore dei campi che sia, si tratta nella quasi totalità dei casi di un dipendente o assimilato, e le posizioni di responsabilità sono del tutto assenti dalla narrazione: dirigenti d’azienda, quadri, capireparto non si trovano mai all’interno dei versi del repertorio musicale leggero. Il vertice dell’impresa rappresentata nelle canzoni è impersonato da un’unica figura, quella del datore di lavoro, maschio, monocratico, prepotente, antagonista: il «padrone».

Quasi assente nella musica leggera fino a tutti gli anni Sessanta, il «padrone» torna ad essere evocato con il crescere degli episodi di conflittualità sociale, quando si afferma un filone di canzoni a carattere militante, nate per raccontare la realtà delle rivendicazioni operaie e cantate durante i momenti di lotta. Il più noto di essi è il destinatario della greve quanto ironica invettiva cantata da Paolo Pietrangeli e intitolata «Mio caro padrone domani ti sparo», datata 1969, sia detto prima dell’esplosione della violenza politica, ed è tratta dal primo Long Playing del cantautore, di cui costituisce la title-track.

“Mio caro padrone domani ti sparo, farò di tua pelle sapor di somaro”

Dopo un’introduzione dal finto tono burocratico, Pietrangeli dà appuntamento alla controparte per il giorno 21 del mese corrente, quando si toglierà la soddisfazione di ucciderlo e seviziarlo con modalità diverse e finanche comiche («ti faccio ingoiare un pitone salato», «ti stacco la testa che è lucida e tonda così finalmente imparo il bowling»). Al termine della seconda strofa, il cantautore prende esplicitamente le distanze dalle iperboliche minacce precedenti («Compagni, sia chiaro che il giorno 21 migliore vendetta sia proprio il perdono»), senza però negare la soddisfazione che gli darebbe il vedere la controparte appeso al soffitto, «grosso, grasso, unto e obeso, proprio come un baccalà».

Pochi anni prima, in «O cara moglie» di Ivan della Mea, il datore di lavoro è ritratto mentre cerca di avere ragione di uno sciopero tramite l’impiego di «crumiri»: il protagonista della canzone racconta di averlo appena intravisto, ma nonsi lascia scappare l’occasione di etichettarlo icasticamente con un «Rideva allegro, il porco padrone». Sia Pietrangeli che Della Mea sono comunque fuori dal circuito propriamente commerciale della musica leggera: i loro dischi sono incisi per l’etichetta indipendente I dischi del sole, all’epoca la più importante casa discografica «militante».

All’inizio degli anni Settanta, nell’ambito di un recupero della tradizione musicale folk portato avanti dalle principali case discografiche, alcuni artisti affermati danno alle stampe canzoni aventi origine nei cori da lavoro. Il più noto di tutti, «La filanda», è la versione italiana di un motivo della portoghese Amalia Rodrigues dal titolo « É ou não è”»: il testo firmato da Vito Pallavicini per Milva mescola diversi piani, raccontando la storia di una sfortunata operaia sedotta e messa incinta dal figlio del padrone. Il carattere di rivendicazione di genere e di classe del brano, il più grande successo della «Pantera di Goro», viene però attenuato dalla rassegnazione di fronte all’ingiustizia sociale. Il padrone rimane sullo sfondo, il rampollo si defila dalle sue responsabilità, la fanciulla resta la sventurata eroina di un romanzo d’appendice nel quale paga il prezzo della sua temeraria ingenuità: il lavoro è mera ragione del diverso ruolo dei protagonisti, l’azienda è presente esclusivamente come teatro della vicenda.

“sciur padrun da li beli braghi bianchi, fora li palanchi ch’anduma a cà.”

Sono Gigliola Cinquetti prima e Eugenio Finardi poi a rendere famosi due «canti delle mondine» estrapolati dal repertorio di Giovanna Daffini, l’interprete che per prima aveva messo in pratica una ricerca filologica della tradizione orale dei canti popolari italiani. All’inizio del suo periodo «folk» la cantante di Verona restituisce alle stampe «Sciur padrun da li beli braghi bianchi», che, cantato in una sorta di koinè padana, testimonia una vera rivendicaione sindacale da parte delle lavoratrici delle risaie. In chiave rock, viceversa, è l’omaggio di un giovanissimo Eugenio Finardi alla tradizione delle mondine, con «Saluteremo il signor padrone». Il datore di lavoro è, in entrambi i casi, una figura distante, sorda e incapace di dialogo, che si distingue per gli abiti eleganti ma soprattutto per le angherie cui sottopone i lavoratori.

Un ultimo tentativo di portare le rivendicazioni sindacali in concorso al Festival di Sanremo sarà infine di Claudio Villa: politicamente vicino al movimento dei lavoratori, il «reuccio» tenta di iscrivere al Festival di Sanremo del 1976 una «Serenata al mio padrone», dedicata ancora una volta alla dialettica verso il datore di lavoro. Il motivo, su un incalzante ritmo di samba, celebra l’astensione dal lavoro con versi come «le mani a cui devi la ricchezza, incrociandosi domani, il tuo impero fermeran». Bocciata, non senza una velenosa coda di polemiche, dal patron del Festival Vittorio Salvetti, la canzone sarà però destinata a rimanere inedita.

 

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