La culpa in eligendo degli HR

Alcuni giorni fa ho intavolato una interessante discussione con un amico e collega sulla centralità della selezione e dello sviluppo del personale, sia in una prima fase, cioè quando si tratta di scegliere e assumere le persone migliori (migliori per l’azienda e le sue dinamiche e non solo in senso assoluto) sia successivamente, quando si […]

Alcuni giorni fa ho intavolato una interessante discussione con un amico e collega sulla centralità della selezione e dello sviluppo del personale, sia in una prima fase, cioè quando si tratta di scegliere e assumere le persone migliori (migliori per l’azienda e le sue dinamiche e non solo in senso assoluto) sia successivamente, quando si tratta di individuare le persone giuste alle quali assegnare posizioni di responsabilità (il cosiddetto sviluppo verticale).

Si è trattato di potenziale e di talento, condividendo la maggiore attenzione che si riserva al primo elemento che abbiamo il compito di sviluppare rispetto al secondo che, invece, deve essere “solo” valorizzato.

Nella tradizionale contrapposizione di scuole di pensiero, quella classica del manager di grande esperienza che sostiene che a lui “bastano cinque secondi per capire le persone” e quella sostanzialmente basata su tecniche, test, grafologia, assessment centre ed esame del DNA (dai tempi di Lombroso l’evoluzione in materia è stata significativa) sostenevo che, pur riconoscendo alla “pancia”, cioè quel misto di esperienza e di istinto, un ruolo importante, l’approfondimento che è possibile realizzare con più metodologie è un aiuto che non si può e non si deve trascurare.

Ma da quella chiacchierata estemporanea mi sono portato a casa una stupenda immagine che nella sua semplicità lineare riassume gli elementi chiave di una selezione perfetta.  Quando l’amico mi dice: «Hai ragione e capisco ma tu prova per un secondo a chiudere gli occhi e a chiederti: ma se io questo qua lo prendo con un elicottero e lo paracaduto in mezzo al deserto mongolo, mi torna a casa o muore lì?», non posso che convenire che alla fine non bastano né il potenziale né il talento innato né le buone basi culturali se non si possiede quel quid che nei momenti di crisi permette di trovare la soluzione giusta ai relativi problemi.

Dobbiamo quindi chiederci quale sia il limite dei test e delle tecniche di supporto alla valutazione e quale invece quello dell’esperienza.

Purtroppo in azienda esistono esclusivamente indicatori ex post, un modo estremamente polite per dire che ce ne rendiamo conto quando il danno è fatto e si tratta solo di trovare un colpevole o, nei casi meno etici, un capro espiatorio per punire a dovere il suo misfatto, frutto della sua incapacità o della sua negligenza.

Dai miei lontani studi di giurisprudenza mi pare di ricordare che per definire le cause di un reato colposo, cioè non voluto da chi lo commette ma pur sempre un reato sanzionabile, il Codice Penale parli di imperizia, imprudenza o negligenza.

Ma se in campo penale l’imperizia, l’imprudenza o la semplice negligenza rilevano perché sono determinanti al fine di declassare un reato da doloso a colposo, in campo aziendale non sono meno importanti in quanto uno qualsiasi di questi elementi riscontrato in un‘azione o in una decisione manageriale che successivamente si rivela sbagliata – quando non dannosa – costituisce una colpa che può mettere in pericolo non solo la sua carriera – e in extrema ratio persino il suo posto di lavoro – ma anche il “portafoglio” dell’azienda.

L’esempio della culpa in eligendo, cioè della scelta sbagliata operata da chi ha il compito di valutare e scegliere tra vari candidati quello giusto per una posizione importante, pur non essendo un reato gode di una vasta e dotta giurisprudenza civile che secondo il combinato disposto dell’art. 2043  c.c. “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno” e dell’art. 2049 c.c. –  dove compaiono ancora parole obsolete quale padroni e committenti – ha sempre affermato che la responsabilità dei danni commessi da un qualsiasi dipendente dell’impresa ricada in capo al titolare. Non è un mistero che poi all’interno dell’azienda una riassegnazione delle responsabilità sia inevitabile.

Mi rendo conto che simili considerazioni alla fine dei conti rischino solo di aumentare il panico prima di una futura importante decisione di questo genere. E allora, dopo quanto detto, per una posizione di crescita rischieremo una persona potenzialmente capace che non ha tutta l’esperienza richiesta dalla job description ma con il plus di entusiasmo e motivazione (quando un limite diventa un punto di forza) o giocheremo in difesa scegliendo un profilo maturo e solido senza però quel guizzo che solo l’incoscienza a volte sa far emergere? Si sa che a volte un po’ di sana paura aiuta a ragionare meglio mentre in altre occasioni altre la troppa sicumera cela l’errore.

In un caso o nell’altro è un gran mal di pancia.

 

 

 

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