La via lastricata della seta

La decantata via della seta, inaugurata tra mille polemiche dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte con un accordo di interscambio commerciale con la Cina, rischia di diventare per l’Italia una via lastricata di pericoli e di ostacoli finanziari. Non per responsabilità dell’attuale governo o del governo cinese, ma per un attore internazionale che ancora una […]

La decantata via della seta, inaugurata tra mille polemiche dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte con un accordo di interscambio commerciale con la Cina, rischia di diventare per l’Italia una via lastricata di pericoli e di ostacoli finanziari. Non per responsabilità dell’attuale governo o del governo cinese, ma per un attore internazionale che ancora una volta ha sparigliato le carte: il Presidente degli Stati Uniti.

 

La via della seta e la costosissima partita a poker di Donald Trump

È bastato infatti che Donald Trump scrivesse un tweet nel quale minacciava entro pochi giorni un aumento dei dazi dal 10% al 25% sulle importazioni cinesi (oltre 200 miliardi di dollari) per scatenare il crollo dei mercati finanziari europei e orientali. La Borsa cinese ha perso il 5% in poche ore e le borse europee hanno subito un forte arretramento. Risultato finale di questo coup de theatre messo in scena dall’uomo della Casa Bianca: un peggioramento dei rapporti con la Cina che influenzerà anche i preziosi scambi commerciali con l’Italia, un peggioramento delle prospettive economiche dell’Europa e dell’Italia e una instabilità finanziaria prolungata.

Come scrive in un rapporto recente il Centro Studi di Confindustria: “Per l’Europa la domanda e gli investimenti cinesi rappresentano, innanzitutto, un’opportunità e l’Italia è in posizione privilegiata lungo la via della seta (il 60% degli scambi europei con la Cina avviene via mare). Tuttavia, l’export italiano è in ritardo in Cina e i nostri porti hanno perso posizioni: dal 2008 al 2018 l’Italia è scesa dal secondo al decimo posto come destinazione e origine delle merci tra i paesi a nord del canale di Suez (dietro a Grecia, Spagna e Turchia). Una maggiore cooperazione con la Cina è necessaria, ma senza rotture con il principale alleato atlantico e soprattutto costruendo una posizione negoziale forte”.

D’altronde, sostengono ancora gli economisti di Confindustria: “Un’escalation protezionistica, invece, si estenderebbe rapidamente al resto del mondo, con effetti distruttivi per le catene globali del valore e una perdita fino a tre punti di PIL mondiale”. Se si considera che gli Stati Uniti importano dalla Cina beni per 500 miliardi, di cui 50 tassati al 25% e 200 al 10%, si capisce quale trauma potrebbe subire il commercio mondiale se davvero Trump attuasse la minaccia di portare al 25% anche i dazi sui 200 miliardi di importazioni.

Si tratta di capire se le minacce del presidente degli Stati Uniti siano soltanto una partita a poker con bluff per guadagnare voti e portare la Cina a un accordo in tempi brevi, o se davvero la Casa Bianca voglia far saltare il tavolo. Tra gli operatori internazionali c’è chi sostiene che Trump sia tentando, con queste minacce, di mettere all’angolo la Cina e costringerla a cercare accordi rapidamente, per poi dedicarsi al capitolo per noi assai più dolente dei dazi verso l’Europa, rivolti ai prodotti agricoli e al settore strategico per l’Italia, l’automotive.

In attesa di Trump, il cosiddetto Vix (indice di volatilità dei mercati, definito anche con il colorito termine di “indice della paura”) ha dato nei giorni scorsi dei segnali inquietanti che hanno colpito il petrolio e i mercati agricoli. Fino a quando Donald Trump non scoprirà le carte della sua rischiosissima partita a poker con la Cina, la paura di un crollo di dimensioni, appunto, da paura non rientreranno. Un caso su tutti: se saltasse l’accordo il petrolio americano subirebbe una controffensiva dei cinesi, che bloccherebbero l’importazione dell’oro nero made in Usa con conseguenze disastrose.

 

Italia, grossi guai all’orizzonte

Ma in Italia il vero indice della paura potrebbe impennarsi se davvero gli Stati Uniti, come hanno promesso in più occasioni, imponessero dazi sui settori strategici che reggono le economie europee, e in particolare quella italiana. Per il momento siamo soltanto alle minacce, ma se si trasformassero in atti concreti sarebbero guai seri. Le buone notizie che abbiamo dato nell’ultima uscita di Controluce su produzione industriale e occupazione verrebbero vanificate da un’ondata di cattive notizie: aumento dello spread, calo delle esportazioni (vero punto di forza della nostra bilancia dei pagamenti), calo degli investimenti e dunque dell’occupazione, che nei mesi scorsi aveva tentato una timida rimonta.

Insomma lo shock per la nostra fragile economia sarebbe esiziale. I conti sono sotto i nostri occhi. La battaglia protezionista avviata dalla Casa Bianca lo scorso anno ci è già costata 1,7 miliardi, e secondo Confindustria potrebbe salire di un altro miliardo e mezzo entro i prossimi due anni se diventasse guerra commerciale totale tra Europa e Usa. Per il momento lo spread è in zona neutra, ma negli ultimi giorni la sola minaccia statunitense lo ha spinto verso l’alto, e Bankitalia ha avvertito che questo potrebbe avere un effetto sui mutui attraverso il rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato. Il nostro amato export sarebbe in pericolo, e se teniamo conto del fatto che l’Italia vende all’estero il 50% di quello che produce si capiscono le preoccupazioni degli operatori.

Qualche dato già ci dice che stiamo andando in quella direzione: nel 2017 l’export verso gli Usa era quasi del 9%, mentre nel 2018 si è attestato sul 5%. Peggiore l’export verso la Cina: si è passati da un 15% positivo a un meno 1,5%. Un quadro niente affatto consolante, appeso alle decisioni del sovranista statunitense che, invece di rispondere agli equilibri economici del mondo, risponde al suo elettorato in vista delle elezioni americane.

Un capitolo a parte di questa allarmante situazione lo merita il governo italiano con le sue politiche economiche. Senza considerare la spada di Damocle dei dazi, che comunque restano il fattore di maggiore instabilità, entro la fine dell’anno il governo italiano dovrà recuperare ben 23 miliardi se non vuole aumentare l’Iva. I signori di Bruxelles hanno minacciato di nuovo una procedura di infrazione, ma pare che il governo, in attesa delle elezioni europee che potrebbero mutare la geografia politica del parlamento, non dia molto peso agli allarmi lanciati nei giorni scorsi. Anzi: il vicepresidente del consiglio Matteo Salvini ha annunciato che presto il governo metterà mano alla flat tax, che costa almeno 10 miliardi. Fatto qualche conto, tutti questi quattrini nelle casse dello Stato non ci sono; dunque il governo dovrà mettere di nuovo mano alle finanze pubbliche già ampiamente disastrate da un debito pubblico che a febbraio ha toccato il record di 2.364 miliardi. Insomma, per il momento niente di buono sulla via della seta.

 

 

Photo by Nick Fewings on Unsplash

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