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Matera 2019 cerca nuovi Ulisse
Si lavorava nei campi dall’alba al tramonto, da sole a sole, appunto; poi, nei giorni e nelle serate tra umanità sofferenti allo stesso modo, si ampliava la stanza unica che comprendeva anche lo spazio dell’adorato fratello-somaro; dopo si partecipava al ricavo dei sacri spazi, trasformando le grotte rupestri per farne tabernacoli sociali e liturgici, scavando […]
Si lavorava nei campi dall’alba al tramonto, da sole a sole, appunto; poi, nei giorni e nelle serate tra umanità sofferenti allo stesso modo, si ampliava la stanza unica che comprendeva anche lo spazio dell’adorato fratello-somaro; dopo si partecipava al ricavo dei sacri spazi, trasformando le grotte rupestri per farne tabernacoli sociali e liturgici, scavando ancora, imparando e trasmettendo il senso della collaborazione di vicinato.
Il meridione ha radici di profonda civiltà interiore e di miseria. L’uomo di quel sud associa talmente i due termini che, nel fuggire la povertà, tende a liberarsi anche del proprio miglior patrimonio nobile. Solo in questa rinuncia comprende la perdita e anela il ritorno. È questa la storia di milioni di diseredati, emigrati per cercare il rientro: si sono affrancati anche cedendo poderi, case in terra, spazi nelle grotte (oggi paradisi dell’accoglienza), abbandonando muri grezzi attaccati ai burroni come certi alberi radicati nelle fessure, per appropriarsi di minuscoli appartamenti in brumose periferie cittadine (questa è storia di famiglia anche per chi scrive), sempre sognando la grotta-radice che era. Ma talvolta, seppur raramente, il sogno accade. Ci sono molti modi per tornare a casa oggi, anche sostenendo l’idea di una Capitale della Cultura. Una capitale poco raggiungibile e sempre fuori dalle rotte mediali, ma cuore meridiano per tutti quegli Ulisse.
L’uomo del Sud, il nuovo Ulisse
Questa è infatti la storia di un Odisseo moderno, del quale quello omerico è solo l’inizio. Alfred Tennyson ha messo in versi un Ulisse che torna sì a Itaca, ma a un’Itaca che non sarebbe tale se egli non l’avesse abbandonata per andare alla guerra di Troia, se non avesse infranto i legami viscerali e immediati con essa, per poterla ritrovare con altro sguardo: si parte da casa, si attraversa il mondo e si ritorna a casa, anche se molto diversa da quella lasciata, perché ha acquistato significato grazie alla partenza, alla scissione originaria. È nell’attraversare l’altrove che si riconosce l’origine. Nel da sole a sole di questo uomo del meridio possiamo tornare a Zarathustra: “L’uomo è un ponte teso tra l’animale e l’oltre-uomo. L’uomo è una transizione”. La nostra specie e il suo modo di pensare sono uno stadio e non il fine.
È per questo che la storiografia (la possibilità di guardare il cambiamento nella sua complessità e non nel singolo evento) torna ad assumere importanza. I filosofi della storia scozzesi (Hume, Fergusson, Millar, una delle tre più grandi tra le scuole di pensiero della Storia), possiamo dire, semplificando forse un po’ troppo, disponevano i popoli lungo una ideale scala della Storia, dividendoli in selvaggi, barbari o civili. Nel momento in cui alcuni popoli sono in uno stadio di questa Storia, altri li seguono o anticipano; e il tutto è un corso e ritorno.
La vicenda lucana, quella materana in particolare, è esemplare: gli scalini si articolano in moto contraddittorio. Avanzamento civile (con la civiltà originaria e quella di influenza greca, con i contadini inurbati invece che dispersi e isolati negli appezzamenti), poi arretramento alla barbarie con le conseguenti condizioni di vita misera che derivano dagli spazi ristretti e dalle architetture così straordinariamente descritte da Carlo Levi: “Le strade sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelli di sotto. Le porte erano aperte per il caldo, lo guardavo passando: e vedevo l’interno delle grotte che non prendono altra luce ed aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall’alto, attraverso botole e scalette” (Cristo si è fermato a Eboli).
Con la Commissione per lo studio della città e dell’agro di Matera promossa dall’United Nations Relief and Rehabilitation Administration-UNRRA, dal Comitato assistenza senza tetto-CASAS e dall’Istituto nazionale Urbanistica, per iniziativa di Adriano Olivetti, presidente della stessa INU, negli anni Cinquanta si ha un nuovo avanzamento civile, con il progetto di alloggi popolari attenti a tenere i valori di convivenza, nella loro concezione pre-costruttiva. Frederic Friedmann, sociologo tedesco, docente all’Università dell’Arkansas e amico personale di Olivetti, arriva a Matera nel 1949. Riconosce Matera come luogo esemplare, modello del mondo contadino. Scopre “(…) lo stridente contrasto tra le condizioni oggettive della vita del contadino e la nobiltà delle sue reazioni. Questo contrasto insegna al visitatore che la miseria rappresenta assai più che uno stato di condizione materiale, essa è un modo di vivere, una filosofia (…)”. Si tentò una nuova via con quartieri nel Piano, attenti a favorire le relazioni di vicinato, ma tutto fallì per dinamiche generazionali, interessi politici e sradicamenti dagli aviti ritmi. E allora, ecco l’altro arretramento.
Poi una legge speciale del 1986 rivitalizza l’idea di tornare al cuore storico della città: se negli anni Cinquanta la spinta era stata quella di una ricerca ansiosa di un nuovo destino per la città, spostando gli abitanti dai Sassi, in quegli anni la spinta si inverte: dalla piana ai Sassi per recuperare le radici storico-culturali da cui far nascere un rinnovato processo evolutivo. Quindi un nuovo popolamento dei Sassi, ma a opera di una generazione culturale diversa. Finalmente una fresca operatività per uscire dalla dimenticanza conseguenza dello straniamento totale: a Matera non arriva un treno, non c’è aeroporto, le strade sono continue deviazioni dalla linea più diretta, ma si parla di futuro remoto, di continuità e rotture, di connessioni, di utopie e percorsi. L’unica comunicazione può essere solo quella culturale, relazionale e di rete, un nuovo stadio finalmente diverso da quello previsto dagli storiografi scozzesi per cambiare la storia, selvaggi, barbari, civili o moltiplicatori (di culture, di identità e statuti residenziali e professionali non più segmentati, ma capaci di trasformazioni continue).
Oggi serve una nuova scienza del capire e fare città, che parli dell’urbano come esperienza vissuta dai suoi abitanti.
Franco La Cecla
È, quello di Matera 2019, l’esempio di un nuovo tipo di vicinato, non solo geo-localizzato, ma culturale, di affinità, di immaginari che entrano in gioco. Matera 2019 è una moltiplicazione a opera delle prossime generazioni che sono già in campo, una nuova forma di coltivazione del paesaggio geografico, temporale e sociale, un denso disegno del contemporaneo: di quel “presente che non abbiamo ancora vissuto”, secondo Giorgio Agamben.
Coltivare significa agire insieme
Scrive Massimo Venturi Ferriolo: “Coltivo, che non è solo il lavoro di cura del terreno ma il sentimento di radicato attaccamento legato all’aspirazione degli uomini a vivere in comunità, ad agire insieme (…). Un paesaggio è perciò un moto perenne di persone e cose, di individui sempre in connessione e integrati in una relazione universale fatta di movimento, transito, pausa, di racconti, di generazioni ed esistenze (…). Dove la bellezza è la speranza di essere riconosciuti dall’esistenza di quel che state guardando e di esservi inclusi. Riconoscimento, sempre contemporaneo a sé perché accoglie nello stesso tempo e nel medesimo campo visivo diverse epoche, in un intreccio che si condensa nell’unicità del luogo. In questa tensione incessante il presente è segnato dalla contemporaneità di ciò che è, di ciò che è stato, di ciò che sarà (…). Ciò che va perseguito in ogni modo è la cultura del ritorno al locale senza cercare solo le radici del passato, con la consapevolezza che la loro cura è la medesima della nostra vita. Con lo sguardo rivolto non allo specchio di Narciso e al culto pericoloso dell’identità storica a tutti i costi – ma con gli occhi di Odisseo diretti alla terra del ritorno”.
Ecco, è di nuovo Ulisse che torna a casa. Il nodo ancora da risolvere è proprio in questi ultimi tornanti complessi da ascendere: tempo, terra, città, natura, comunicazioni (oggi anche smaterializzate e aumentate). La città vista come una comunità umana naturale che supera la propria storia per donarle un nuovo destino: c’è ancora così tanto da imparare e così tante opportunità per migliorare i sistemi umani, moltiplicando le spontaneità amorevoli degli sguardi di chi è rimasto, di chi sta tornando o di chi vorrebbe farlo. Dobbiamo accettare il nostro ruolo di membri contribuenti di un sistema più ampio e consentire a tale ethos di informare le nostre decisioni quotidiane per allineare l’ambiente immaginato con l’ambiente costruito.
Sarà Matera 2019 il laboratorio di un futuro pronto a fornire metodo al disegno storiografico della nuova convivenza civile, pronto ad affidare a cultori-artigiani-moltiplicatori la possibilità di praticare una nuova destinazione delle città.
Saranno i nuovi Odisseo-Ulisse a integrare di senso e prospettiva le molteplici tessiture di quelle comunità transrelazionali.
Foto di copertina di Francesco Giase
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