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Milano Fashion Week: una stanza d’albergo non basta più
Milano. Ci si sveglia prestissimo io e la mia socia Emanuela, zona Tortona sarà la nostra casa per i prossimi tre giorni. Siamo in piena settimana della moda. Te ne accorgi appena vai a colazione nell’hotel che hai dovuto prenotare tre mesi prima, che serve una colazione bio, continental, vegan, american, gluten free, palm oil free, […]
Milano. Ci si sveglia prestissimo io e la mia socia Emanuela, zona Tortona sarà la nostra casa per i prossimi tre giorni. Siamo in piena settimana della moda. Te ne accorgi appena vai a colazione nell’hotel che hai dovuto prenotare tre mesi prima, che serve una colazione bio, continental, vegan, american, gluten free, palm oil free, super proteica e centrifugata.
Te ne accorgi dalle bilance pesapersone in tutte le stanze. Dalle strade piene di colori, tendenze, wannabees, orientali à gogo e re e regine incontrastati della moda: LGBTQI, che sta per lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessualità. C’è persino lo spirito di Karl Lagerfeld che abita le strade e i look. Tutti qui hanno un suo riferimento addosso, dalla spilla all’occhiale da sole, qualcuno ne omaggia il nero, suo colore dominante.
Snoccioliamo qualche numero mentre siamo a colazione, non solo per fare due conti, ma perché cerchiamo di capire cosa sta succedendo attorno a noi. Fino a ieri il pessimismo cosmico sulla crisi e sulla contrazione del PIL lo sentivamo sulle spalle, come la scimmia di Palahniuk. Stamattina quel sentimento di instabilità è come scomparso (momentaneamente, s’intende).
AirBnB ha dichiarato a IlSole24Ore che erano previste 50000 persone, il 4,2% in più dell’anno scorso, con un picco venerdì 22 febbraio. E loro, colosso americano che oscilla tra amore del consumatore e odio degli albergatori, hanno l’80% di occupazione delle strutture in questi giorni.
Il segreto per innovare è profilare
C’è una cosa che Airbnb ha capito in anticipo su tutti gli altri operatori turistici: le persone cambiano. I gusti cambiano. Cambiano le richieste a chi offre servizi, mutano le aspettative rispetto a ciò che scegliamo. Se dedichiamo il nostro tempo e i nostri soldi alla scelta di un alloggio, anche solo se di passaggio per una sera, vogliamo essere sicuri di ciò che ci aspetta, ma soprattutto vogliamo trovare un’ospitalità che ci corrisponde.
Si chiama ospitalità diffusa ed è la formula alla base del modello di business di Airbnb. Abitare un luogo in gruppo, risparmiando ma soprattutto accedendo ad una esperienza positiva e pensata per rispondere alle mie esigenze.
Se sono un fashion buyer difficilmente viaggerò da solo, è molto probabile che sia parte di un gruppo (specie se sono straniero), che abbia orari soggetti a variazioni, che faccia pranzi e colazioni di lavoro e che abbia necessità di avere spazi a disposizione che la sera mi facciano rimettere insieme ordini, appunti, idee e commesse. Una stanza d’albergo non basta, diventa piuttosto antiquata se ci pensate.
“Direi che dietro a quell’80% ci sono due fattori emergenti da tenere in considerazione”, mi dice la mia socia con tranquillità mentre sorseggia il thé verde, ma attira la mia attenzione e smetto subito di masticare il pane proteico.
“I fattori determinanti sono: la chiarezza della promessa di valore al consumatore di Airbnb e la politica di ospitalità che è davvero Human Centered, una politica che tende all’inclusività. Loro non sono “LGBTQI friendly” per vendere un alloggio in più, sono inclusivi e hanno una lettura dell’ospitalità orientata all’abitare più che all’alloggiare. Alla base della loro promessa di valore c’è l’inclusione, il sentirsi a casa, accettato, accolto”.
Così ci viene subito in mente di cercare su Google “Hotel LGBTQI Friendly a Milano”. Scopriamo che la dicitura attiva una pagina di Google dove compaiono le classiche OTA (Expedia, Booking, Trivago, Agoda, etc.) che usano i termini per fare SEO ed essere dunque in prima pagina. Quando esploriamo i siti di alcuni alberghi non troviamo alcun riferimento LGBTQI. Insomma la cosa ha la stessa consistenza dell’essere PET Friendly.
La promessa di valore è importante solo se il brand è consistente
Airbnb non compare affatto in queste ricerche. Se vi state chiedendo perché, ve lo spieghiamo subito: Airbnb è un brand consistente.
L’inclusività è una promessa che viene mantenuta dalla struttura di business e non si ferma alle campagne di comunicazione ma attiva un processo economico in cui i soggetti che ospitano sono tenuti, pena l’esclusione dalla piattaforma, a non discriminare.
Nel 2016 Airbnb, a seguito di recensioni negative di consumatori che lamentavano discriminazione, ha lanciato la campagna #WeAccept per informare i suoi consumatori che stava prendendo una posizione ufficiale. A seguito Airbnb ha creato la categoria di Host Solidale che offre ospitalità gratuita a categorie di consumatori definiti fragili o discriminati. Perciò non ha bisogno di essere “friendly”.
Mentre ci avviamo in strada a tentare di afferrare un taxi, modello capitano Achab di Moby Dick, siamo immerse nella riflessione sul contraltare della vicenda ospitalità LGBTQI. Si dovranno dare da fare gli Hotel nei prossimi anni. Anzi, sarebbe meglio che si svegliassero subito. Perché i loro concorrenti di fatto siamo noi, proprietari di appartamenti che cedono la loro casa quando vanno in vacanza. Noi che abbiamo sostituito la domotica con il calore di una casa. Noi che abbiamo capito che chi viaggia tanto, alla fine, vuole solo stare in un posto dove può abbassare le difese, sentirsi umano, spendere anche qualcosa meno ma portare la propria dimensione dell’abitare con sé.
Brand, svegliati!
Se sei un brand, svegliati. E domandati perché fai quello che fai.
Io e la socia abbiamo le idee chiare in merito: gli Hotel non possono cambiare strutturalmente il modello di ospitalità, questo è evidente, ci sarà sempre chi ha bisogno di “una stanza” con tutti gli annessi e connessi. Ma possono profilare meglio. Possono diventare Concept Hotel. Queste realtà, orientate al branding come pratica che raffina la relazione tra un’azienda e i propri consumatori, esistono già (The Student Hotel a Firenze è un buon esempio, Up Hotel a Rimini pensato per i Millennials per fare due esempi), ma sono ancora rare in Italia.
Il punto è trovare un “perché faccio quello che faccio”, per dirla alla Sinek, che non sia rivolto alla struttura/impresa stessa (della serie “ho messo su un Hotel Gay friendly perché ci si guadagna più soldi), ma abbia una sola preoccupazione: essere scelti sulla base di un “perché” rivolto al consumatore. Allora il perché, il fondamento di esistenza di una struttura stessa, potrebbe trasformarsi in uno scopo che ha una ricaduta positiva e diretta sul consumatore: ho creato questa struttura perché le persone che stanno in giro per il mondo possano sentirsi come a casa (per fare un esempio calzante).
Comprendere la motivazione profonda connessa alla scelta di chi viaggia dovrebbe essere la vera finalità dell’Host e dell’Hotellerie in generale.
Questo modo di pensare è differenziante, determina la scelta tra un brand e l’altro.
“E forse avremmo in camera più materassi memory foam e meno a molle?”
Interrompo così il ragionamento sui massimi sistemi. Lei ride, ma in fondo sa cosa volevo dire. Se l’albergatore trattasse la sua struttura come casa sua, avrebbe ospiti più felici.
La fashion week, quell’80% di occupazione di appartamenti e l’obsolescenza del modello italiano di Hotel, ci stanno dicendo che il consumatore vuole mantenere il suo stile di vita e il suo style of mind anche fuori casa. Il passaggio culturale è da alloggiare ad abitare.
Intanto una cosa ci appare cristallina, parafrasando proprio le parole di Airbnb: non si “va” in una città. Si “vive” una città.
Don’t go to Paris, Don’t go to L.A., Don’t go to Tokyo. Live there.
(L’articolo è stato redatto in collaborazione con Emanuela Ciuffoli)
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