Perché non sei quello che fai

Oggi tendono ad andare molto di moda slogan del tipo: “Sei quello che fai”, o quello che scegli, che mangi, i successi che ottieni, le relazioni che porti avanti. Vige una sorta di identificazione con le nostre azioni e in molti casi con quello che otteniamo o possediamo, a partire dal nostro corpo, passando per […]

Oggi tendono ad andare molto di moda slogan del tipo: “Sei quello che fai”, o quello che scegli, che mangi, i successi che ottieni, le relazioni che porti avanti. Vige una sorta di identificazione con le nostre azioni e in molti casi con quello che otteniamo o possediamo, a partire dal nostro corpo, passando per gli oggetti, le persone che abbiamo intorno, il lavoro che svolgiamo.

La mente umana, di suo, tende a ragionare tramite classificazioni, catalogazioni, etichette. La mente ha bisogno di ordine e stabilità. Quando si confronta con qualcosa che non conosce cerca degli elementi di similitudine con ciò che le è già noto per ridurre la complessità (e in molti casi anche il senso di minaccia per la sopravvivenza, che ha radici ancestrali) e trovare una classificazione, e con essa un’illusione di controllo.

Anche ridurre a una o poche etichette ciascun essere umano a cominciare da se stessi, e l’estrema complessità e inconoscibilità, può rappresentare un modo fallace di semplificare la realtà, in un modo che alla lunga tende a rivelarsi fallace e controproducente.

Ciascuno di noi va ben oltre ruoli, funzioni, azioni, possedimenti, conseguimenti. Ciascuno di noi è in continua evoluzione e trasformazione, e non esistono etichette sufficientemente stabili da poter essere apposte una volta per tutte. Ciascuno di noi ha una quota non solo di inconoscibile, ma anche di innominabile che non può essere tradotto in parole, né tantomeno in slogan.

 

Il mito del consulente 

Esistono professioni che, forse più di altre, risentono ancora di una vena di fascinazione, ambizione, status symbol per chi le osserva dall’esterno. Spesso vengono idealizzate, ricercate, perseguite, finché non ci si rende conto che anche esse risentono di numerosi limiti, personali e professionali, con cui inevitabilmente occorre fare i conti.

Nella consulenza due fattori sono indispensabili e imprescindibili: il fattore tecnico, specialistico ed esperienziale, che dovrebbe garantire l’efficacia e l’efficienza concreta dell’intervento, e quello umano e relazionale, che consente di creare un rapporto di continuità basato sulla stima e la fiducia reciproca. A seconda del tipo di consulenza può avere un peso maggiore il primo componente oppure il secondo. Aspetti oggettivi, razionali, concreti, vanno quindi a braccetto con quelli più immateriali, emotivi, psicologici.

Mai, probabilmente, in un’altra professione si intravede un nesso inestricabile tra fattori umani e professionali che devono essere in sinergia e complementarietà. Difficilmente un consulente ineccepibile sul piano tecnico, se non è dotato anche di profonde doti umane, affettive e relazionali può riuscire a intrattenere solidi e prolungati rapporti professionali con i suoi clienti.

D’altro canto la sua stessa sicurezza interiore, solidità, capacità di vendersi senza svendersi né sopravvalutarsi, l’equilibrio emotivo e il benessere psicofisico, sono doti altrettanto umane, in parte innate, in parte coltivate, parimenti indispensabili per emergere e sopravvivere in un universo professionale fin troppo affollato – soprattutto oggi.

Da qui al rischio di identificarsi completamente con l’abito prestigioso del consulente che si indossa in orario di ufficio, però, il passo è breve.

 

Il mito del workism

Il noto scrittore e giornalista Derek Thompson ha definito workism la convinzione che il lavoro sia necessario non solo per la produzione economica, ma che rappresenti anche il fulcro della nostra identità e del fine della vita. In base a tale assunto si ritiene che qualsiasi politica finalizzata al benessere umano debba sempre incoraggiare anche maggiore lavoro.

Quando i messaggi ci vengono veicolati più e più volte, quasi inevitabilmente si finisce con il credere a essi. Questo alla lunga porta ad associare la propria identità e il proprio valore al lavoro. In realtà noi non siamo il nostro lavoro, quanto guadagniamo, i successi che conseguiamo, il prestigio e lo status che ci arreca. Come se non bastasse, arriviamo al punto di far coincidere il significato della nostra vita con lo svolgimento di un lavoro che per noi è significativo. All’apparenza sembra una piccola sfumatura di significato, ma in realtà non lo è.

Di questo, qualche volta, ce ne accorgiamo soprattutto se il lavoro non lo abbiamo, oppure se non ci procura le soddisfazioni che ci aspettiamo. Se non ce ne rendiamo conto, quasi inevitabilmente sprofondiamo nel baratro della depressione o anche peggio. Oppure, all’opposto, se ci immergiamo totalmente nel lavoro lasciando poco o nessuno spazio ad altro, finiamo con l’esserne totalmente assorbiti e schiavizzati.

D’altro canto le stesse nuove tecnologie – tablet, smartphone, wifi – ci consentono di essere sempre reperibili, in qualsivoglia luogo e orario, per tutto e per tutti, e questo contribuisce a sfumare il labile confine tra vita privata e quella pubblico-professionale. In tal modo diventa sempre meno facile spogliarsi del proprio abito da lavoro e rendersi conto che noi siamo anche altro, che la nostra esistenza può essere assai più ampia, e in molti casi anche significativa.

 

Il sovralavoro è sottoproduttivo

Un’altra moda contemporanea molto diffusa consiste nel multitasking, grazie al quale si compiono più azioni in contemporanea. È un fenomeno legato prevalentemente al mondo dell’informatica, ma che poi, gradualmente, si è introdotto nelle esistenze della maggior parte di noi. Mentre compiamo un’azione ci troviamo a svolgerne anche un’altra, o più di una: ad esempio guidiamo l’auto e intanto parliamo al telefono oppure rispondiamo a un messaggio, ci troviamo a una riunione e intanto effettuiamo una ricerca nel Web, giochiamo con i nostri figli e intanto ripassiamo mentalmente la scaletta della conferenza che terremo il giorno dopo.

Anche se all’apparenza svolgere più di un’azione alla volta può sembrare un modo efficace per ottimizzare il tempo e gli sforzi, in realtà la mente umana non è programmata per il multitasking, in quanto la quota di attenzione che ognuno di noi dispone ha un limite, e quando deve essere suddivisa tra più mansioni inevitabilmente le performance ne risentono. In questo modo la probabilità di compiere errori cresce, e con essa il tempo e le energie che successivamente si dovranno investire per correggerli.

In aggiunta, anche la quota di stress e ansia che possono sorgere, nel caso si ricorra abitualmente al multitasking, alla lunga può danneggiare la salute psicofisica. Come se questo non bastasse, si perde anche la piacevolezza intrinseca che può sorgere dall’essere immersi completamente nello svolgimento di un compito, il cosiddetto stato diflusso”, che ci permette di dare il meglio di noi, di non percepire lo scorrere del tempo e il peso della fatica.

 

La perdita di se stessi nel lavoro

Quando questi ritmi di vita, queste abitudini di pensiero e di azione, diventano una consuetudine quotidiana, il rischio tangibile è la perdita del senso di se stessi, della propria identità, dei propri valori più autentici.

Credere di potersi identificare con il proprio lavoro, le mansioni, il ruolo, i benefit, il salario, lo status, fanno sì che progressivamente il lavoro diventi per noi una vera e propria ossessione. La mente, di solito, non solo cerca prevedibilità e familiarità, ma anche conferme; per questo è sua consuetudine osservare e cogliere, specie nell’ambito professionale, che anche tutte le altre persone intorno si comportano in questo modo e che non siano possibili altre modalità. Tutto questo a sostegno e giustificazione del proprio stile di vita ed equilibrio interiore. Progressivamente, però, il rischio è quello di trovarsi imprigionati in ritmi sempre più vorticosi che potrebbero sfociare nel burnout, con tutti i rischi che comporta per la salute fisica e psichica.

In realtà, la psicologia positiva ha scoperto che le persone di successo non ruotano esclusivamente intorno al lavoro, ma hanno una vita (e una identità) molto più ampia e variegata da cui traggono significato, valore, soddisfazione e felicità.

 

Come crearsi una nuova identità e una vita più significativa 

Spesso non ci rendiamo conto che basare il significato della nostra vita sul lavoro non coincide con lo svolgere una professione significativa e soddisfacente. Sono due cose diverse che non sempre né necessariamente si possono sovrapporre. Il rischio, in tali casi, è quello di perdere se stessi e la propria identità.

Per evitare questo rischio è fondamentale prima di tutto riconoscere i propri valori, priorità, obiettivi personali. Essi andrebbero rivalutati periodicamente e dovrebbero rappresentare il fulcro del proprio essere. La propria identità, in questo modo, si baserebbe innanzi tutto su quello che siamo, prima ancora che su quello che facciamo.

Per conseguire questo obiettivo è imprescindibile ristabilire dei confini chiari e ben distinti tra vita pubblica, professionale, e quella intima, privata. Anche se talvolta sono possibili alcune parziali sovrapposizioni, dovrebbero essere intese come eccezioni e non regole. Il lavoro, alla luce di questa posizione, apparirebbe come qualcosa capace di apportare ulteriore valore aggiunto e significato alla propria esistenza e al proprio essere, e non il suo nodo fondamentale.

Per una vita veramente piena, realizzata e significativa è importante che più aspetti della nostra personalità possano trovare applicazione ed espressione. Anziché continuare a fare, fare, fare, potrebbe essere opportuno ridurre un po’ ciò che si fa ogni giorno e ritagliarsi del tempo per limitarsi a essere, per riflettere, meditare, esaminare se stessi, la propria vita, e tutto ciò che ci riguarda direttamente o indirettamente.

Osservare le piccole e grandi cose, le abitudini, le preferenze, i valori, le aspirazioni, magari mettendole per iscritto, può stimolare la riflessione e aiutare a trovare nuove direzioni per la propria vita. Compiere questo anche solo per pochi minuti al giorno può contribuire al nostro cambiamento, aprendoci a forme soddisfazione e realizzazione che magari non ci saremmo mai potuti immaginare.

 

 

Photo credits: Premio Celeste

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