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Renzi, la riforma delle Regioni e l’ambasciatore pisano
Lo scorso 5 maggio a Kiev nella conferenza stampa col presidente Poroshenko Matteo Renzi si è esibito in una divertente scenetta degna di Amici miei. Ricordando che la capitale dell’Ucraina è gemellata con Firenze, il premier si è lamentato con i giornalisti presenti che l’ambasciatore italiano è originario di Pisa (casualmente la città di Enrico […]
Lo scorso 5 maggio a Kiev nella conferenza stampa col presidente Poroshenko Matteo Renzi si è esibito in una divertente scenetta degna di Amici miei. Ricordando che la capitale dell’Ucraina è gemellata con Firenze, il premier si è lamentato con i giornalisti presenti che l’ambasciatore italiano è originario di Pisa (casualmente la città di Enrico Letta) concludendo: “Nessuno è perfetto”. Geniale. Anche se Poroshenko non ha capito la battuta, geniale perché Renzi in missione da capo di governo, da buon toscano, proprio non ce l’ha fatta a liberarsi dal campanilismo, quell’italica malattia già diagnosticata ai tempi del suo concittadino Dante, foriera di mille guai e che fece abortire – ai tempi del governo Monti – il primo vero serio tentativo di accorpare le province, monumento allo spreco e alla mediocrità della nostra classe politica locale.
Ma il campanilismo viscerale – e questo Renzi lo sa benissimo – si applica a città, comuni e province: con più difficoltà alle regioni. Fateci caso, mai che uno vi dica: “Sono campano, sono ligure, sono toscano” (eccezione per le due grandi isole). Di solito si cita invece subito e volentieri la città di provenienza. E poiché decidere la geografia politica significa plasmare la realtà, dare punti di riferimento per muoversi, lavorare, progettare, non è da prendere sotto gamba la recente istituzione da parte del Governo di una commissione per ridisegnare le regioni a 40 anni dalla loro fondazione. Di questa commissione se n’è accorto praticamente solo il Fatto Quotidiano (Antonello Caporale, 14 marzo) riferendo appunto di quello che è stato l’ultimo atto dell’ex ministra alle politiche Regionali Carmela Lanzetta. 13 tra geografi, economisti e giuristi entro il 30 aprile dovranno infatti dare un loro parere su di una generale riorganizzazione delle regioni italiane. La scelta poi sarà politica, ossia del Governo, ossia di Renzi che sulle cose importanti decide da solo spesso – come fanno i politici scaltri – mettendo abilmente il cappello sopra progetti proposti da altri e adocchiati. Casualmente, lo scorso dicembre due deputati del PD, Morassut e Ranucci, hanno depositato una proposta di legge costituzionale per ridurre le regioni da 20 a 12 (vedi cartina sopra). Accorpare, scorporare, inglobare, diminuire, ridefinire, ingrandire significa alla fine confondere e scardinare i centri di potere e le lobby locali esattamente come il ministro dell’economia Padoan ha fatto con il decreto per trasformare in SPA le banche popolari, meccanismo che porterà alla fusione tra feudi del credito di media dimensione controllati da potentati e notabili spesso per politiche di piccolo orto. C’è poco da fare: da sempre dominare la geografia significa esercitare il potere. Non occorre scomodare Putin e la Crimea, basta citare l’esempio del Vaticano, le cui diocesi in Italia sono di gran lunga superiori alle nostre province e molto spesso non coincidono territorialmente.
Dice il sottosegretario agli affari regionali Gianclaudio Bressa, che ha in mano il dossier della Commissione guidata dalla geografa Lidia Viganoni: Noi vogliamo aprire un dibattito per capire a cosa debbano servire le Regioni e se non sia giunto il momento che su grandi temi – scuola, sanità – non si debba immaginare gestioni condivise tra due o più regioni assimilabili per legami geografici, politici, ambientali. Prendiamo il Mezzogiorno: contiamo quante università insistono in quel territorio. Tanti e disuniti princìpati, spesso in assurda competizione, servono allo sviluppo, all’innovazione, alla captazione di nuovi finanziamenti? Io penso di no, noi pensiamo di no. Difficile dargli torto. Del resto l’ex ambasciatore americano Ronald P.Spogli, ostinato seminatore del Venture Capital in Italia, in un suo discorso di commiato da Roma nel febbraio 2009 disse: L’università italiana è una tragedia nazionale: è imbarazzante che non ci sia una sola vostra università nei primi posti delle classifiche internazionali. Spogli suggerì allora di scegliere – si riferiva perlopiù alle materie tecnico scientifiche – tre università una del Sud, una del Nord una del Centro per concedere loro uno status speciale e incentivi mirati; si tratterebbe di sviluppare un programma per portare in dieci anni queste università ai primi posti delle graduatorie mondiali.
Nessun politico raccolse la proposta. Immaginate tre super atenei che concentrano i migliori studenti, ricercatori e professori con altrettante risorse di banche e grandi imprese: altro che baroni e fuga di cervelli. Si tratterebbe invece di tre potenti calamite per menti brillanti, non solo italiane, e di inevitabili ricadute per brevetti, industria e quindi occupazione.
Non sappiamo come finirà con la commissione del riordino delle Regioni. Ma se l’operazione – che per difficoltà se la gioca con la riforma della RAI (anche questa guarda caso incardinata su basi e sprechi regionali) – dovesse andare in porto ci si potrebbe ricordare del suggerimento di Spogli. Sarebbe insomma #lavoltabuona per la #buonauniversità. Auguri.
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