Spoiler – “Fiesta” nel prossimo Senza Filtro

Città del Messico, calle Providencia. Edmundo e Lucía Nobile sono una coppia dell’alta borghesia messicana che, al termine di una prima teatrale, invita agli amici di sempre a concludere la serata nel proprio palazzo. Il gruppo si riunisce in un salone: ascolta l’esibizione di una pianista, consuma qualche drink e conversa su argomenti squisitamente — e surrealisticamente […]

Città del Messico, calle Providencia. Edmundo e Lucía Nobile sono una coppia dell’alta borghesia messicana che, al termine di una prima teatrale, invita agli amici di sempre a concludere la serata nel proprio palazzo. Il gruppo si riunisce in un salone: ascolta l’esibizione di una pianista, consuma qualche drink e conversa su argomenti squisitamente — e surrealisticamente — superficiali. Ma nel frattempo qualcosa accade: la servitù abbandona il palazzo; dalla borsetta di un’ospite spuntano due zampe di gallina. Un orso passeggia per la villa e un gregge di pecore attraversa indisturbato la sala e percorre la scalinata principale. Si fa tardi, ma nessuno sembra volersi congedare. E, senza che nessuno dica nulla, gli ospiti si preparano a trascorrere la notte nel salone. Dal quale, inspiegabilmente, non possono più uscire (El ángel exterminador, L. Buñuel, 1962).

Danimarca, fine anni Novanta. La famiglia Klingenfeldt, industriali nel mercato dell’acciaio, si riunisce in una sontuosa residenza di campagna per festeggiare il sessantesimo compleanno del patriarca Helge. Arrivano tutti: gli amici alto-borghesi, la moglie Else e la figlia Helene, il primogenito Christian e il figlio minore Michael — benché non invitato — con al seguito moglie e prole. Persino i domestici prendono parte alla gioiosa ricorrenza. Ma qualcosa non va come previsto e, nel bel mezzo del pranzo, Christian prende la parola: accusa il padre di incesto, pedofilia e del suicidio della sua gemella Linda. E quella festa in famiglia, apparentemente così perfetta, assume una piega del tutto inaspettata (Festen, T. Vinterberg, 1998).

Carrie White è una timida liceale di provincia, complessata e sbeffeggiata di continuo dai compagni di scuola. Anche Carrie, come i borghesi buñueliani intrappolati nel salone e la famiglia Klingenfeldt al gran completo, è protagonista di una festa. Nel suo caso, il ballo del liceo. Ma proprio quando la giovane sta per essere incoronata reginetta, la perfida rivale Chris Hargenson le fa cadere addosso il contenuto di un secchio, colmo di sangue di maiale. Carrie — nessuno lo sa — è dotata di poteri telecinetici ed è in grado di fare avverare ciò che pensa. E, di fronte all’ennesimo sberleffo, deciderà di vendicarsi. In modo diabolico (Carrie, B. De Palma, 1976).

La parola “divertimento” deriva dal verbo latino divèrtere e, nell’accezione etimologica, significa “volgere altrove”, “deviare”, “andare in direzione opposta”. Col tempo, quest’idea si è culturalmente identificata — in senso traslato — con tutte quelle attività in grado di distogliere l’individuo dai lavori e dalle preoccupazioni quotidiane. Ed è stata identificata, in senso più ampio, proprio con l’atto del festeggiare. Blaise Pascal definì il divertimento come il mezzo di cui l’uomo si serve per sottrarsi alla consapevolezza della propria miseria e coniò il concetto di divertissement. «Gli uomini — scrisse il filosofo nei suoi Pensées — non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci».

Dev’essere stata questa dialettica così ricorrente fra svago e quotidiano a catturare l’attenzione di un manipolo di giovani registi britannici (Tony Richardson, Karel Reisz, Lindsay Anderson) che, sul finire degli anni Cinquanta, diede vita a un movimento, il Free Cinema, il quale, criticando astutamente i contemporanei Jeunes Turcs francesi, era deciso a spostare l’attenzione dall’outsider all’escluso, dalla piccolo-borghesia alle classi subalterne. Nella vita, nel lavoro e anche nello svago. E per rispondere alla domanda: in che modo si diverte chi lavora?

Ed ecco che Arthur Seaton, giovane operaio dalla vita disordinata, intervalla l’alienazione del lavoro in fabbrica agli eccessi del week-end (Saturday Night and Sunday Morning, K. Reisz, 1960). Tema, questo, che sarà ripreso più avanti — sebbene con modalità filmiche e intenti del tutto diversi — da un classico del cinema statunitense travestito da commedia musicale. Perché anche l’italoamericano Tony Manero, come l’Arthur Seaton reisziano, lavora in un modesto negozio di vernici ma vive in funzione del sabato sera e della disco-music (Saturday Night Fever, J. Badham, 1977). Nel frattempo a Margate, nel Kent, un gruppo di persone della working class britannica si accinge a trascorrere una tipica giornata di svago in un parco divertimenti. E, nel descrivere la macchina da presa, che segue i grossolani passatempi dei lavoratori inglesi, che assistono esilaranti a torture e impiccagioni, imbonitori e animali in cattività, la critica Emanuela Martini parlerà di una vera e propria «discesa negli inferi» (O Dreamland, L. Anderson, 1953).

https://www.youtube.com/watch?v=39XAINmKwAk

Ma il Free Cinema non è il solo a raccontare la dialettica routine-svago e, soprattutto, la complessa relazione del lavoro con il divertimento. Nell’Amburgo dell’identità tedesca Emmi, un’anziana donna delle pulizie, incontra il giovane immigrato Alì, con cui vivrà una storia d’amore condizionata dal pregiudizio, proprio nel bar dove Alì si gioca lo stipendio a carte (Angst essen Seele auf, R.W. Fassbinder, 1974), mentre nella Londra dei primi anni Novanta l’operaio Steve conosce l’alienata Susan nel locale dove lei si esibisce come cantante (Riff Raff, K. Loach, 1991).

Non solo. A bordo di una decappottabile Red Shark, noleggiata con una carta di credito scaduta, il giornalista sportivo Raoul Duke e il suo amico avocato Dr. Gonzo tramutano un tranquillo viaggio di lavoro in una delirante settimana lisergica (Fear and Loathing in Las Vegas, T. Gilliam, 1998); mentre il gruppo di mendicanti, a cui la pia Viridiana offre cibo e accoglienza, si impadronisce della casa dell’ignara benefattrice e si diverte a mettere in piedi un banchetto surreale, che ripete la struttura iconografica dell’Ultima cena di Leonardo da Vinci e che, al culmine del delirio, si chiude con un’orgia edonistica che sarà tacciata di blasfemia (Viridiana, L. Buñuel, 1961). E anche i Drughi hanno i propri svaghi: sesso e stupri, torture e omicidi — l’ultraviolenza, diranno i quattro simpatici amici —, ma anche Ludwig Van (Beethoven) e lattepiù (A Clockwork Orange, S. Kubrick, 1971).

In certi casi, però, divertirsi ha lo stesso significato per tutti, e anche il cinema racconta momenti di festa che accomunano outsider e conformisti, borghesi e proletari. Chi lavora e chi proviene da contesti agiati.

L’aviatore André Jurieu ha stabilito un record: la traversata dell’Atlantico in 23 ore. Al suo arrivo, lo attendono politici, la stampa e un folto gruppo di ammiratori, ma soprattutto una sontuosa festa in maschera, nel castello di campagna che i marchesi Robert e Christine de la Chesnaye organizzano per celebrare l’eroe. Ed è proprio lì, sulle note della Danse macabre di Saint-Saëns, che gli intrecci passionali dei domestici, del tutto identici a quelli dell’aristocrazia, si sovrappongono. Infrangendo, in entrambi i casi e allo stesso modo, consuetudini e convenzioni (La règle du jeu, J. Renoir, 1939). Così come avviene in un quartiere popolare di Londra, dove alcuni ragazzi si ritrovano a trascorrere il sabato sera all’Art and Viv Sanders’ Wood Green Jazz Club. Una donna delle pulizie, un macellaio, l’assistente di uno studio dentistico, ma anche un gruppo di ragazzi vistosamente alto-borghesi: tutti insieme, in un clima di festante divertimento, per qualche drink e flirt più o meno innocenti. Ma soprattutto, per una serata a base di tanto buon jazz (Momma Don’ Allow, K. Reisz, T. Richardson, 1955).

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