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Spoiler – “Mea culpa” nel prossimo Senza Filtro
Nei romanzi di Dostoevskij è l’immancabile protagonista, che funge da stimolo per l’accettazione dell’inevitabile castigo; per i giuristi è in rapporto dialettico col dolo. Kant la considera una «trasgressione volontaria ma imputabile», mentre Jaspers la pone tra le situazioni-limite dell’esistenza umana: le situazioni alle quali l’uomo non può proprio sfuggire. E, quando si parla di […]
Nei romanzi di Dostoevskij è l’immancabile protagonista, che funge da stimolo per l’accettazione dell’inevitabile castigo; per i giuristi è in rapporto dialettico col dolo. Kant la considera una «trasgressione volontaria ma imputabile», mentre Jaspers la pone tra le situazioni-limite dell’esistenza umana: le situazioni alle quali l’uomo non può proprio sfuggire. E, quando si parla di colpa, anche il cattolicesimo non può non dire la propria.
Cosa ne pensa, invece, il cinema?
«Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa», recitano i cattolici durante la liturgia, battendosi tre volte il petto con la mano in segno di penitenza. Una formula, questa, che di certo ha toccato la sensibilità del giovane Martin Scorsese, quando nel 1956, a soli quattordici anni decide di entrare in seminario. Ne uscirà un anno dopo, con il pallino per il cinema. E con l’idea di iscriversi al corso di Cinematografia alla New York University. Ma il tema della colpa continuerà ad accompagnare il regista per tutta la vita, caratterizzandone le opere, già intrise di simboli e tormenti.
«Afflitti da un profondo senso di colpa, i miei personaggi cercano la redenzione», dirà Scorsese in un’intervista. Ed ecco perché, l’aspirante gangster Charlie Cappa in Mean Streets (id., M. Scorsese, 1973) e il pugile Jake LaMotta in Toro scatenato (Raging Bull, M. Scorsese, 1980) si confronteranno di continuo con quel mea culpa alveo della tradizione cattolico-cristiana. E, forse proprio per questo, così ingombrante.
Sì, perché nel cinema il modo di intendere il sentimento di colpa, e il retroterra culturale in cui la sua visione vi matura, non può che influenzare inevitabilmente il linguaggio.
Ne sa qualcosa un altro italo-newyorkese, che ha fatto del rapporto tra colpa e innocenza il cardine del proprio lavoro. Nato nel Bronx, figlio di un allibratore originario di Sarno, il giovane Abel Ferrara cresce con il nonno paterno. E cresce a pane, misticismo e religione. E così, dopo un’incursione iniziale nel porno, il cinema di Ferrara si caratterizza sempre più spesso per ambientazioni cupe e vicende estreme, storie di peccato e speranze di redenzione.
Come nella vicenda dei fratelli Ray e Chez Tempio, gangster nella Grande Mela degli anni Trenta, che Ferrara coglie nel momento del dolore più grande: l’assassinio del fratello Johnny. E, in un percorso fatto di vendetta, colpa e redenzione, la spirale di violenza finalmente si conclude: in tragedia (The Funeral, A. Ferrara, 1996). E come nella vicenda dell’anonimo tenente corrotto della polizia newyorkese, che dà la caccia a due teppisti, rei di avere stuprato una suora in una chiesa. Il tenente spaccia, beve, ricatta; si mette nei guai con il gioco d’azzardo e molesta due ragazze: fermate in auto e senza patente. Anche per lui, il percorso che dalla colpa porta alla redenzione sarà fatale (The Bad Lieutenant, A. Ferrara, 1992).
Il tema del mea culpa, inoltre, è fra i tópoi, gli schemi narrativi fondanti della grammatica neorealista italiana, che sul finire del secondo conflitto mondiale si propone di rifondare l’identità cinematografica del nostro paese attraverso una scrittura non edulcorata, vicina all’esperienza del reale e attenta ai temi sociali.
E così, nella Berlino del 1946, devastata dalla miseria e dai bombardamenti, il giovane Edmund viene introdotto da Enning, un ex insegnante nazista, all’idea secondo cui «i deboli devono soccombere e i forti sopravvivere». La lezione darà i risultati auspicati: Edmund uccide il padre malato ma, preso dal senso di colpa, si toglie poi la vita (Germania, anno zero, R. Rossellini, 1948). Mentre nella Roma occupata dai nazifascisti, l’ingegnere comunista Manfredi viene tradito dall’amante Marina, in cambio di lussi e droghe. Consegnato alla Gestapo, Manfredi morirà dopo indicibili torture. E il senso di colpa per Marina sarà inevitabile (Roma città aperta, R. Rossellini, 1945).
Secondo una fortunata tesi di Giustino Fortunto e Piero Gobbetti, il fascismo non è stato che una “rivelazione”, una sintesi dei mali storici italiani, presenti già in età liberale. Ed ecco perché, il cinema neorealista parte proprio con un’assunzione di colpa: se quello che è successo al Paese non è stato un caso, allora è compito degli intellettuali fare mea culpa e assumersi le proprie responsabilità per gli errori di leggerezza o di bassa considerazione del pericolo, quando ancora qualcosa la si poteva fare e non la si è fatta: per paura, o più semplicemente per pigrizia.
Non è un caso che la nascita del neorealismo cinematografico italiano venga fatta coincidere con la diffusione di due famosi articoli di Umberto Barbaro, pubblicati nell’estate del 1943, dal titolo Neorealismo e Realismo e Moralità, con cui viene sancita la portata innovativa di Ossessione (id., L. Visconti, 1943), l’esordio alla regia dell’allora trentasettenne Luchino Visconti.
Tratto dal romanzo di James Cain Il postino suona sempre due volte, pubblicato nel 1934 e oggetto di fortunate ri-mediazioni al cinema, Ossessione racconta la vicenda di due amanti, decisi a uccidere il marito di lei in un incidente automobilistico truccato. Ma il rimorso, divenuto ormai insopportabile, ne segnerà il destino.
Così come non è un caso che la conclusione dell’esperienza neorealista e la diffusione della commedia italiana coincidano convenzionalmente con un’opera che è anche una mediazione tra le due correnti.
«Non si può stare sempre a guardare!», commenta interdetto il sottotenente Alberto Innocenzi, al temine di una drammatica traversata dell’Italia flagellata dalla guerra, che si conclude con l’uccisione del geniere Assunto Ceccarelli. Inizialmente pavido, dipendente dagli ordini e privo di senso critico, Innocenzi è il tipico prodotto della cultura fascista, improntata sulla dialettica comando-obbedienza. Ma il lento e doloroso tragitto per l’Italia occupata dai tedeschi porterà anche il pusillanime Innocenzi a un doloroso mea culpa (Tutti a casa, L. Comencini, 1960).
E come vengono declinati, invece, i concetti di colpa e di mea culpa nella serialità?
Se BoJack Horseman, dopo una non-stop di eccessi è divorato dal senso di colpa per la morte di Sarah Lynn (BoJack Horseman, R.Bob-Waksberg, 2014 – in corso) e le quattro casalinghe disperate di Fairview si tormentano per l’occultamento di un cadavere (Desperate Housewives, M. Cherry, 2004 – 2012), lo stesso non accade a Eric Cartman che, dopo la visione del film La passione di Cristo (The Passion of the Christ, M. Gibson, 2014) fonda un club antisemita, con lo scopo di scatenare un Olocausto (South Park, T. Parker, M. Stone, 1997 – in corso). Né lo stesso accade al mite chimico Walter White che, nei panni del produttore di blue sky Heisenberg, perde l’innocenza per vestire definitivamente i panni dell’antieroe (Breaking Bad, V. Gilligan, 2008 – 2013).
Ma il mea culpa più famoso e irriverente della serialità ci riporta indietro agli anni Novanta, alle vicende di una famiglia di Chicago alle prese con uno strano vicino di casa: un nerd antesignano — fa l’inventore — maldestro e a dir poco irritante. E che, dopo ogni inevitabile pasticcio, non può che domandare: «Sono stato io a fare questo?» (Family Matters, W. Bickley, M. Warren, 1989 – 1998).
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