Uberbank!

Che le banche non fossero più quelle di una volta è sotto gli occhi di tutti. Per dire di casa nostra: il dibattito permanente sul layout di CheBanca! (mi piace/non mi piace) ha avuto il merito, se non altro, di segnare un punto fermo a cui fare riferimento tanto che in Italia si può ben […]

Che le banche non fossero più quelle di una volta è sotto gli occhi di tutti. Per dire di casa nostra: il dibattito permanente sul layout di CheBanca! (mi piace/non mi piace) ha avuto il merito, se non altro, di segnare un punto fermo a cui fare riferimento tanto che in Italia si può ben dire: prima o dopo quel giallo, prima o dopo quelle navicelle al posto delle scrivanie, prima o dopo quei pouf su cui siedono i clienti. Oltre i confini, il processo della debancarizzazione delle banche è in essere da più tempo con tentativi più o meno folcloristici di riutilizzare gli spazi, come ad esempio quello di Wells Fargo che qualche tempo fa permetteva di affittare fuori orario le proprie sale sportelli per attività extra-bancarie quali feste del patrono locale o assemblee di condominio. Nonostante il trend di abbandono del fisico verso l’online sia apparentemente definito, in italia sono ancora 31.760 gli sportelli presenti alla data* a fronte di una riduzione delle operazioni di sportello (26 milioni di operazioni in meno stimate nel 2018)** e di una frequenza di visite allo sportello ridotta del 15% (2013 rispetto al 2012)***.

Il dato ci racconta due realtà.

La prima che nonostante tutto crediamo alla fisicità del denaro,  abbiamo bisogno di credere alla fisicità del denaro. Per noi il “nostro” denaro è custodito da qualche parte in quel caveau, sotto quel pavimento, dietro quella porta blindata. Siamo convinti che stia lì, placido ad aspettarci. Non è un caso che a fronte delle varie crisi a cui abbiamo assistito in questi anni, l’immagine della coda allo sportello di turno (in Scozia, in Islanda, in Grecia, Paesi della Vecchia Europa) sia la fotografia della prima reazione alla paura della perdita: andare subito alla banca, nel luogo fisico, ad incassare le banconote. Il denaro si tocca. Il denaro, “quel” denaro, è mio, è un oggetto.

La seconda che quella di utilizzare la moneta elettronica nei gesti di vita quotidiani sia un sentiero di abitudini ancora tutto da creare e percorrere. Almeno da noi, almeno nella stragrande parte d’Italia, almeno oggi. Dato per assodato e acquisito (sembra già irrimediabilmente così) il fatto che questa sia senza appello una società che, come diceva già  Jaques Tatì cinquant’anni fa, ci ha trasformati da cittadini in consumatori, quello che sta accadendo è una corsa a perdifiato al pay attraverso gli smartphone.

L’esplosione di sistemi di pagamento sui nostri device è a tutti gli effetti il boom del momento.

Da una parte le banche a bilanciare il peso tra modelli tradizionali e il tentativo di entrare a far parte del campionato dell’innovazione: Credit Suisse finanziando la ricerca nei prossimi 12 mesi delle aziende fintech più giovani e cool; Goldman Sachs coinvolgendo le comunità di sviluppatori a migliorare il proprio source code; Barclays accogliendo nella propria sede super-Hipster di Londra gli startupper del settore; Ubs aprendo in casa il Fintech Innovation Lab di Londra (cosa che BancaSella fa e bene qui in Italia); JPMorgan investendo 48 milioni di sterline per ridisegnare i propri uffici a Bournemouth; HSBC e Santander investendo direttamente nel settore. Dall’altra i big player della tecnologia a picconare con la loro potenza di fuoco un sistema sull’orlo di una rivoluzione epocale. ApplePay vs SamsungPay vs AndroidPay già basterebbero a condire il futuro di nuvole grigie per un qualsiasi sistema tradizionale, figuriamoci quello bancario. E non tanto perché siano essi delle banche (e infatti non lo sono) o intacchino davvero il core business di una banca, ma quanto e soprattutto perché riescano a far uscire la massa dal recinto fortificato e facciano da traino a quel comparto definito appunto “fintech” (fate un giro su AngeList per vedere di che cosa trattano maggiormente) che si fonda su un approccio olistico di service design, abilitato da tecnologie web e social based rigorosamente mobile, per fornire prodotti bancari e finanziari.

Ovvero, per dirla in breve, a dare quello che le persone cercano in una banca o, per usare il neologismo del mese, la uber-banchizzazione: la nascita di servizi essenziali e verticali capaci di rivoluzionare un mercato solido e tradizionale. Spazzata via, grazie o a causa dell’online, la prima ragione di scelta di una banca (il luogo) cosa resta? Semplice, quello che serve. La gente non si preoccupa delle banche, quanto piuttosto del ruolo del denaro nella loro vita. Alla gente non interessa nulla dei conti o degli Iban, ma piuttosto di come poter gestire direttamente il proprio denaro per risparmiarlo o investirlo in modo da anticipare gli eventi di domani.

Questa falla di sistema apre uno squarcio che si allarga progressivamente e mette in dubbio la capacità delle banche di poter arginare il trend per cui per ogni necessità esista una app e amen se poi il massimo della funzionalità sarà poter inserire una carta dentro un telefono e pagare via NFC attraverso il device o lo smartwatch associato al device. Indubbiamente comodo, ma non molto diverso da quello che abbiamo visto già proposto in diversi wallet e focalizzato sempre sul pay-pay-pay. Come se non bastasse le banche si trovano ad affrontare un altra minaccia, forse ancora più grave. In uno spietato articolo dell’agosto dell’anno scorso il Financial Times faceva notare come in un’era di capitale intellettuale e di capitalizzazioni-monstre da parte di aziende non bancarie venisse meno l’esigenza stessa delle banche e dei propri modelli di consulenza e di servizio. Molte operazioni miliardarie d’oltre oceano sono avvenute senza che fosse coinvolto alcun tipo di investimento da parte del sistema bancario (cosa impensabile solo pochi anni fa).

E d’altro canto non avrebbe potuto essere diversamente: le banche e gli staff che operano al loro interno non hanno (ancora?) la preparazione oggettiva per comprendere e affrontare le logiche di valutazione legate a un capitale che fa capo all’intelletto. Ce lo vedete un bravo analista di Morgan Stanley provare a spiegare a Mark Zuckerberg perché Snapchat valga 1 o 10 miliardi di dollari? Che ne può sapere di un mercato apparentemente irrazionale che ha inventato in qualche modo lo stesso Zuckerberg e al cui tavolo partecipano altrettanti pseudo-Zuckerbeg capaci di sapere meglio di qualsiasi analista se un investimento che sembra oneroso oggi possa rivelarsi l’affare del secolo domani. Bradley Leimer di Thefinancialbrand ha fatto notare come KPMG si aspetti un 25% di community bank pronte a vendere la propria attività entro l’anno prossimo, e di come vedremo il 40% di banche in meno e il 50% di istituti di credito in meno entro la fine del decennio, ovvero entro cinque anni.

Anche in Italia?

Solo il tempo potrà dirlo, anche se questo tempo sembra scorrere più veloce di una volta. A proposito di tempo e di smartwatch: chi ricorda lo Swatch POP Snowpass che permetteva di pagare gli impianti di risalita avvicinando il polso al reader? Credo corresse l’anno 1995. Ci abbiamo messo solo vent’anni per tornare a quella stessa funzione d’uso, segno che la maturità dei tempi è uno dei principali fattori che accompagnano o frenano il cambiamento. Sarà dunque questa l’era in cui il denaro come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi sparirà definitivamente dalle nostre tasche?

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