Contratti a termine e cittadinanza: così il referendum aiuta i lavoratori vulnerabili

Con la vittoria del Sì nel quesito sui contratti a termine, le aziende potrebbero utilizzare il tempo determinato con molta meno disinvoltura, a vantaggio di giovani e lavoratrici. Allo stesso tempo, dimezzare i tempi per ottenere la cittadinanza tutelerebbe tutti, non solo gli extracomunitari. L’analisi della giuslavorista Venera Protopapa

05.06.2025
Contratti a termine, cittadinanza e altri quesiti con il segretario CGIL Landini a promuoverli

Sei un’impresa e vuoi assumere un lavoratore a termine? Bene, potrai farlo solo se indichi in modo chiaro qual è la ragione per cui hai bisogno di precari e non di personale stabile. Se non ci sono questi motivi, puoi reclutare solo addetti a tempo indeterminato. Questo è l’obiettivo del quesito referendario proposto dalla CGIL per le consultazioni dell’8 e 9 giugno. I rapporti a scadenza dovranno sempre avere una causale esplicita, anche quando sono brevi, e queste motivazioni devono essere legate solo a esigenze di sostituzione di lavoratori, o quantomeno essere previste dalla contrattazione collettiva. Un chiaro tentativo di dare una spallata al precariato in Italia, attraverso l’introduzione di una norma molto restrittiva.

Il sindacato, in pratica, punta a una legge che si potrebbe definire di buon senso. Oggi i contratti a tempo determinato possono essere stipulati anche senza alcuna causale, purché siano di durata inferiore a un anno. Questa norma di fatto favorisce anche un utilizzo opportunistico, per usare un eufemismo, da parte delle imprese, che possono servirsene allo scopo di tenere sotto ricatto i lavoratori quantomeno nei primi periodi, prima di stabilizzarli (ammesso che lo facciano).

Con un Sì al referendum le causali diventerebbero sempre obbligatorie, quindi anche sotto i dodici mesi, e solo riferite a reali esigenze temporanee, o al massimo concordate con i sindacati.

Colpire i contratti a termine per tutelare i lavoratori più vulnerabili

A questo punto, è opportuna una riflessione su quello che sta succedendo oggi nel mercato del lavoro italiano. Bisogna ammettere che, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, la crescita di occupazione che stiamo vivendo non è trainata dal precariato, bensì dai rapporti a tempo indeterminato; gli occupati a termine sono in netta discesa da tempo. A marzo 2025 gli occupati permanenti risultano aumentati, su base annuale, di 673.000 unità; quelli a termine, nello stesso periodo, sono diminuiti di 269.000.

La tendenza è inaspettatamente positiva, anche perché pure il governo Meloni ha in questi due anni approvato diverse norme per favorire i rapporti a tempo determinato. Il motivo di questi numeri che appaiono positivi è anche nella dinamica del mercato del lavoro: crescono gli occupati over 50, anche per via dell’aumento dell’età pensionabile che li trattiene al lavoro, mentre diminuiscono le assunzioni di giovani (che infatti di solito avvengono a tempo determinato).

Malgrado il trend, l’ISTAT ha comunque ricordato nel suo rapporto annuale che è significativa la quota di lavoratori vulnerabili: “Oltre un terzo dei giovani occupati e quasi un quarto delle donne sperimentano almeno una forma di vulnerabilità lavorativa”, quindi tempo determinato o part time involontario. Di conseguenza, l’effetto a breve termine di una vittoria del Sì non sarebbe fermare il dilagare del precariato, perché non è ciò che sta avvenendo negli ultimi tempi, ma più che altro favorirne un’ulteriore diminuzione, e in generale ridurne l’impatto che ha raggiunto negli ultimi vent’anni grazie alla liberalizzazione delle norme. Se infatti ci guardiamo indietro di un paio di decenni, la cavalcata dei contratti a termine è stata davvero imponente, spinta soprattutto dalla modifica genetica della nostra economia: sempre meno manifattura, sempre più servizi a basso valore aggiunto (qualcuno ha detto turismo?).

La giuslavorista Protopapa: “Meno contenziosi non significano un sistema più efficiente”

Le critiche al quesito referendario sostengono che la rigidità delle causali andrebbe a danno di tutto il sistema, poiché potrebbe disincentivare le assunzioni in generale e aumentare il contenzioso. Su questo abbiamo ragionato con Venera Protopapa, giuslavorista dell’Università di Verona: il rischio di maggiori cause di lavoro sarà davvero l’impatto dell’eventuale Sì al referendum? E, soprattutto, è davvero un problema così grave, o è un fenomeno che andrebbe indagato più a fondo?

“Dal mio punto di vista – risponde Protopapa – la diminuzione del contenzioso può rappresentare un valore solo se inserita in un quadro di effettività delle tutele. La valorizzazione della diminuzione del contenzioso come un valore in sé capovolge la logica del diritto del lavoro. Meno controversie non necessariamente significano un sistema più efficiente. Se la diminuzione del contenzioso si realizza attraverso un abbassamento delle tutele, l’indebolimento degli strumenti di contrasto agli abusi o la creazione di barriere all’accesso alle corti (come fanno le più recenti riforme in materia di disciplina delle spese e costi del processo del lavoro), siamo di fronte a un sistema più ingiusto, che sacrifica le ragioni di una sola delle parti senza un adeguato bilanciamento.”

Protopapa: “La cittadinanza tutela tutti: contrasta la concorrenza al ribasso”

Il tema dei rapporti di forza tra imprese e lavoratori, della precarietà intesa come ricattabilità ritorna anche nel quinto quesito: quello che chiede di abbassare a cinque anni di residenza il requisito per ottenere la cittadinanza italiana. In apparenza sembra che non abbia a che fare con il mondo del lavoro; in realtà, l’impatto ce l’ha eccome.

“Il quesito sulla cittadinanza – spiega infatti Venera Protopapa – ha una rilevanza non scontata dal punto di vista del diritto del lavoro. Chi si occupa delle interazioni tra il diritto dell’immigrazione e il diritto del lavoro mette in evidenza il tipo di impatto che lo status di migrante, specie se precario, ha sulla capacità di negoziare le condizioni di lavoro e pretendere il rispetto delle condizioni contrattuali, sempre che ci sia il contratto, oltre all’accesso alla giustizia in caso di violazione delle tutele previste.

La precarietà di status, se si analizza nella prospettiva del modo in cui il migrante sta nel mercato del lavoro, genera molto spesso precarietà contrattuale e disinnesca la capacità del diritto del lavoro di svolgere la sua funzione tipica: rimediare in parte alle forti diseguaglianze tra le parti del rapporto di lavoro. I cortocircuiti che si creano tra lavoro e rilascio del titolo di soggiorno creano una doppia dipendenza del lavoratore: a quella legata al reddito che caratterizza ogni rapporto di lavoro si aggiunge un altro livello, che riguarda il titolo di soggiorno. Aprendo alla possibilità di accedere alla cittadinanza in termini più ragionevoli, si creano le condizioni per contenere le distorsioni prodotte dalla precarietà di status, rendendo i lavoratori migranti un po’ meno ricattabili.”

L’eventuale vittoria del Sì, quindi, andrebbe solo a favore degli immigrati?

L’eguaglianza tutela tutti – conclude Protopapa – e non solo chi ne beneficia in modo immediato. Rafforzare la capacità dei lavoratori migranti di rivendicare il rispetto dei propri diritti contribuisce in ultima istanza a contrastare forme di concorrenza al ribasso tra lavoratori, che producono un peggioramento delle condizioni di lavoro per tutti.”

 

 

 

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Photo credits: ith24.it

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