
Gli enti pubblici sono sensibili all’inclusione delle persone LGBT e reagiscono con attività di formazione e accoglienza. Vediamo come con Cinzia Melis, della segreteria nazionale della rete RE.A.DY.
Le strutture sanitarie hanno una grave carenza di mediatori linguistici, specie da hindi e arabo. Così, a fronte dei recenti flussi migratori, a molti stranieri manca un adeguato accesso alle cure. Le testimonianze di interpreti e operatori sanitari
La carenza di personale negli ospedali italiani è ormai un problema strutturale del nostro Sistema sanitario nazionale (SSN) che si è aggravato negli ultimi anni, complice l’invecchiamento della popolazione, il blocco del turnover e la crescente complessità assistenziale, che spinge molti giovani medici e infermieri a trasferirsi all’estero, attratti da condizioni contrattuali più favorevoli.
Ad oggi si stima che manchino circa 60.000 operatori sanitari, tra medici, infermieri e personale di supporto, con gravi conseguenze sulla salute dell’organico presente. A questo si aggiungono ritardi nelle prestazioni sanitarie e una riduzione della qualità dell’assistenza, con effetti diretti sulla salute dei pazienti.
Negli ultimi anni è emersa però una nuova emergenza che si sta sommando alla carenza di lavoratori ospedalieri: l’assenza di interpreti, specie nelle grandi città e in alcune zone d’Italia, per persone di lingua straniera; in particolare, hindi e arabo.
Complice l’incremento dei flussi migratori dal Bangladesh e dal Pakistan verso l’Italia (secondo ISTAT, nel 2021 le immigrazioni dal Bangladesh sono quasi raddoppiate, raggiungendo le 15.000 unità (+87% rispetto all’anno precedente), mentre quelle dal Pakistan sono state circa 14.000, con un aumento del 48%), la questione è destinata ad acuirsi, come sembra confermare chi lavora negli ospedali. Abbiamo raccolto alcune voci e testimonianze sul tema.
Se è vero che oggi esistono molti strumenti, come traduttori online, testi informativi multilingue e sistemi di intelligenza artificiale per superare le barriere linguistiche, la presenza di un interprete sul campo può fare la differenza e rivelarsi cruciale nella comunicazione e nella corretta comprensione delle informazioni tra paziente e personale ospedaliero.
“Non so quale sia la linea ufficiale dell’ospedale sugli interpreti”, afferma un medico del Policlinico Umberto I di Roma, che vuole restare anonimo. “Quello che so è che a noi medici arrivano spesso pazienti che non parlano bene l’italiano, su cui bisognerebbe anche avere una mediazione culturale, per capire anche cose banali ma per noi essenziali, ossia se hanno mangiato, se hanno preso dei farmaci o se hanno delle patologie pregresse. Nel momento in cui arrivano da noi in sala operatoria non c’è nessuno che ci aiuti, e così finiamo per arrangiarci con Google Traduttore e il sintetizzatore vocale per tentare di comunicare con loro”.
C’è anche un’ordinanza della Corte di Cassazione (la n. 22888/2024) che evidenzia come le barriere linguistiche possano costituire un significativo rischio clinico. Il caso riguarda una paziente straniera con decadimento cognitivo che, a causa di una ferita, si è recata al pronto soccorso. Non parlando italiano e non essendo disponibili famigliari per assisterla nella comunicazione, non è stato possibile ottenere un consenso informato adeguato per la somministrazione di immunoglobuline antitetaniche. Dopo la sutura in anestesia locale, la paziente è stata indirizzata a una struttura territoriale per completare la profilassi antitetanica, ma vi si è recata in ritardo, sviluppando successivamente un’infezione da tetano con gravi conseguenze. La Corte ha cassato la sentenza d’appello, sottolineando che il medico avrebbe dovuto dimostrare di aver tentato di comunicare efficacemente con la paziente riguardo ai rischi e benefici del trattamento.
Nonostante non siano disponibili dati specifici sugli accessi alle prestazioni sanitarie da parte di persone di lingua hindi e araba negli ospedali italiani, possiamo fare riferimento a informazioni generali sull’accesso ai servizi sanitari in Italia, che forniscono un contesto utile.
Nel 2023, si sono registrati 18,27 milioni di accessi negli ospedali con pronto soccorso, con un incremento del 6% rispetto all’anno precedente. Di fronte a un numero così alto di richieste e alla drammatica carenza di organico, i pazienti che non si esprimono per niente o non correttamente in italiano risultano svantaggiati rispetto agli italofoni, sperimentando sulla propria pelle un’ingiustizia rispetto al diritto a un equo accesso ai servizi sanitari.
Le difficoltà linguistiche possono infatti compromettere la qualità delle cure e portare a malintesi nelle comunicazioni mediche: ad esempio, il 13,8% degli stranieri sopra i 14 anni ha difficoltà a spiegare in italiano i propri disturbi o sintomi, mentre il 14,9% trova difficile comprendere le indicazioni del medico. La mancanza di interpreti può portare a diagnosi errate, trattamenti inadeguati e un aumento dello stress per i pazienti e i loro famigliari. Questo è particolarmente preoccupante in situazioni di emergenza, dove la comunicazione chiara è cruciale.
Giulia Cilli ha 25 anni, vive a Ciampino e si è appena laureata in Interpretariato e Traduzioni di conferenza alla SSML Gregorio VII di Roma, una scuola per mediatori linguistico-culturali. Per Giulia in Italia la figura del traduttore e mediatore viene svalutata e svilita di continuo: “Io uso il traduttore online. Non serve studiare e specializzarsi in questo settore” è la frase che ha sentito ripetere da diverse persone in questi anni.
“La diffusione dell’intelligenza artificiale è una buona alternativa ma, per quanti passi avanti possa compiere, non sarà mai capace di fare un’interpretazione come può fare un essere umano,” sostiene Cilli. “Ci sono elementi come l’espressione, la prossemica, l’empatia, che una macchina non potrà mai sostituire del tutto, soprattutto in casi di emergenza o particolarmente delicati”.
L’interprete ha voluto condividere con voi anche un aneddoto personale, che spiega bene il dramma della carenza di professionisti della mediazione linguistica e culturale negli ospedali: “Mio papà lavorava presso l’Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata, a Roma, nel reparto di Dermatologia. Per questo mi è capitato di recarmi più volte lì. Un giorno un dottore si è ritrovato a dover cercare qualcuno che potesse fargli da tramite con una paziente particolare: una donna musulmana, che non parlava neanche inglese e che, per via della sua religione, non poteva essere toccata da altri uomini. La situazione si è risolta solo quando sono intervenuta io, che ho parlato con la donna, spiegandole che la situazione era grave e che doveva essere visitata, ovviamente da un medico donna”.
Anche Matteo, commesso, ci racconta un’esperienza vissuta in prima persona molto simile.
“Qualche tempo fa ho accompagnato mia madre al Policlinico Gemelli di Roma per alcune analisi di controllo e mi sono imbattuto in una scena piuttosto triste. Una turista iraniana era stata aggredita, assieme al marito, da alcuni rapitori. Lei era incinta e aveva il terrore di perdere il suo bambino. Purtroppo non riusciva a spiegarsi bene perché parlava un pessimo inglese. Inoltre, essendo molto religiosa, non gradiva essere toccata da medici uomini e si agitava tantissimo quando ciò accadeva. Nessuno ha pensato di chiamare un interprete, anzi alcuni di loro hanno rivolto offese gratuite alla donna e alla sua etnia,” continua M. “È stato solo grazie alla mia conoscenza della lingua farsi se l’emergenza, alla fine, è rientrata”.
Abbiamo contattato Cristina Pistacchio, infermiera e coordinatrice del progetto Ohana presso il Policlinico Gemelli di Roma, per spiegarci come, negli ultimi due anni, l’ospedale romano si sia attrezzato per provare ad abbattere le barriere linguistiche presenti nel settore. Il progetto è nato a febbraio 2023 grazie a un’intuizione di Pistacchio, che si è accorta delle enormi difficoltà che possono incontrare i pazienti non italofoni in ospedale, e si fonda sull’attività, in forma volontaria, di alcuni operatori sanitari madrelingua (circa 150) presenti al Gemelli.
“Ohana non si sostituisce alla mediazione linguistico-culturale, già presente in azienda – racconta Pistacchio – ma l’affianca con la valorizzazione culturale e professionale del personale in staff. Attualmente nel gruppo abbiamo 42 Paesi rappresentati e 29 lingue attivabili. Inoltre, in meno di due anni, abbiamo raggiunto quasi 400 attivazioni”. Un ottimo risultato che dimostra la necessità di un servizio simile.
Al Gemelli, come ci spiega l’operatrice, in realtà esiste già un servizio di interpretariato, ma solo in due modalità, che presentano forti limiti: h24, ma solo in forma telefonica; in presenza, ma con disponibilità limitata. “La differenza rispetto alla mediazione linguistica tradizionale è la seguente: chi fa parte del gruppo Ohana appartiene allo stesso contesto culturale del paziente, ovvero conosce e utilizza, nell’incontro, i suoi medesimi codici comunicativi e interpretativi. Oltre a questo, l’operatore conosce anche la cultura aziendale e i suoi percorsi, comprende il linguaggio medico-scientifico e sa trovare, quindi, ponti assistenziali competenti e culturalmente congruenti”.
Swarit ha 32 anni, viene dallo stato del Rajasthan, in India, e da settembre 2024 vive a Monza con sua moglie.
“In quel periodo mia moglie è caduta e si è rotta un braccio,” racconta in un perfetto inglese. “Ci siamo precipitati all’ospedale più vicino a casa nostra (l’Ospedale San Gerardo), perché sentiva molto dolore. Ci siamo recati direttamente al pronto soccorso. Il personale alla reception ha capito subito la situazione e ci ha dato un codice verde per permettere a mia moglie di vedere il medico il prima possibile. Il servizio è stato molto efficiente e la risposta molto rapida,” aggiunge Swarit. “La mia unica preoccupazione è stata che, per tutto il tempo della permanenza in ospedale, abbiamo dovuto usare un traduttore automatico per far capire ciò che volevamo dire, mentre non riuscivamo a comprendere molte delle cose che il personale ci diceva, dato che parlavano solo in italiano. Solo la dottoressa parlava inglese, e così siamo riusciti a capire la maggior parte delle cose che ha detto. Purtroppo, la maggior parte dei follow-up e delle formalità burocratiche sono però gestite dal personale che, poiché non parla inglese, ci ha fornito delle istruzioni difficili da seguire. Alla fine, per tentare di farsi capire, usavano i gesti. Forse – conclude – sarebbe bene che le autorità mettessero a disposizione un traduttore o del personale che parli almeno in inglese negli ospedali, perché in caso di emergenza permetterebbe di far risparmiare tempo cruciale”.
Secondo Giulia Cilli, le barriere esistenti tra le istituzioni pubbliche e le persone straniere non italofone non sono solo di natura linguistica, ma anche culturale, mentre la carenza di interpreti in ambito ospedaliero rientra in una più generale carenza di interpreti e mediatori culturali nel nostro Paese: “A me, ad esempio, piacerebbe molto lavorare in ospedale come interprete, ma non trovo nulla. In ambito sociosanitario esistono delle specializzazioni in questo ambito, ma sono pochissime”.
Per superare queste difficoltà, alcune strutture sanitarie italiane hanno istituito servizi di mediazione linguistico-culturale. È il caso dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, a Firenze, che offre dal 2001 un servizio di mediazione culturale che fornisce traduzioni verbali e scritte per pazienti stranieri che non parlano italiano, con l’obiettivo di garantire l’efficacia delle prestazioni sanitarie. Anche l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma dispone di un servizio di mediazione culturale attivo in più di 35 lingue, operativo 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per garantire l’accesso alle cure in presenza di barriere linguistiche o culturali.
Inoltre, la legislazione italiana assicura che tutti gli individui, indipendentemente dal loro status giuridico, abbiano accesso alle cure sanitarie essenziali. Il ministero della Salute ha pubblicato anche delle linee guida operative per garantire l’accesso alle cure per le persone straniere, sottolineando l’importanza di fornire strumenti adeguati agli operatori sociosanitari e ai mediatori linguistico-culturali per rispondere con efficacia alle esigenze di salute degli stranieri.
Nonostante queste iniziative, le barriere linguistiche continuano a limitare l’accesso alle cure per molti immigrati. Ad esempio, meno del 50% delle donne immigrate nella fascia d’età raccomandata si sottopone a pap-test per la diagnosi precoce del tumore della cervice uterina, rispetto al 72% delle donne italiane. Questa disparità è attribuibile, in parte, proprio alle difficoltà linguistiche che ostacolano la comunicazione tra pazienti e operatori sanitari.
È fondamentale che le istituzioni sanitarie italiane investano nella formazione e nel reclutamento di interpreti professionisti per le lingue parlate dai gruppi migratori più consistenti. Programmi di formazione specifici per interpreti sanitari potrebbero infatti migliorare in modo significativo la comunicazione tra operatori sanitari e pazienti e garantire un diritto inviolabile, secondo la nostra Costituzione: quello alla salute.
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