Tom Quinn e il cinema della Neon: quando l’arte piace a critica e botteghino

Abbiamo seguito l’intervento dell’”artiere” del cinema contemporaneo al Biografilm Festival di Bologna, dove sono stati presentati quattro titoli della casa di produzione Neon: vendere l’arte è un talento, non un peccato. L’incontro con i registi Raoul Peck (“Orwell: 2+2=5”) e Joshua Oppenheimer (“The End”)

15.06.2025
Tom Quinn e Andrea Romeo al Biografilm Festival di Bologna

Tom Quinn è ormai conosciuto come “mr. Palma d’Oro”, perché con la sua Neon, casa di produzione e distribuzione americana (parte di Friedkin Group), ha acquisito per sei volte consecutive i diritti dei vincitori del massimo riconoscimento del Festival di Cannes: Parasite, Titane, Triangle of Sadness, Anatomy of a Fall, Anora e, l’ultimo in ordine di tempo, A Simple Accident di Jafar Panahi. Titoli che, una volta distribuiti nel mercato USA, hanno saputo imporsi anche nell’“award season”, come dimostrano i cinque Oscar conquistati a marzo da Anora di Sean Baker.

Tom Quinn, l’equilibro tra autonomia artistica e mercato

“Do priorità alla creatività, al talento, all’intento, alla valenza politica e culturale che vedo nel film. Se mi siedo a guardare un film e comincio subito a pensare a quale può essere il suo valore a livello di business, ha già perso il suo appeal, il suo interesse” ha raccontato Tom Quinn, CEO e cofondatore di Neon, ai giornalisti in occasione del Biografilm Festival di Bologna, durante il quale ha ricevuto il premio Make It Real Award.

“Dal momento in cui mi innamoro di un titolo, comincio a pensare al lavoro che nel concreto voglio fare su quel film. Partendo dal fatto che per me il potere del cinema è riuscire a unire la visione di un autore e quella di un pubblico dentro una sala cinematografica. Quando questi tre elementi riescono a convergere, allora si può parlare di un film di successo.”

Neon ha abbracciato questo mantra, pur nella consapevolezza che non tutti i titoli possono diventare campioni di incasso. Tom Quinn sceglie le metafore sportive per essere ancora più chiaro: “Nel baseball il successo non è un fuori campo, ma restare in battuta”, pronti a colpire la palla lanciata dall’avversario. E ancora: “Quando l’arte incontra il mercato, è come un gol segnato. Il botteghino è il punteggio, i premi sono il trofeo stagionale”, ha precisato il CEO dello studio indipendente avviato nel 2017, che ama la definizione di “artiere”, colui che favorisce il successo commerciale dell’arte, per riassumere il suo lavoro.

Al Biografilm, manifestazione giunta alla ventunesima edizione dedicata alle storie di vita e al cinema di qualità, documentario e di fiction, Neon ha portato quattro film: Together di Michael Shanks, in uscita a ottobre, destinato a diventare il prossimo cult; Alpha, il nuovo film di Julia Ducournau passato a Cannes; in arrivo dalla Croisette anche il nuovo documentario di Raoul Peck Orwell 2+2=5, sulla genesi e sull’attualità del capolavoro letterario 1984; e infine l’esordio di Joshua Oppenheimer nel film di finzione The End.

“Film diversi, ma tutti a loro modohorror’ e distribuiti in Italia da I Wonder Pictures (la casa di distribuzione guidata da Andrea Romeo, fondatore del Biografilm Festival)” conclude Tom Quinn.

“Orwell: 2+2=5”, oltre la distopia

Nel 1949, George Orwell conclude quello che sarà il suo ultimo, più celebre, romanzo: 1984. Nel 2025, il regista haitiano Raoul Peck in Orwell: 2+2=5, ricostruisce le fasi salienti della biografia dello scrittore e le alterna all’analisi dei concetti – Grande Fratello in primis – che hanno assunto nel tempo la connotazione di “orwelliani”. Lo scopo è mostrarne l’inquietante attualità, alla luce della crisi democratica contemporanea.

L’aderenza della visione premonitrice di Orwell alle derive autoritaristiche di oggi emerge dal sapiente montaggio del regista. Molteplici sono le fonti: il materiale di archivio relativo alla vita dello scrittore (filmati, foto, lettere, diari, saggi), i diversi adattamenti televisivi e cinematografici di 1984 e La fattoria degli animali, inserti di altri film (Ken Loach) e i video che documentano le guerre e le crisi che attraversano il mondo, dal Myanmar a Gaza, senza dimenticare l’assalto a Capitol Hill nel 2021. Anche la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni è presente in una dichiarazione.

Dietro agli slogan orwelliani – “la guerra è pace”, “la libertà è la schiavitù”, “l’ignoranza è forza” – c’è un’umanità che non ha memoria dei disastri del passato e replica gli stessi errori, questa volta amplificati da una società iperconnessa, dove la manipolazione delle informazioni è ancora più pervasiva e il rischio di revisionismo è più di una semplice minaccia.

Un'immagine dal film "Orwell: 2+2=5" di Raoul Peck
Un'immagine dal film "Orwell: 2+2=5", di Raoul Peck.

Orwell: 2+2=5, ci ha spiegato Peck a Bologna, non è un tradizionale documentario biografico, ma un’opera dalla spiccata matrice politica, che vede nella storia travagliata e nelle riflessioni del suo protagonista – George Orwell, appunto – l’architrave del film.

“Le persone usano la parola distopia per descrivere 1984. Non penso che lo sia. Orwell ha analizzato il mondo che vedeva attorno a lui in maniera accurata. Ecco perché il film è così reale. Non è un’invenzione. Orwell non era un profeta, vedeva il pericolo” constata con amarezza Raoul Peck, già candidato all’Oscar per I Am Not Your Negro. “Noi esseri umani non impariamo dalla storia. Non abbiamo ancora digerito l’ultima guerra mondiale e non abbiamo fatto un buon lavoro nell’educare su come è arrivato il fascismo. Stiamo rivivendo gli anni Trenta”.

Non ha però una soluzione, Raoul Peck: “Posso solo dare informazioni e fornire il collegamento. È quello che provo a fare nel mio film”.

“The End”, l’allegoria di Joshua Oppenheimer

Joshua Oppenheimer torna al Biografilm con The End, il suo primo lungometraggio di finzione che uscirà nelle sale italiane il 3 luglio, distribuito da I Wonder e Unipol Biografilm Collection.

Da 25 anni, in un bunker sotterraneo dotato di molti comfort (ambientato nelle miniere di sale Italkali di Raffo, frazione di Petralia Soprana, in Sicilia), si rifugia una famiglia scampata alla catastrofe ambientale che ha posto fine all’esistenza sulla Terra, così come l’abbiamo sempre conosciuta: Padre (Michael Shannon), magnate petrolifero che sembra aver notevolmente contribuito alla fine del mondo, Madre (Tilda Swinton) e Figlio (George MacKay) vivono aggrappati alla speranza che tutto proceda per il meglio. Si raccontano che possono continuare a vivere in completo isolamento e restare comunque umani. E lo fanno cantando, perché il musical – spiega Oppenheimer – è il genere per eccellenza dell’autoinganno, della negazione, di una sorta di ottimismo e cieca illusione.

“Le canzoni non esprimono le verità più profonde dei personaggi, come spesso si sente dire riguardo ai musical, ma piuttosto sono disperati tentativi di convincere sé stessi che ciò che hanno fatto è giusto, o di romanticizzare le loro azioni e condizioni modo che siano in qualche modo accettabili”.

A sconvolgere il loro mondo, di cui fanno parte anche il medico, l’amica di famiglia e il maggiordomo, arriva una sopravvissuta di colore (Moses Ingram), che costringerà tutti i personaggi a fare i conti con il riconoscimento dei propri errori e inganni.

Un'immagine dal film di finzione "The End", di Joshua Oppenheimer
Un'immagine dal film di finzione "The End", di Joshua Oppenheimer.

Proprio il festival bolognese ha contribuito a diffondere in Italia i due celebrati documentari di Oppenheimer: The Act of Killing e The Look of Silence, sugli autori dei genocidi in Indonesia rimasti impuniti. Il regista, ci racconta a Bologna, sperava di girare un terzo film sul tema, ma non è più riuscito a tornare in sicurezza nel Paese. La conoscenza con un ricco e potente oligarca alla ricerca di un bunker dove rifugiarsi, lontano dal resto dei parenti, degli amici e dell’umanità intera, ha rappresentato per lui un’ispirazione, insieme al genere musical. “Il tema di The End è lo stesso dei miei precedenti documentari: come inventiamo e ci aggrappiamo a scuse per alleviare i nostri rimpianti, come riusciamo a credere a quelle scuse anche se le abbiamo inventate? Si può convivere con il rimorso di aver lasciato tutti indietro?”.

The End è, come lo descrive il suo stesso regista, un racconto ammonitore sulla fine della speranza, un film complesso e disturbante sulla capacità dell’essere umano di mentire a sé stesso. Un film di morte e di vita, dove la connotazione apocalittica acquista in realtà il significato di rivelazione.

“Siamo oltre la catastrofe. Il nostro presente è già post-apocalittico. Dobbiamo cambiare radicalmente il nostro modo di vivere” conclude Joshua Oppenheimer.

 

 

 

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In copertina: Tom Quinn con Andrea Romeo. Photo credits: Biografilm Festival

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