Il cinema di Fellini ha una natura metalinguistica: è quanto afferma Virgilio Fantauzzi nel libro “Il vero Fellini. Una vita per il cinema”. Una riflessione sul linguaggio filmico del regista premio Oscar.
Liberi dal lavoro: ne siamo capaci?
A un anno dal suo ultimo documentario di successo, “After Work”, il regista italo-svedese Erik Gandini fa un bilancio: un lavoro può dirsi inutile se non porta alcun beneficio alla collettività, e il suo valore non è assoluto, ma deve variare in relazione alla sua epoca
Questo articolo è un estratto della rivista cartacea di SenzaFiltro “Nel lavoro vince chi sfugge“, di ottobre 2024.
Il sogno americano è sinonimo di superlavoro: nel 2018 i lavoratori americani non hanno utilizzato 768 milioni di giorni di vacanza. In Corea del Sud si muore di troppo lavoro (gwarosa) o ci si ammala di burnout, non vedendo crescere i propri figli. In Kuwait tutti i cittadini hanno un’occupazione, ma è una farsa, perché devono solo perdere tempo, e la depressione, il senso di inutilità, emerge inesorabile.
In Italia, tra NEET e super-ricchi, anche il non lavoro diventa una concreta possibilità. È attraverso questi esempi che il regista e docente italiano naturalizzato svedese Erik Gandini, nel suo documentario After Work, indaga le storture nel rapporto tra esistenza e lavoro. L’autore di titoli come Videocracy e La teoria svedese dell’amore, nella pellicola uscita un anno fa e distribuita da Fandango, chiede agli spettatori di immaginare che cosa succederebbe se potessero lavorare di meno, magari soppiantati dall’Intelligenza Artificiale, in uno scenario non troppo lontano: “È una domanda ambivalente, profondamente individuale e collettiva allo stesso tempo”.
Un anno dopo l’uscita di After Work, quali reazioni ha raccolto?
Provo grande soddisfazione, perché il tema del mio documentario, da astratto e lontano, è sempre più concreto e urgente, anche per l’accensione dell’interesse globale su ChatGPT e le considerazioni sul ruolo dell’IA, che rappresenta un’opportunità e non solo un rischio. Come me all’inizio, molte persone che hanno visto il film mostrano curiosità verso l’esplorazione di questo tema sotto il profilo esistenziale: che cosa comporta togliere il lavoro dal centro delle attività umane? Anche la Svezia, Paese protestante con un retaggio calvinista e un’impronta socialdemocratica, che ha sempre considerato il lavoro come la soluzione primaria (per integrazione, emancipazione, salute mentale), oggi inizia a riflettere sulla possibilità di introdurre la settimana corta.
After Work non è un film a tesi. Non offre risposte, ma induce lo spettatore a porsi domande e lo proietta nel futuro, aspetto raro per un documentario.
Il mio obiettivo è quello di invitare tutti a sforzarci di immaginare il nostro futuro, senza adattarci in modo passivo alla logica dominante delle otto ore lavorative. Nel film inserisco la campagna pubblicitaria del governo coreano, che è emblematica per la mancanza di fantasia che restituisce. È la politica, infatti, a dover suggerire ai cittadini le varie occupazioni per il tempo libero: dipingere un quadro, mangiare con la famiglia, fare sport. Ciò evidenzia la sbiadita capacità di immaginazione dell’umanità. Ho portato il film in moltissimi Paesi, e sono felice che abbia condotto in maniera spontanea le persone a ripensare al loro avvenire con nuove prospettive.
Non si parla solo di meno ore di lavoro. Nel documentario tocchi la motivazione, il tema del senso e dell’utilità della propria occupazione. Secondo un sondaggio di Gallup, la maggioranza dei lavoratori (l’85%) va a lavorare senza coinvolgimento.
È una condizione che oggi purtroppo non riusciamo ancora a superare. Importantissima è l’analisi del compianto David Graeber sui bullshit job, i lavori assolutamente inutili. La sua definizione di lavoro inutile è che è il lavoratore stesso a definirlo come tale: quando ti rendi conto che stai facendo un lavoro inutile, che non porta benefici alla collettività, allora lo è. Basti pensare a tutti i compiti di carattere amministrativo che sono proliferati negli anni. Il meccanismo innescato da realtà come Gallup è infernale: da una parte elabora questo dossier sulla soddisfazione dei lavoratori dipendenti; dall’altro vende alle aziende strumenti di engagement per coinvolgere maggiormente al lavoro. Anche la logica corporate del management coaching, convogliata nel documentario da Josh Davis, propone ormai un’idea superata di essere umano, dove un “leader supremo” dirige e guida persone disposte ad allinearsi in modo cieco. La mia visione è opposta.
È questione di fantasia, ma soprattutto di libertà.
Occorre guardare dentro sé stessi, trovare la propria passione e non darla in mano al responsabile delle risorse umane. A un certo punto occorre scegliere che cosa fare. Questa è la grande sfida: riappropriarsi del diritto di decidere della propria vita. È un cambiamento di paradigma tutt’altro che facile, relativo al nostro rapporto complessivo con l’esistenza. Anche i sistemi educativi andrebbero rivisti, in modo da aprire di più all’introspezione e alla scoperta delle passioni individuali.
Il mondo è pronto per questo cambiamento? Citando Star Wars, le generazioni più giovani sono la nuova speranza?
Sono ottimista. Ho partecipato ad alcune presentazioni del documentario con Francesca Coin, autrice di Le grandi dimissioni. Dalla sua ricerca emerge come oggi i giovani abbiano più pretese e un miglior rapporto tra lavoro e vita privata. È un grande segno di speranza il fatto che l’ideologia del lavoro radicata nella mia generazione – le cui aspettative sono troppo legate all’identità professionale – oggi non attecchisca come in passato sulle nuove generazioni. Portando After Work nel mondo, molti giovani hanno percepito un conflitto generazionale. Il film inizia con una ragazza coreana che osserva il padre al computer ammazzarsi di lavoro. È il prezzo più alto pagato da generazioni coreane, che si sono sacrificate per far uscire il Paese dalla povertà; ma oggi questo sforzo immane è superfluo. Imparare a lavorare meno si tradurrebbe magari in un migliore rapporto tra genitori e figli. In Italia si discute molto di inverno demografico: è un tema sul quale non ho preconcetti e nemmeno risposte, però mi incuriosisce molto. Perché non si fanno figli? Sul tavolo ci sono preoccupazioni sul futuro, sull’economia e sul tempo.
Non c’entra solo la dimensione economica.
Anche in Scandinavia – dove le condizioni per la genitorialità sono favorevoli – la natalità è bassa e gli incentivi economici non sono decisivi. Non bastano. Lavorare meno, più lontano dallo stress, aiuterebbe? Non lo sappiamo. In generale, resto ottimista sul futuro in tutti i sensi.
Sei al lavoro sul tuo prossimo progetto, ma non ci rivelerai l’argomento.
Preferisco discuterne dopo. Posso solo dire che continuerò ad affrontare le grandi questioni esistenziali, rivendicando il documentario come forma d’arte in grado di uscire dalle limitazioni cronologiche del presente e del passato per proiettarsi nel futuro, usando però gli esempi offerti dalla contemporaneità.
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In copertina: Erik Gandini (regista, scrittore e produttore italo-svedese, professore di cinema documentario alla Stockholm University of the Arts) sul palco di Nobìlita 2024, a Milano. Foto di Domenico Grossi
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