Adriano Giannola, SVIMEZ: “Noi la chiamiamo eutanasia della questione meridionale”

La tragedia del COVID-19 muterà le geografie del lavoro in Italia e in Europa? I flussi migratori subiranno un’inversione di tendenza tra Nord e Sud? Assisteremo al ritorno degli emigranti italiani nei loro Paesi d’origine? Riusciremo a gestire in modo diverso l’immigrazione? Qualche debole segnale in questo senso è innegabile: la regolarizzazione dei lavoratori immigrati […]

La tragedia del COVID-19 muterà le geografie del lavoro in Italia e in Europa? I flussi migratori subiranno un’inversione di tendenza tra Nord e Sud? Assisteremo al ritorno degli emigranti italiani nei loro Paesi d’origine? Riusciremo a gestire in modo diverso l’immigrazione? Qualche debole segnale in questo senso è innegabile: la regolarizzazione dei lavoratori immigrati che lavorano nelle campagne del Mezzogiorno, i dati di un rapporto ANCI confezionato dal Cerved che ci dice che per la prima volta da decenni la decrescita dell’economia del Sud dovuta alla pandemia è minore di quella del Nord Italia, farebbero pensare a un possibile potenziale riequilibrio del tradizionale divario tra Nord e Sud e a un possibile mutamento della geografia del lavoro.

Ma quando giriamo questi interrogativi ad Adriano Giannola, studioso della questione meridionale, presidente dello SVIMEZ, l’Istituto che da decenni studia le ragioni profonde della piaga che caratterizza l’Italia fin dai tempi di Cavour, lui ci accoglie con un sorriso che nasconde una certa amarezza. E dopo poche battute capiamo che quegli scenari assai suggestivi per realizzarsi avrebbero bisogno di un cambiamento radicale, o comunque di una trasformazione del modello di sviluppo sul quale si è fondato il nostro Paese negli ultimi cent’anni.

Adriano Giannola, presidente dello Svimez  Photo@napoli.repubblica.it

 

Mi pare di capire che secondo lei sarà difficile che cambi qualcosa nei tradizionali flussi migratori in Italia.

Abbiamo notato anche noi che, soprattutto durante il lockdown, c’era una voglia di tornare al proprio paese, di tornare nella propria famiglia di origine. Non soltanto dunque una fuga dalla pandemia che aveva invaso il Nord, come è avvenuto all’inizio del lockdown, ma una voglia di tornare a casa e magari di rimanerci. Ritengo però che siano segnali troppo deboli per marcare un vero cambiamento. La realtà purtroppo è molto diversa, da anni scriviamo nei nostri rapporti che ci sono flussi sempre più intensi e trasferimenti finanziari da Sud a Nord. Dalle nostre analisi emerge un dato significativo: ci sono famiglie che si indebitano o mettono mano ai risparmi di una vita per finanziare gli studi dei loro figli al Nord Italia o in Paesi esteri, e tenga conto che stiamo parlando di situazioni di privilegio. La crisi finanziaria e industriale del 2007 ha avuto effetti devastanti, ad esempio sul crollo delle iscrizioni nelle università del Sud Italia. Gli effetti di quella crisi hanno prodotto una trasformazione sociale e classista che avrà effetti pesanti nel prossimo futuro, se non cambia qualcosa. Un primo dato è che nel 2030 avremo regioni per giovani al Nord e regioni per vecchi al Sud. Calcoliamo che nel 2065 il Mezzogiorno avrà perso 5 milioni di abitanti. Secondo elemento su cui riflettere: il Pil crollerà come non mai, ma con un 25% al Nord e un 40% al sud. Sa come lo chiamiamo questo processo? L’eutanasia della questione meridionale.

Non mi pare dunque che lei nutra grandi speranze. O sbaglio?

Se si cambia narrazione sui destini dell’Italia, per il Sud ci può essere una speranza e una crescita. È vero, gli effetti dell’ondata epidemica hanno colpito maggiormente il Nord, che già era in crisi, ma bisogna tenere conto che al Sud le strutture produttive e sanitarie sono molto più fragili. Stiamo constatando attraverso le nostre analisi che le aziende del Sud hanno rischi quattro volte superiori a quelle del Nord. Non c’è cassa integrazione, ma assistenzialismo. Me lo lasci dire: da questo punto di vista il reddito di cittadinanza, che pure ha avuto la sua importanza, accresce il divario tra economia produttiva del Nord ed economia assistita nel Sud. Il cosiddetto rinascimento di Napoli? È un fenomeno che esiste, apprezzabile, da non trascurare, ma si fonda sull’iniziativa di piccole e piccolissime imprese che non riescono a diventare volano di crescita se non saranno inserite in un contesto economico diverso, su una strategia nazionale del tutto diversa.

Me ne parli, voi cosa avete in mente?

Diciamo in primo luogo che a questo punto, a fronte di una crisi di queste proporzioni, non bastano più provvedimenti ad hoc. Certo, quei provvedimenti che il governo sta prendendo sono essenziali per garantire la sopravvivenza del sistema produttivo, ma per uscire dalla crisi avremmo bisogno di una visione di medio periodo e di avere più attenzione ai territori. Dai tempi del primo presidente Rodolfo Morandi, Svimez sostiene che il problema italiano è e resta il rapporto tra Nord e Sud, e che la mancata crescita del nostro Paese ha come causa principale il divario sempre più profondo tra le due aree. Da qui non se ne esce. Tenga conto che il nostro Paese non cresce da decenni, ma oggi, alla luce di quanto è accaduto, avrebbe grandi opportunità; non attraverso finanziamenti a pioggia, ma attraverso un nuovo modello di sviluppo che dovrebbe valorizzare con gli investimenti le zone potenzialmente produttive del Mezzogiorno, come i porti italiani e tutto ciò che si sviluppa attorno. Certo, se si segue il modello che propone il nuovo presidente della Confindustria non si va da nessuna parte. Quello è un modello vecchio, di ritorno al passato.

Perché, che cosa propone il nuovo presidente della Confindustria?

Da quello che ho letto propone un modello che ha già mostrato tutta la sua fragilità negli anni scorsi. L’idea è di rafforzare Milano e il Nord, sperando che l’industria del Nord, con uno sguardo alla Germania, faccia da traino anche per il Sud. Ma ci si rende conto che la Lombardia nelle classifiche europee è crollata dal ventesimo al cinquantesimo posto? Altro che traino! Il Pil nella regione che dovrebbe essere la locomotiva di tutta l’economia nazionale è precipitato. E la situazione del Piemonte è peggiore. Questo modello non fa i conti con due elementi: intanto in questi decenni il Nord non è mai riuscito a fare da traino neppure in termini di immigrazione, e poi non possiamo nasconderci che, se il Sud è malato grave, il Nord non può illudersi di risollevarsi dalla sua crisi puntando soltanto sui mercati del Centro e Nord Europa. Il Sud, che è il principale mercato interno italiano, con una buona dose di miopia è stato abbandonato a se stesso. Vuole un esempio? Se uso i fondi europei per finanziare il Nord in realtà sto ammazzando il mercato di sbocco costituito dal Mezzogiorno; sto indebolendo me stesso. Se, come ho sentito dal ministro De Micheli, si ritiene che le priorità siano i porti di Genova e di Trieste, allora è la fine. Se il Sud fosse la base logistica del Sud Europa il Mezzogiorno potrebbe rinascere, ma per fare questo bisogna cambiare il baricentro, bisogna capire che il futuro del nostro Paese è nell’area del Mediterraneo, è in Africa. Come mai secondo lei i cinesi hanno investito miliardi nel continente africano? Non è soltanto espansionismo, c’è una visione del futuro. Perché hanno capito che lì ci sono grandi potenzialità di sviluppo. Al Sud le potenzialità ci sarebbero per creare lavoro, ma è necessario fare investimenti nelle opere pubbliche strategiche per il Mezzogiorno.

Quali opere pubbliche?

Intanto sarebbe importante rafforzare i collegamenti ferroviari e viari tra Napoli e Bari, in modo da collegare il mare Adriatico con il mar Tirreno, ma poi dovremmo essere in grado di puntare sui nostri territori, sui nostri porti, su quelle che sono state definite dall’Europa zone speciali, ovvero Gioia Tauro, Taranto, Napoli, Bari e il loro retroterra produttivo. Soltanto se sviluppiamo quell’area che si affaccia all’Africa e al Mediterraneo, e che garantirebbe via mare la rivalutazione dei nostri porti, possiamo pensare di uscire dalla drammatica crisi che sta stringendo l’Italia in una morsa mai vista. Soltanto prendendo questa strada potremmo davvero mutare la geografia del lavoro e realizzare il sogno di molti nostri emigrati di tornare a casa. Non c’è altra strada, l’ipotesi liberista praticata in questi anni ha mostrato tutta la sua inconsistenza. D’altronde i numeri e le previsioni che si fanno sul nostro Paese sono terribili, Banca d’Italia parla addirittura di un calo del Pil tra il 9 e il 13%. E questo lo sappiamo tutti che significa una disoccupazione che non abbiamo mai visto prima. I conti li faremo a settembre e ottobre. Il Nord perderebbe l’8,6%, mentre il sud il 7%. Visto che la Germania, secondo le previsioni, entro un anno recupererà tutte le perdite registrate durante l’epidemia, il nostro distacco dall’Europa sarà ancora più marcato, perché non credo che noi riusciremo a recuperare in così breve tempo. Lo dirò fino alla noia, dovremmo avere una visione e capire che questa volta abbiamo l’opportunità di riequilibrare la nostra economia soltanto se puntiamo allo sviluppo del tanto vituperato Mezzogiorno, se no le geografie del lavoro muteranno in peggio accentuando le diseguaglianze. Io le confesso però che non sono ottimista. Dai primi segnali si capisce che non c’è alcuna visione strategica, ma soltanto una navigazione a vista.

CONDIVIDI

Leggi anche

Un nuovo atlante del lavoro lungo la via Emilia

Parlare di lavoro, senza filtro, fuori dagli stereotipi dei luoghi comuni, è un po’ come volersi mettere intorno a un tavolo con un foglio bianco, una matita e tanti colori, e provare a disegnare un nuovo mappamondo. Un atlante degli invisibili ai tempi dei navigatori e delle geo-localizzazioni. Operazione tutt’altro che nostalgica. Nonostante il tema […]