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Capitalismo buono o cattivo? Sono ormai in molti a sostenere che il coronavirus sta mettendo a dura prova il sistema economico e industriale dell’occidente. Chissà se da questa durissima prova ne uscirà promosso quello che dal Financial Times viene definito “il capitalismo buono”, etico e sostenibile. L’intrigante quesito se lo pone Andrew Edgecliffe-Johnson sul quotidiano […]
Capitalismo buono o cattivo?
Sono ormai in molti a sostenere che il coronavirus sta mettendo a dura prova il sistema economico e industriale dell’occidente. Chissà se da questa durissima prova ne uscirà promosso quello che dal Financial Times viene definito “il capitalismo buono”, etico e sostenibile.
L’intrigante quesito se lo pone Andrew Edgecliffe-Johnson sul quotidiano londinese. Il giornalista prevede che nei prossimi mesi “il virus proporrà rischi inconsueti per le aziende che hanno provato a ridefinirsi in base a credenziali socialmente responsabili”. I manager di queste aziende, a fronte di un’emergenza imprevista e assai stringente, dovranno dimostrare se prevarrà la logica del profitto o l’etica di impresa, se prevarranno gli interessi degli shareholders, gli azionisti, o quelli degli stakeholders, come i dipendenti, i fornitori e i clienti.
“Il punto è se cederanno al richiamo della foresta con il taglio del personale, finendo così sotto accusa dell’Environmental, Social, Governance, (l’organismo dei fondi che definisce gli investimenti responsabili)”, o se invece metteranno in pratica le leggi ormai diffuse dell’impresa sostenibile. “Ma non è chiaro – spiega Mercuri sul Corsera, chiosando l’articolo di Edgecliffe-Johnson – se il capitalismo lo capirà nei tempi duri che si prospettano nell’immediato o se imbucherà la solita scorciatoia dei licenziamenti e dei fornitori messi alle strette. Naturalmente la questione ci riguarda tutti, anche noi che col virus faremo lo smart work da casa mangiando pasti portati da fattorini privi di questa possibilità – e di molte altre – finché la pressione ‘etica’ non si imporrà anche sulle loro aziende”.
Gli schiavi della connessione
“Il diritto di disconnettersi”. Il titolo che compare su Repubblica è suggestivo, soprattutto per chi fa il mestiere del giornalista – ma, in epoca di smart working, un po’ per tutti. “Il richiamo irresistibile dell’e-mail o di WhatsApp fuori dall’orario di lavoro. Per ‘sentirsi coinvolti e restare aggiornati, o forse perché le aziende se lo aspettano’”. Il risultato è che il 71% degli italiani risponde ai messaggi inviati al di fuori dell’orario di lavoro, e il 68% cento lo fa immediatamente.
Secondo l’ultima edizione del Randstad Workmonitor, l’indagine sul mondo del lavoro della multinazionale olandese leader nei servizi per le risorse umane, questa tendenza alla perenne connessione col lavoro ci caratterizza in Europa: solo Portogallo e Romania sono più solleciti. E non è neanche una questione di età, perché comunque anche tra i lavoratori più anziani la quota dei sempre connessi è del 66%. Che cosa ci è accaduto? È l’altra faccia, quella cattiva, dello smart working, del lavoro che non si svolge più solo in ufficio ma ovunque possa far comodo, a casa, in treno o in un’altra città?
Storie di ordinaria burocrazia
Ecco una storia che possiamo trovare sul giornale online Affari Italiani diretto da Angelo Maria Perrino.
“Egregio direttore di Affari Italiani le chiedo ospitalità sulle pagine del giornale per raccontare la vita reale delle aziende rispetto a quella che i nostri politicanti vorrebbero amministrare e regolamentare. Rappresento, curando le relazioni istituzioni, una media azienda informatica con circa 220 persone in Italia. Da qualche giorno la nostra situazione è questa: siamo in credito con INPS (lo stesso Ente che se ti manca un centesimo non ti rilascia il DURC) per circa due milioni di euro, e ogni nostra legittima insistenza di avere il dovuto si scontra con burocrati giurassici inchiodati alle norme sugli appalti, che fondamentalmente dicono che l’impresa ha sempre torto e lo Stato sempre ragione.”
“Abbiamo avuto una cartella esattoriale che abbiamo provveduto immediatamente a rateizzare, ma nel mentre l’Agenzia delle Riscossioni dovrebbe concedere tale rateizzo nel frattempo ci sta pignorando tutti gli incassi presso i nostri clienti pubblici. Questo perché, la intelligenza sopraffina dei nostri governanti, invece di semplificare i meccanismi di rateizzo, magari con una procedura automatica, ha deciso che sopra i 60.000 euro la decisione di rateizzo debba essere valutata da un burocrate della Agenzia della Riscossione che, a quanto da loro stessi rappresentato, è in ritardo di 4 mesi.”
“Ha una logica un limite di soli 60.000 euro per una azienda che fattura una decina di milioni di euro? E soprattutto quale è il senso di una valutazione di merito da parte di un funzionario la cui cultura di bilancio di aziende è prossima allo zero? È logico che una azienda che lavora prevalentemente per il mondo pubblico non debba avere un canale diretto con l’Agenzia delle Riscossioni, ma deve al contrario prendere il numerino per un appuntamento che viene dato dopo un mese? Ma qualcuno vuole per caso provare a vedere il sottobosco di agenzie e praticoni che queste modalità alimentano?”.
“Il dottor Ruffini, che quando va alla Leopolda parla di fisco del futuro, ha mai provato ad andare agli sportelli della sua Agenzia a vedere cosa dicono i suoi dipendenti? Glielo diciamo noi: ‘Guardi dottò, per la rateizzazione ci vogliono quattro mesi almeno e poi sopra non gliene frega nulla di darle, perché se vedono che l’azienda ha crediti preferiscono pignorare gli incassi, così chiudono le cartelle e fanno budget e prendono pure i premi’. Ecco questa è l’Italia reale”.
Strage di lavoro (non di coronavirus) in Lombardia
Ecco un’altra lettera, comparsa sul quotidiano il Giorno, e la risposta. Il tema questa volta non è la burocrazia, ma ancora una volta la morte sul lavoro nella “moderna” Lombardia.
“C’è il coronavirus, non si discute. Ma sono rimasto colpito che in Lombardia, non più tardi di lunedì, nell’arco di 24 ore siano morte due persone per incidenti sul lavoro. Sembra che questi eventi rientrino nell’ambito delle fatalità che vengono subite. Non dovrebbe essere così”, scrive il lettore Alberto P. Pavia.
La risposta è adeguata allo stupore del lettore. “Nel solo mese di gennaio in Italia sono morte 52 persone sul lavoro. Il dato che emerge dallo studio dell’Inail non ha fatto gridare all’epidemia, eppure il bilancio è pesante. E lo è ancora di più se si guarda la ‘curva’ dei decessi, in rialzo di quasi il 19% se raffrontato con lo stesso mese dell’anno scorso, quando i morti furono ‘solo’ 44. Analizzando meglio si potrebbe dire che la Lombardia è l’unica regione in controtendenza rispetto al resto d’Italia perché l’inizio dell’anno è iniziato con un calo considerevole di infortuni mortali scesi dai 10 del 2019 ai 3 denunciati nel 2020. Per il resto è tutta una raffica di segni più che sarebbe meglio evitare. Non basta comunque questo risultato per considerarsi fuori dalla fascia d’allarme. I numeri restano pesanti e non sono degni di un Paese civile nel quale si dovrebbe ‘lavorare per vivere’, non per sfidare la sorte. Senza dimenticare che delle 46.483 denunce d’infortunio presentate molte fanno riferimento a danni permanenti. Ma chissà perché di queste statistiche ormai non si accorge quasi più nessuno, colpevolmente”.
Finto cieco: denunciato dal figlio, viene condannato
Girovagando in Internet si trovano storie sul lavoro ma anche parecchie storie di furbetti. Questa compare su Next. Aveva percepito indebitamente la pensione d’invalidità civile, l’indennità di accompagnamento e la pensione di invalidità e inabilità al lavoro dichiarandosi cieco. Invece, come hanno accertato i finanzieri con appostamenti e videoriprese, l’indagato era in grado di svolgere ogni ordinaria attività senza necessità di alcun ausilio. Nel 2012 aveva anche superato le visite mediche per il rinnovo della patente di guida con l’unica prescrizione dell’obbligo dell’utilizzo di lenti.
A denunciarlo è stato suo figlio, che in passato era stato costretto da un tribunale a pagare 300 euro mensili per sostentare il padre.
Truffava i pellegrini davanti alla Basilica di Sant’Antonio: falso invalido scappa di corsa
Siamo a Padova: un uomo, che fingeva di zoppicare vistosamente, ha raggirato i pellegrini con la scusa di raccogliere fondi per un ospedale dedicato alla cura di “bambini poveri”. Vedendo avvicinarsi dei militari, insospettiti dalla sua attività, l’uomo si è dato alla fuga di corsa, mostrando capacità atletiche tali da seminarli.
Ora, racconta il Gazzettino.it, è accusato di truffa aggravata (reclusione da 1 a 5 anni) ai danni dell’Inps per 270.000 euro. Nei confronti dell’uomo è stata inoltre formulata una richiesta di sequestro preventivo di pari importo. Nel corso del 2019, sul fronte della tutela della spesa pubblica, i finanzieri hanno svolto 55 interventi a contrasto delle condotte di indebita richiesta, percezione e/o fruizione di prestazioni sociali agevolate (di cui 13 con esito irregolare) che hanno portato alla denuncia di tre persone e alla contestazione di violazioni amministrative nei confronti di altre 10; 52 interventi a contrasto dell’indebita esenzione dal pagamento dei ‘ticket sanitari (di cui 49 con esito irregolare) che hanno consentito la contestazione di violazioni amministrative.
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