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Altro che safety leadership, i capi non studiano
Educarne uno per salvarli tutti: la sicurezza sul lavoro è anche una questione di cultura – e di formazione. Parliamo di safety leadership con l’avvocato e mediatore Andrea Buti e Stefano Pancari di Rock’n’Safe.
“Grazie all’introduzione del Testo Unico 81 del 2008, la media giornaliera di morti sul lavoro da quattro e mezzo si è ridotta a tre.”
Cesare Damiano, ex ministro del lavoro e padre dell’ultimo decreto in tema sicurezza, per introdurre il suo intervento alla tappa imolese del festival Nobìlita ha proposto a sorpresa un dato di miglioramento. Lettura non scontata, a maggior ragione in un periodo storico nel quale il numero di episodi tragici nelle pagine di nera è in costante ascesa.
L’intento di Damiano è piuttosto chiaro: sottolineare che l’impianto normativo ha garantito risultati concreti e non necessita di stravolgimenti strutturali, al netto dei doverosi aggiornamenti legati all’età, visto che nel 2021 ha compiuto tredici anni. Anche prendendo per buono l’assunto, l’onta drammatica delle tre vittime medie giornaliere è francamente inaccettabile, e la discussione non può prescindere da questo punto di partenza.
Non solo. Allargando l’orizzonte sui numeri legati agli infortuni, è possibile notare che negli ultimi cinque anni non si è mai scesi sotto quota 640.000, a eccezione del 2020 quando il dato è sceso sensibilmente (571.198 in totale) soprattutto a causa del periodo tra marzo e maggio, con molte aziende ferme al palo a causa del COVID-19. I primi otto mesi del 2021 evidenziano comunque un totale di 350.000 denunce, 8,5% in più rispetto all’anno precedente, anche se il dato è ancora provvisorio. Questa panoramica conferma che in Italia, ogni giorno, si verificano poco meno di duemila infortuni sui luoghi di lavoro.
Le percentuali degli episodi mortali si attestano intorno allo 0.2%, per cui è lecito sostenere che si sta parlando di una questione molto più ampia rispetto all’attuale livello del dibattito. Il primo aspetto da considerare è che l’indice di frequenza infortunistica tocca ancora oggi vette altissime e si traduce in leva perfetta per un indice di gravità che, nonostante il rischio molto elevato, si attesta comunque su percentuali più contenute.
Il secondo aspetto da sottolineare è che il confronto sociale, osservati questi numeri, rimane come spesso accade in superficie. È infatti necessario spostare l’attenzione sulle conseguenze e le ricadute che tutti gli infortuni proiettano sui lavoratori e sulle organizzazioni in generale. Inoltre è quanto mai opportuno approfondire le contromisure da adottare per limitare numeri così impattanti.
Ma se come dice Damiano non è prioritario cambiare la norma, quali sono gli interventi urgenti da apportare?
Niente multe: la sicurezza sul lavoro “andrebbe insegnata a scuola”
La soluzione più ovvia, come sostengono a più riprese esperti autorevoli e tutti i politici ogni qualvolta una tragedia si affaccia sulla stampa generalista, sembra essere l’inasprimento delle sanzioni e l’implementazione massiva di rigidi controlli ispettivi.
“Anche no. Nel senso che questa è la retorica che va per la maggiore, un trend culturale e nazionale che a parer mio suona piuttosto demagogico”. Andrea Buti, avvocato e mediatore, è convinto che il diritto non sia l’unica strada da perseguire per risolvere i problemi sociali, anche in materia di sicurezza. “Il mio approccio si è evoluto nel tempo, orientandosi sul comportamento delle persone. Non faccio una colpa a chi insiste con il mantra dell’inasprimento ma mi spiace, è un modello ormai sorpassato. Non è la sanzione che cambia l’approccio. L’istinto non si può reprimere se non si percepiscono alcuni comportamenti come pericolosi”.
In effetti per contribuire a disinnescare i meccanismi di passività, per cui la sicurezza è vista come mera responsabilità degli addetti ai lavori, RSPP o RLS che siano, nel ragionamento generale torna utile la famosa “piramide di Heinrich”. Che cosa dice questa teoria? Semplice: il 95% degli infortuni è legato a comportamenti non sicuri, per ogni evento grave ce ne sono trenta minori e trecento incidenti senza trauma. Quindi, lavorando sui comportamenti, diminuiscono le possibilità di potenziali infortuni e si riduce anche il rischio di episodi mortali.
“Appunto, per questo dobbiamo potenziare la sensibilità etica e la morale dei cittadini. Come? Sottraendo alle istituzioni scolastiche una parte di insegnamenti a favore di una palestra sui temi etici e di sicurezza”. Un percorso sicuramente molto lungo. “Certo. Per questo dobbiamo ragionare sul pensiero delle cattedrali di Telmo Pievani. I costruttori medioevali gettavano fondamenta ben sapendo di non essere destinati, per ragioni di tempo, a verificare il lavoro finito. Ecco, dobbiamo ragionare così”.
È questo che significa essere leader nell’ambito della sicurezza sul lavoro? “Dobbiamo intendere la safety leadership come processo orizzontale, invece che come caratteristica carismatica dell’individuo. In questo senso ci può stare. Così anche i preposti e tutti i lavoratori la possono esercitare, fosse solo per seguire il piano di inserimento di un nuovo assunto”.
Stefano Pancari, Rock’n’Safe: “Le sanzioni non servono, è dittatura dell’insicurezza”
Stefano Pancari è fondatore di Safer Agency, agenzia di comunicazione sulla cultura della sicurezza, e editore di Rock’n’Safe, webzine che si occupa della questione attraverso una modalità attrattiva e fruibile per tutti.
“La mia sensazione è che oggi ci siano tante belle idee di miglioramento. Però i sofismi li devi calare a terra nel quotidiano, ai leader dobbiamo fornire strumenti per occuparsi di un argomento così importante.”
Siamo sicuri che la figura del leader della sicurezza non sia una moda del momento, da cavalcare per obiettivi di promozione e marketing? In proposito mi viene in mente, quale esempio negativo, il tanto discusso CHO, manager della felicità. “Non nascondo che tante aziende sfruttano l’onda come ritorno di immagine. Se quella è la leva per un concreto miglioramento va pure bene, ma se l’intento risulta esclusivamente di facciata è grave. Però non credo sia il caso di parlare di singolo ruolo, anzi concordo nel dire che tutti i lavoratori devono prendersi cura della propria salute e di quella delle altre persone. D’altro canto lo afferma l’articolo 20 del testo unico sulla sicurezza sul lavoro”.
Anche se, bisogna dirlo, siamo abituati a un concetto di leadership diverso, magari calato dall’alto. “Questo è un problema, perché tante volte quando entriamo in azienda sembra che il rispetto della persona svanisca a favore della parte manageriale, della carriera, del business. Tutti aspetti fondamentali, per carità, ma bisogna trovare equilibrio tra performance e la relazione”.
Non a caso il j’accuse principale è nei confronti del profitto, dell’avidità dell’imprenditore che risparmia sulla sicurezza per motivi di lucro. “Quando è così, si tratta di errore marchiano del titolare. Perché la questione è sempre legata alla cultura. Ad esempio, nel prendersi cura degli altri c’è sempre interesse, sia da un punto di vista fisico che di benessere in generale. Una persona coinvolta nei processi aziendali restituisce senso di appartenenza alla squadra, forse riducendo anche il fenomeno infortunistico. Anch’io penso che la strada delle sanzioni non sia la via maestra, perché stiamo affrontando una dittatura dell’insicurezza. E le dittature si combattono con l’educazione”.
Un cambiamento culturale per la sicurezza sul lavoro, “ma l’80% delle aziende è inadeguato ai requisiti base”
La formazione ci salverà, insomma. “Non quella da catalogo. Serve un cambio di rotta di natura comunicativa. Con Rock’n’safe, progetto senza scopo di lucro, la finalità è di avviare un cambiamento culturale, perché c’è la necessità che la tematica venga chiacchierata anche nei salotti non convenzionali e non solo tra addetti ai lavori. Bisogna smettere di parlare di sicurezza in modo rigido; è bensì opportuno affrontare la disciplina tecnica con modalità diverse”.
E questo è, in soldoni, il compito del safety leader. Ma l’imprenditore? “È assurdo pensare che nella nostra società abbiamo tutta una serie di obblighi formativi, ma l’unico che non ne ha è l’imprenditore, spesso nemmeno a conoscenza dell’esistenza del testo unico. In molte PMI sono i consulenti esterni a colmare il divario. Il dramma è che il testo unico, nella sua declinazione, dà per assodato che lo standard minimo ci sia in ogni impresa. La realtà è che l’80% delle aziende ancora deve adeguarsi ai requisiti base. Questo genera un divario importante tra la disciplina normativa e la situazione attuale. Una voragine”.
Quindi, per chiudere il cerchio, qualche intervento andrebbe effettuato anche sulla normativa vigente. “Semplicemente per il fatto che il testo attuale vale tanto per la grande azienda quanto per la merceria sotto casa con una sola commessa. Un appiattimento trasversale insopportabile che rende il testo unico inattuabile in troppe attività italiane”.
L’articolo prende spunto dal panel “Quanto costa la sicurezza?”, che puoi seguire cliccando qui.
Photo credits: anvl.com
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