Le catene di abbigliamento per giovani hanno aperto la crisi (e la corsa allo sfruttamento) del ruolo di store manager, bistrattato dai superiori e in conflitto con i colleghi. Ne parliamo con Alessandro Martignetti di FISASCAT CISL e Chiara Ferrari di FILCAMS CGIL.
L’altra Scampia si chiama Chikù
Due ragazze tra i 13 e i 15 anni trasportano buste della spesa straripanti di pacchi di pasta, spezie e confezioni di pecorino romano, passano vicino la grande matrioska al ritmo delle canzoni reggaeton distorte da un volume eccessivo per i loro cellulari. Si muovono con la disinvoltura dei camerieri navigati tra i tavoli e […]
Due ragazze tra i 13 e i 15 anni trasportano buste della spesa straripanti di pacchi di pasta, spezie e confezioni di pecorino romano, passano vicino la grande matrioska al ritmo delle canzoni reggaeton distorte da un volume eccessivo per i loro cellulari. Si muovono con la disinvoltura dei camerieri navigati tra i tavoli e fanno velocemente la spola tra la dispensa e l’auto parcheggiata poco distante. Dalla cucina si percepiscono frasi in lingua romanes. Loro sono rom e probabilmente vengono dal campo che è a qualche centinaio di metri da lì.
Barbara non è ancora arrivata, io entro per chiedere informazioni e ancor prima che possa aprire bocca vengo accolto da una ventata di profumi balcanici e da una signora in grembiule da cucina girata di spalle che mi dice dice “state tranquillo, adesso arriva. Intanto lo prendete un caffè?”
Il culto del caffè a Napoli lo conosciamo tutti, così come Scampia di cui però forse abbiamo solo una presunzione di conoscenza donataci dal cinema e dalla tv. Sappiamo che è il cuore di Gomorra, il quartiere del “famm’ capì si me pozz’ fida’ ‘e te!”, il luogo delle faide e il centro dello spaccio.
Io ci sono stato e senza risparmiarmi dall’instagrammare le vele in cemento armato più famose d’Italia e nutrire un certo timore quando mi sentivo osservato dai gruppetti di ragazzi appoggiati sugli scooter agli angoli delle strade. Ho attraversato la villa comunale, quella sul cui accesso è tatuato il titolo di una canzone di Enzo Avitabile “Quando la felicità non la vedi, cercala dentro” (e già questo basterebbe per alimentare i pregiudizi con i quali ero partito) poi, dribblando i murales del Pibe de oro e di Ciro Esposito, sono arrivato davanti il vecchio auditorium di quartiere, oggi tristemente in disuso.
Una piazza con un bar, la sede di qualche associazione, un negozio di cartucce per stampanti, il commissariato di polizia e un piccolo tunnel che si snoda tra architetture squadrate. Percorrendolo ci si imbatte in un terrazzo con una decina di tavoli apparecchiati e un’enorme matrioska a fare la guardia.
È la sede di Chikù che a sua volta è un po’ ristorante e un po’ matrioska.
Poco dopo arriva Barbara, un avvocato che “ha iniziato a lavorare a Scampia per caso e ci è rimasta per scelta”.
La sua storia inizia quasi vent’anni fa, con una baracca inevitabilmente abusiva costruita nel centro del campo per ospitare il gruppo “Chi rom e chi no” – i più arditi sostengono che, tradotto in napoletano, possa anche voler intendere chi dorme e chi no, e un progetto con l’ambizione di sostenere e creare relazioni tra due comunità arrivate a Scampia contemporaneamente all’inizio degli anni ‘70. Tra le vele e il campo c’è il “lotto P”, quello con la statua del Cristo a braccia aperte, set di tante scene televisive. È un quartiere all’interno del quale si incontrano solo donne e bambini e il motivo è tanto semplice quanto inquietante: i maschi sono morti o in carcere.
All’inizio del 2000 offrivano consulenze, doposcuola, attività ricreative e culturali per ragazzi rom e napoletani. Una piccola rivoluzione che, come tutti i progetti, si è rinnovata negli anni anche intorno a tavoli imbanditi. Banchetti ibridi, dove il più classico dell’ “ognuno porti qualcosa” dava vita a una mescolanza di sapori e tradizioni con menù a base di fritture e spezie.
Dalla Campania, la Kumpania: storia di un’impresa sociale
Lì, mi dice Barbara, con Emma Ferulano ed altri amici, nel 2010 è stata concepita la Kumpania. Un’idea che dopo aver ricevuto diversi premi internazionali ha deciso di convertirsi in impresa sociale che oggi dà lavoro a 7 persone, 4 napoletani e 3 rom.
È nato così Chikù (crasi tra Chi rom e chi no e la Kumpania), uno spazio fisico concesso in comodato d’uso gratuito fino al prossimo settembre per sperimentazioni pedagogiche e gastronomiche multiculturali, casa e culla dei due progetti da cui prende il nome.
La nostra chiacchierata viene più volte interrotta, consulenze legali offerte tra le mie domande e la preparazione del pranzo e poi un gruppo di 20 scout genovesi arrivato per aiutare a sistemare il giardino e toccare con mano una realtà complessa raccontata sempre dalla medesima prospettiva.
Nei due piani del ristorante gestito dalla Kumpania alle 12.00 si muovono veloci quasi 40 persone, ciascuna con un compito preciso ma, paradossalmente, nessuno di loro è cliente. La tavola è apparecchiata, le due ragazze hanno portato a termine la loro mansione, ma serve a dare ristoro agli scout e la cucina è pronta a servire i primi.
Torno a parlare con Barbara e i problemi che affliggono Chikù non tardano a essere serviti sul piatto della discussione. Tutti a Napoli apprezzano l’idea e il lavoro de la Kumpania, persino la manovalanza vicina alla camorra – mi dirà Biagio poco dopo – li stima perché vede in loro un’alternativa concreta per il futuro dei loro figli. Ma tra l’apprezzare e il sostenere c’è la stessa distanza che separa Piazza del plebiscito dai Balcani. La Kumpania non ha l’ambizione di fatturare miliardi, ma ad oggi, nonostante una storia che li ha portati spesso ad apparire su testate nazionali, riescono a proseguire il loro cammino grazie a bandi per l’inclusione sociale e qualche donazione privata.
E poi Scampia non è San Gregorio Armeno. Le vele non sono un luogo di passaggio né tanto meno turistico e la fama che si è costruita nel tempo ha, nella maggior parte dei casi, contribuito a far crollare i buoni propositi di un pranzo domenicale e solidale a vantaggio di una più tradizionale pizza in centro. L’apertura del polo universitario prevista per il 2020 a pochi passi da lì, e contestualizzata in un piano di riqualificazione più ampio di tutto il quartiere, lascia ben sperare per il futuro ma i punti interrogativi sono troppi e le utenze non si pagano con la punteggiatura.
E così i progetti si sommano, si intrecciano tra loro cercando di aprire nuove linee di profitto che non rinneghino lo spirito originale come in una scatola cinese, o per meglio dire una matrioska, di cui Chikù è solo la scorza. Sempre più attività, più idee, ospitate dallo stesso luogo e portate avanti dalle stesse persone che cercano di scavalcare con il cibo e la delicatezza il muro della diffidenza. Quasi chiedendo: “è permesso?”.
E solo andando al campo rom, attraversando la piazza del Cristo a braccia aperte e passando davanti le camionette dell’esercito, si capisce l’altezza di quei muri. Il più tangibile è quello innalzato dagli odori che l’immondizia abbandonata selvaggiamente erige con arroganza, scoraggiando – come farebbe Cerbero – l’ingresso al campo.
Una volta oltrepassato, però, ci si ritrova non in un girone dantesco ma in un mondo dove la Kumpania è guida e ponte.
Biagio, tra i fondatori dell’associazione e dell’impresa sociale, conosce tutti. Mi dice di aver visto crescere le ragazze che ora cullano le carrozzine nei cortili e lungo l’unica strada sterrata che taglia in due il villaggio, viene salutato da sorrisi e braccia tese. Lo fermano continuamente chiedendogli informazioni sulle attività, sugli appuntamenti del mese, sui progetti in essere e quelli in divenire e “grazie” è la parola che si sente ripetere più spesso ma che si lascia scivolare addosso con la stessa delicatezza con la quale ha chiesto il permesso prima di entrare tanti anni fa.
Uscendo dal campo e ripassando quella barriera flatulente enfatizzata dall’afa di agosto, altri due ragazzi rom ci fermano. Erano sulla via del rientro dalla stazione, avevano accompagnato il padre per un viaggio in Francia che aveva come mèta un campo vicino Parigi nel quale vive un’altra delle figlie. Abbassiamo il finestrino e uno di loro, cercando di approfittare dei bocchettoni dell’aria condizionata, gli domanda: “Biagio, ma c’è qualche possibilità per me al ristorante? Voglio solo lavorare”. Biagio si divincola con risposte vaghe e rinnovando il suo impegno concreto a trovare una soluzione. Ripartiamo e poi, mentre pensavo a quanto i problemi purtroppo ignorino i muri e accomunino chi rom e chi no, lui quasi sottovoce mi confessa: “se avessimo voluto far soldi avremmo aperto un buco in centro. Qui rappresentiamo una speranza.”
Questo è Chikù, un po’ ristorante un po’ matrioska. Perché cura persone e culture usando il cibo come strumento di integrazione. Inglobando progetti e idee, avvolti dalla contaminazione e custodendo al proprio interno quella felicità che, come dice Avitabile, osservando Scampia, si rischia di non trovare.
Photo credits: Angelo Astrei
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