Anglo – Ciociari all’ombra del Big Ben

Da anglofilo dichiarato e impenitente quale sono, si capisce che abbia sempre provato ammirazione e invidia per la qualità del discorso pubblico all’ombra del Big Ben. Ecco, tanto per non allontanarci troppo, prendete un qualsiasi Q&A nell’aula dell’adiacente palazzo di Westminster, insomma il botta e risposta tra il primo ministro e i deputati che lo […]

Da anglofilo dichiarato e impenitente quale sono, si capisce che abbia sempre provato ammirazione e invidia per la qualità del discorso pubblico all’ombra del Big Ben. Ecco, tanto per non allontanarci troppo, prendete un qualsiasi Q&A nell’aula dell’adiacente palazzo di Westminster, insomma il botta e risposta tra il primo ministro e i deputati che lo interpellano sui temi più vari. Un ping pong di battute infuocate, un incrociarsi di motti di spirito e dati di fatto, la sferza del sarcasmo ai danni dell’avversario ma sempre il candeggio della semplicità a beneficio dello spettatore. E soprattutto l’occhio all’orologio: domande e risposte non devono durare più di due, tre minuti ognuna, il che significa sintesi, concisione e chiarezza espositiva, nonché una buona dose di spettacolo. Insomma l’esatto contrario del verboso e sonnacchioso “Question Time” del nostro Parlamento.
Ma non si tratta solo dell’abituale tediosità dei nostri politici.

Le virtù della comunicazione e di un uso decente dell’ars retorica sembrano essere curiosamente venute a mancare nella patria di Cicerone. I rapporti dei grandi ambasciatori della Repubblica di Venezia continuano a raccontarci con meravigliosa lucidità il mondo di qualche secolo addietro ma ai diplomatici dell’Italietta corrente il Ministero degli Esteri sconsiglia con silente fermezza di pubblicare libri sulle loro esperienze. Per larga parte della classe dirigente romana trincerata nei circoli sui lungotevere, l’estero comincia a Settebagni. Dove almeno, per fortuna, si parla la stessa lingua.
Siamo onesti: la riluttanza a impratichirsi di idiomi stranieri – foss’anche il pidgin english necessario a chiedere un caffè – non è prerogativa esclusiva di politici e burocrati.

A dispetto di tutte le chiacchiere sulla globalizzazione, non è che la comunità degli affari se la cavi molto meglio. Eccezion fatta per i vertici delle grandi aziende, molto spesso cresciuti in importanti scuole inglesi o americane, il resto dei nostri businessmen sembra considerare la lingua di Shakespeare uno degli inconvenienti del viaggio, proprio come la mancanza di un decente caffè o la rinuncia forzata a un buon piatto di pasta asciutta.

Fazio, l’anglo-ciociaro

Indimenticabile, una dozzina d’anni fa a Londra, la cerimonia per l’assegnazione del premio Keynes-Sraffa, un riconoscimento anglo-italiano allora alla sua prima edizione. I prescelti erano i due governatori delle rispettive banche centrali, il nostro Antonio Fazio e Sir Eddie George. Creato a fine carriera Baron George of St.Tudy, Eddie era probabilmente l’uomo più spiritoso che abbia mai guidato la Bank of England. Figlio di un modesto impiegato delle Poste di Sua Maestà, si era guadagnata una borsa di studio alla Dulwich School, e aveva fatto il servizio civile presso il Centro per Linguisti delle Forze Armate. Tanto per non perdere tempo, lì aveva imparato il russo (oggi forse si sarebbe esercitato con il mandarino).

Purtroppo fu Fazio a prendere per primo la parola, stremando l’uditorio. In italiano ? Magari. Quasi quaranta minuti di discorso, letto monotonamente in un linguaggio incomprensibile per la maggior parte dei presenti. Si trattava – si capì infine- di anglo-ciociaro, e la scoperta indusse molti dei presenti a interrogarsi sull’efficacia del periodo di studio trascorso da Fazio al MIT di Boston. Toccò finalmente a sir Eddie. D’accordo, partiva col vantaggio della lingua, ma che meraviglia quei cinque minuti ( non di più) di scoppiettante analisi del presente conditi di humour e alleggeriti, perfino nei passaggi più delicati, da complici risate.

D’accordo, lo humour non è il nostro forte, siamo portati piuttosto al melodramma. Ma se cercassimo almeno di migliorare l’inglese? Ho sentito a un’importante cena d’affari, ospitata al Royal Polo Club di Windsor, il presidente della più grande azienda pubblica italiana dare il benvenuto ai partecipanti leggendo tre foglietti in tosco-americano (eppure, secondo il curriculum, anche lui si era specializzato al MIT: che razza di lingua parlano, da quelle parti?).

Il business english e l’universo linguistico

Dice: ma anche i francesi si rifiutano di adoperare l’inglese perfino negli incontri internazionali, vedi il presidente Chirac che lasciò un meeting della Confindustria europea quando il capo degli industriali francesi rivolse alla platea un cordiale “good morning, ladies and gentlemen”. Ma i francesi lo fanno in nome di una decaduta grandeur, mentre per tanti dei nostri “capitani coraggiosi” in trasferta all’estero vale il contrario, ovvero l’incapacità di superare gli steccati del nostro antico, e arrogante, provincialismo. Una lingua è la chiave che spalanca universi non solo culturali ma anche sociali ed economici: difficile fare buoni affari se invece di saper usare la koiné universale che è oggi l’inglese, devi ricorrere al traduttore.

Per nostra fortuna, ci sono quelle centinaia di migliaia di ragazzi che la crisi ha spinto a prendere le valigie per volare a Londra o a New York. Sono gli imprenditori di domani, anzi molti già di oggi, e non sono soltanto digital natives ma anche – forse pure più importante- anglofoni nativi. Davvero, come insegna Sant’Agostino, ex malo bonum. E scusate il latino.

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