La logistica: la funzione aziendale più “bassa”, il collo di bottiglia di tutte le disfunzioni di un’impresa. Peccato sia di fatto quella più vicina al cliente, in effetti. Molto più vicina al cliente del Marketing, della produzione o di altre funzioni più nobili. E’ quella con la quale il cliente spesso ha il contatto diretto […]
Apple Crush: quando la lotta per l’attenzione schiaccia la creatività
Il caso del recente spot per l’iPad Pro, in cui una pressa distrugge dei simboli della creatività umana, ha suscitato diverse critiche e accresciuto le vendite del prodotto: è un esempio dei modi in cui i grandi marchi aggirano il calo endemico dell’attenzione del pubblico
Una serie di studi afferma che l’attenzione umana si riduce al moltiplicarsi dei canali e dei contenuti, e l’advertising dei beni al consumo è tra i primi settori a utilizzare questi studi per ridefinire le proprie logiche creative e performative.
Connettendo i risultati delle ricerche – sempre più mirate – sul fenomeno attenzione e sulle metriche per misurarla, diventano più chiare le dinamiche dei titoli clickbait, la manipolazione della comunicazione politica, nonché le strategie di marketing e le scelte creative della pubblicità. Abbiamo provato a leggere con la lente delle ricerche sull’attenzione la strategia di Apple per il lancio del nuovo iPad Pro (e i suoi risultati economici), allargando la riflessione anche al picco di attenzione suscitata dalla condivisione virale dell’immagine All Eyes On Rafah, che ha contribuito a sensibilizzare un vastissimo pubblico all’acuirsi del massacro della popolazione della striscia di Gaza negli ultimi nove mesi.
Ne viene fuori un panorama in cui l’attenzione a come viene sollecitato il nostro interesse a temi e prodotti è più urgente che mai. Ma andiamo nel vivo, esaminiamo un caso di declinazione dell’economia dell’attenzione.
Apple e l’emotional branding: vendere (attraverso le) emozioni
Poco più di un mese fa la Apple ha lanciato la nuova versione di iPad Pro, e ha affidato a uno spot, intitolato Crush, il compito di sintetizzarne i benefici. Chiunque lavori in comunicazione ha mangiato pane e Apple, e sa come il colosso tecnologico statunitense sia un punto di riferimento per i comandamenti dell’emotional branding: la sintesi di approcci, simboli e attività che crea una connessione emotiva con il brand.
L’emotional branding di Apple ha generato tra community di utenti e l’azienda di Cupertino una relazione così solida e soddisfacente da non essere messa in discussione dai prezzi sempre elevati o dalle inchieste sullo sfruttamento della manodopera nei Paesi in cui vengono assemblati i prodotti. Da 40 anni Apple vende tecnologia associando emozioni positive all’idea di possederla. Ci convince che i dispositivi Apple ci migliorano la vita, ci permettono di realizzare i nostri sogni, facendoci pure sentire differenti da chi non usa lo stesso brand.
Per ogni categoria di dispositivi prodotta dal colosso creato dal compianto Steve Jobs c’è almeno un memorabile spot, ed è lo stesso per l’iPad, che ha edificato la percezione di estrema usabilità e leggerezza nel 2013, quando per il lancio della versione Air, una matita veniva tagliata con un laser fino a scoprire che dietro vi si nascondeva il sottilissimo dispositivo, pensato per racchiudere la portabilità di un cellulare con la potenza di elaborazione di un computer.
Gli “Apple people” sono molto soddisfatti della loro dipendenza dai prodotti dell’azienda di Cupertino, specie i creativi di tutto il mondo, che considerano la tecnologia Apple indispensabile alla realizzazione delle proprie visioni e idee.
Fino a Crush.
Il caso Crush, lo spot della discordia di Apple
Crush (che tradotto in italiano significa sia “schiacciare” che “infatuazione”) è il titolo dello spot di lancio della nuova versione dell’iPad Pro, che ha suscitato altissima indignazione proprio nella comunità creativa di tutto il mondo.
Visto che la matita era già stata fatta a pezzi, per attirare e mantenere l’attenzione sul disvelamento della nuova versione del tablet, Apple ha deciso di mostrare come una potente pressa industriale frantuma in mille pezzi – fino a farli esplodere – tutti i supporti analogici della creatività, mentre il sottilissimo e potente iPad emerge dalla devastazione sulle note di All I Ever Need Is You di Sonny and Cher.
Artisti celebri, opinionisti, specialisti del marketing, di business, di pubblicità, di risorse umane hanno riempito account social, podcast e trasmissioni tv di commenti indignati sul cupo messaggio di distruzione dell’esperienza umana, schiacciata dalla tecnologia in generale e dall’intelligenza artificiale in particolare. Reed Morano, regista di Handmaid’s Tale, che di futuri cupi qualcosa ne sa, ha addirittura consigliato al CEO di Apple di analizzare l’umore generale degli utenti in relazione allo spot.
Il tema, più che caldo, è rovente.
I significati latenti e manifesti dello spot non sono l’unico carburante dell’attenzione collettiva all’azienda e al suo prodotto. Apple de facto ha ripreso l’idea di una campagna LG del 2008 per il lancio dello smartphone Renoir KC910, in cui sempre una pressa fa a pezzi tutti i supporti fisici necessari a vivere, divertirsi e lavorare, e si ferma per incorniciare il telefonino.
Ma come? Non solo Apple sbaglia, ma ora copia? Tecnicamente si, ma fa di più: si scusa, con una nota inviata dal vicepresidente del settore Marketing Communication all’autorevole rivista/blog Ad Age, ammettendo di aver mancato l’obiettivo di “celebrare sempre la molteplicità di modi in cui gli utenti si esprimono e danno vita alle loro idee attraverso iPad”. Alle scuse ufficiali segue il ritiro dalle tv della pubblicità di iPad Pro, ora visibile solo sul canale YouTube di Apple, sui social, e sui blog e profili di tutti coloro che ne stanno parlando.
Purché se ne parli: a forza di criticarlo, lo spot arriva ovunque
Non è finita qui: Samsung, principale competitor di Apple, utilizza la conversazione globale generata dallo spot per promuovere il suo tablet Galaxy S9 con Uncrush: la creatività non si distrugge. Nella pubblicità Samsung una musicista raccoglie la chitarra malridotta e sistemata alla meglio dopo l’incontro con l’infernale pressa dello spot Apple, ed esegue un pezzo da uno spartito visualizzato sul tablet della multinazionale sudcoreana.
Una storia avvincente, che inizia con una forte scossa e prosegue con uno sciame sismico nel quale si gettano milioni di persone che esprimono la propria opinione sul trend topic. Un contenuto visto e rivisto, commentato, rivalutato, considerato.
Utilizzando l’attenzione come metrica di efficacia degli investimenti di marketing, Apple ha generato una conversazione continua sul prodotto. E, al netto delle variazioni annuali, molte vendite.
Quanto ha venduto iPad Pro dopo le contestazioni?
E ora veniamo ai ritorni sull’investimento dell’operazione: dal 2010, anno dell’uscita dell’iPad, Apple ha rilasciato anche l’iPad Mini, l’iPad Air e l’iPad Pro, registrando un fatturato complessivo di quasi 55 miliardi di dollari nel 2023. Nel 2023 solo gli iPad hanno generato un fatturato di oltre 28 miliardi di dollari, pari a oltre il 7% del fatturato globale totale di Apple nell’ultimo trimestre dello stesso anno (fonte: Statista)
Nonostante Apple sia ancora il principale fornitore di tablet, è Android che viene utilizzato come sistema operativo da tutti i competitor che si sono affermati con i loro dispositivi tablet, offrendo prodotti a un prezzo inferiore. Di conseguenza, Apple ha visto diminuire la sua quota di mercato globale da circa il 60% all’inizio del 2011 a meno del 40% un decennio dopo.
Gli analisti prevedono un incremento delle vendite per l’anno in corso, anche se c’è una previsione di un lieve calo nel 2025 a causa della frequenza ridotta degli aggiornamenti dei dispositivi da parte dei consumatori. Gene Munster di Deepwater Asset Management ha ipotizzato una diminuzione del 2% nelle vendite per l’anno prossimo (fonte: Benzinga).
In sintesi, mentre lo spot ha generato una tempesta mediatica negativa, l’iPad Pro continua a registrare buone performance di vendita nel breve termine, con proiezioni poco meno ottimistiche per il futuro prossimo.
All Eyes on Rafah, o di come un’immagine falsa può parlare alle coscienze
L’esigenza di creare costante conversazione su un tema per catturare l’attenzione collettiva e influenzare comportamenti non viene interpretata solo dal mercato dei beni di consumo, ma produce risultati (ricchi di visioni contrastanti) anche su temi di rilevanza sociale e politica, come accaduto di recente per la foto All Eyes on Rafah.
Generata da intelligenza artificiale, impossibile da attribuire con precisione ai due co-creatori con Template Microsoft e ricondivisa 50 milioni di volte secondo Instagram, è divenuta il simbolo dell’attivismo digital.
L’immagine ha polarizzato le discussioni tra chi afferma che tutto è utile per mantenere alta l’attenzione e l’interesse sul genocidio palestinese, e chi invece sottolinea come la quantità di immagini, video di devastazione e sofferenze atroci abbia desensibilizzato alla realtà dei fatti, generando un interesse momentaneo per un’immagine irrealistica che non giova alla causa.
La lotta per l’attenzione: sempre più rara, sempre più ricercata
L’attenzione umana è (sempre più) rara. Dominati dall’esigenza della performance produttiva, per cui il multitasking è stato sempre ritenuto essenziale, ricercato e addirittura insegnato, ora assistiamo a un lento e costante allarme di fondo su quanto esso impatti sulla capacità attentiva dell’essere umano.
Margaret Sibley, docente di psichiatria e scienze comportamentali presso la University of Washington School of Medicine, è specializzata nel lavoro con adolescenti e adulti affetti da disturbo da deficit di attenzione e iperattività, e riferisce che recentemente lei e i suoi colleghi siano consultati da persone che credono di avere ADHD. Intervistata ad agosto 2023 da Time, Sibley spiega: “Viviamo in una stanza piena di distrazioni per tutto il tempo, grazie alle richieste concorrenti del lavoro e della vita domestica, ai fattori di stress della società – come la pandemia – e alla costante tentazione di telefoni, social media e internet”.
Ma chi ha un bisogno disperato della nostra attenzione non è nuovo ai risultati di ricerche e report di parte, che indagano i suoi meccanismi e la ROI sul marketing di beni al consumo. È il caso dell’advertising, che misura l’attenzione con tecnologie che includono l’eye tracking, e confeziona da tempo contenuti pubblicitari la cui metrica principale di efficacia è proprio il tempo di permanenza dell’uomo sul contenuto.
La soglia di attenzione umana si riduce
“Se la vostra pubblicità passa inosservata, tutto il resto è accademico” affermava Bill Bernbach, uno dei padri fondatori dell’advertising del XX secolo, tra le figure ispiratrici del celebre Don Draper di Mad Men. Il suo tropo viene citato nei meeting di creativi almeno dal 2015, anno in cui l’Attention Span Study di Microsoft, dopo l’osservazione di 2.000 utenti, ha stabilito che l’attenzione umana ai contenuti si è ridotta da dodici secondi nel 2000 a otto secondi nel 2013; una conclusione che ha gettato brand e agenzie nel più profondo sconforto, salvo poi figurare negli anni successivi come un limitato contributo a un tema delicato.
Nel 2019 la rivista Nature ha pubblicato i risultati di uno studio, condotto da un team di scienziati europei della Technische Universität di Berlino, dell’Istituto Max Planck per lo Sviluppo umano, dell’University College di Cork e del DTU, che presenta prove empiriche relative a una dimensione dell’accelerazione sociale, ovvero l’aumento dei tassi di cambiamento dell’attenzione collettiva.
Nel dettagliato articolo la professoressa Sune Lehmann di DTU Compute, centro internazionale di ricerca che indaga data science, intelligenza artificiale, internet delle cose (IoT) e smart society, dichiara: “Sembra che l’attenzione allocata nelle nostre menti collettive abbia una certa dimensione, ma che gli elementi culturali che competono per quell’attenzione siano diventati più densi. Ciò confermerebbe l’affermazione che è effettivamente diventato più difficile tenersi aggiornati sul ciclo delle notizie, ad esempio”.
Gli scienziati hanno studiato i messaggi di Twitter dal 2013 al 2016, i libri di Google Books risalenti fino a 100 anni fa, le vendite di biglietti del cinema andando indietro a 40 anni fa, e le citazioni di pubblicazioni scientifiche degli ultimi 25 anni. Inoltre, hanno raccolto dati da Google Trends (2010-2018), Reddit (2010-2015) e Wikipedia (2012-2017).
Le curve di attenzione collettiva data da ciascun elemento culturale sono sempre più intense e brevi; la ricerca utilizza un modello di economia dell’attenzione per indicare che queste esplosioni di attenzione collettiva sono determinate dall’aumento della produzione e del consumo di contenuti, influenzato, ma non determinato in modo esclusivo, dalla presenza delle piattaforme social all’interno del bouquet dei canali a disposizione.
Su queste ricerche sull’attenzione umana da tempo si costruiscono strategie di marketing, content strategy e campagne di advertising e PR, come testimoniano la Guida al marketing dell’attenzione resa disponibile da IAB Europe e il report Economia dell’attenzione: esplorazione della nuova currency dell’advertising del network globale di agenzie di comunicazione Dentsu Aegis. Perché per i big brand è inconcepibile passare inosservati.
In sintesi, possiamo dire che siamo nel bel mezzo di diverse battaglie per la conquista della nostra attenzione. Ed è davvero il caso di stare attenti.
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Photo credits: fotogramma dallo spot “Crush” di Apple
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