Arquata: il miraggio della ricostruzione

Le scosse del 24 agosto e del 30 ottobre 2016 hanno polverizzato quasi interamente il territorio di Arquata del Tronto. Dopo un lungo periodo trascorso nelle strutture ricettive della costa, sono iniziati da giugno 2017 progressivamente i primi rientri nelle  SAE, Soluzioni Abitative d’Emergenza. Quello che sembrava dovesse rappresentare una partenza, dopo la distruzione, si […]

Le scosse del 24 agosto e del 30 ottobre 2016 hanno polverizzato quasi interamente il territorio di Arquata del Tronto. Dopo un lungo periodo trascorso nelle strutture ricettive della costa, sono iniziati da giugno 2017 progressivamente i primi rientri nelle  SAE, Soluzioni Abitative d’Emergenza. Quello che sembrava dovesse rappresentare una partenza, dopo la distruzione, si è trasformato in un traguardo senza via d’uscita.

La popolazione vive nel miraggio della ricostruzione, che non conosce cantieri aperti nel territorio di Arquata, così come in tanti altri nella Regione Marche. Dopo lo scandalo della gestione della ditta PicenAmbiente, sarà la Cosmari a prendere l’impegno di proseguire nell’iter della rimozione. Sinora, ad Arquata del Tronto sono stati rimossi 228.484.855 kg di macerie, su un totale di 274.559.205 kg nella provincia di Ascoli Piceno. Coprono difatti l’83.22 % delle macerie nell’Ascolano.

Nella totalità di tredici frazioni, ad Arquata del Tronto sono ancora in piedi soltanto Colle e una parte di Spelonga, facenti parte del Parco dei Monti della Laga. Le altre frazioni sono state spazzate via dalla furia di un terremoto mai ricordato. Il resto sembra averlo completato l’incuria, la disattenzione, l’indifferenza e scelte non idonee al territorio che avrebbe dovuto accoglierle.

 

Voci dal terremoto: le SAE non sono casa

Tutti i villaggi SAE sono uguali. Nascondono le loro fattezze dietro a colori pastello alternati, ma non vengono percepiti come case dagli abitanti, né tantomeno avvicinabili all’idea e all’atmosfera dei paesi che non ci sono più.

“Personalmente ho cercato in tutti i modi di rendere e sentire mia la casetta, e anche di riconoscere il villaggio come il mio nuovo paese”, racconta Luigia D’Annibale. Vive nell’area di Borgo 1, insieme a suo marito, sradicata dal suo paese Trisungo e costretta dalle circostanze a vivere in una  SAE, così come gli assegnatari delle altre casette. “Con il passare del tempo però mi sono resa conto che questi villaggi non possono sostituire i nostri paesi perché sono tutti uguali, mancano di personalità, di storia e tradizione e di volti. A me manca tanto il mio paese, alzarmi la mattina e sentire il suono delle campane, il chiacchiericcio dei passanti sotto casa, il rumore dello scorrere delle fontanelle e del fiume e, tanto, il profumo di legna dei camini accesi.”

L’impressione immediata è che tali villaggi rientrano in un’ottica di meri dormitori, nei quali per la maggior parte delle persone non riesce a emergere un barlume di vita sociale.

 

 

“Per quanto ci si sforzi di ricreare piccole comunità ci si sente soli”, continua la signora Luigia. “Mancano i luoghi, gli angoli, manca la mia casa dove ho visto crescere le mie figlie, l’angolo con il camino dove mi rilassavo a leggere, scaldata dal tepore di una fiamma scoppiettante che mi teneva tanta compagnia.”

Per chi non ha mai vissuto in montagna, così come chi non è stato colpito da un dramma sconvolgente come quello di un terremoto che distrugge la certezza della tua casa, della tua comunità, della tua storia, potrebbe giudicare banali le parole di Luigia, che si specchiano in quelle di ogni terremotato. Fa eco ai suoi pensieri Alessandro Paci, che vive nel villaggio di Piedilama con sua moglie Roberta e i suoi quattro figli: “Non ci sono spazi esterni vivibili, la privacy non esiste più, non c’è un box che funga da rimessa. Manca quello che ho sempre cercato da quando sono venuto a vivere quassù, pur non avendo una casa di proprietà. Possedere una casa che avesse uno spazio all’esterno per me era vitale; ora mi sembra di vivere in un appartamentino in montagna senza fare una vita di montagna, e in un villaggio che, per l’aspetto estetico, con la montagna non ha nulla a che fare.”

 

Che cosa alimenta la paura di chi oggi vive all’interno delle SAE?

Sono stati numerosi i piccoli guasti, i difetti, i deterioramenti, le valutazioni scellerate e inadeguate a luoghi con un’altitudine che spazia dai 600 ai 1000 mt.

Spesso gli stessi proprietari, esasperati dall’attesa dell’arrivo dei tecnici per l’assistenza, hanno provveduto individualmente a sopperire alle mancanze con l’obiettivo di rendere tollerabile l’esistenza all’interno di una soluzione abitativa d’emergenza. L’inquietudine che negli animi di chi vive nel disagio è quella della paura del futuro, di una ricostruzione che non ha gettato ancora alcuna fondamenta.

Le  SAE sono diventate una provvisorietà a lungo termine, senza scadenza specificata. Non forniscono spazi collettivi, obbligano a vivere l’uno a ridosso dell’altro. Come riparte una comunità così gravemente ferita senza farsi trascinare dall’ondata emotiva di rassegnazione, dinanzi a un totale vuoto di proposte concrete da parte di chi ha il dovere di prendere decisioni?

Mancano diversi fattori, che non sono presi mai seriamente in considerazione. Nelle aree  SAE mancano gli abitanti delle seconde case, che si intrecciavano ai borghi montani, diventandone parte integrante e per la sostenibilità e le attività del luogo. Durante i fine settimana, e a lungo per i mesi estivi, tornavano ad animare i paesi. La vita in montagna contava nell’indispensabile legame di comunità. “Per noi non era una seconda casa, era quella dei nostri genitori e nonni”, confida Giovanna. “Nessuna Istituzione comprende fino in fondo che anche noi abbiamo perso tanto e vorremmo tornare a far parte dei nostri borghi”.

Sono scomparse quelle attività storiche che simboleggiavano lo scandire della quotidianità di Arquata del Tronto, come il forno Cappelli, situato a Borgo, che giace dilaniato da lesioni insanabili. La gran parte delle attività commerciali sono state spostate nella Cittadella di Pescara, e nelle altre aree non rimane quasi nulla.

Il turismo mordi e fuggi, che forse non sarebbe poi così ideale per chi vive ai bordi delle macerie e in spazi ben definiti, quello di chi trascorre soltanto qualche ora in questi luoghi, non è necessario per la ripartenza e la rinascita. Sono tutte quelle persone legate umanamente e affettivamente a quei paesini che non ci sono più, che potrebbero trascorrervi fine settimana e i periodi legati alle feste, soggiornando e recandosi presso le attività commerciali, artigianali, agricole, riportando convivialità in quei territori così danneggiati.

“Ho la speranza di vedere ricostruito tutto ciò che si è perso – rivela Luigia D’Annibale – ma mi rendo conto che è tutto un miraggio, perché la ricostruzione di cui tanto si parla non è mai partita e fino a adesso si sono viste creare solo strutture sterili che faranno, a mio parere, la fine di cattedrali nel deserto.”

“Da come procedono le cose”, dice Diego Quattrociocchi, un giovane che vive nell’area di Pretare, “non prevedo che in breve tempo possa cambiare qualcosa. Sarebbe ora di far partire la ricostruzione. Invece, ad esempio, hanno chiesto nuove analisi sul terreno di Pretare e Piedilama, ritardando tutto per almeno un altro anno. Questa zona è costruita su una frana millenaria: mi chiedo allora come hanno fatto a costruirci le SAE. Siamo davvero in sicurezza? Nella vita quotidiana delle SAE manca la vita sociale che c’era un tempo, e purtroppo abbiamo perso quel poco che avevamo prima del terremoto. Queste casette di legno non possono e non devono rappresentare il nostro futuro e quello dei nostri borghi”.

 

La voce flebile di chi resiste, in attesa della ricostruzione

In un territorio distrutto, nel quale la quotidianità ha cambiato volto e stile, il supporto psicologico dovrebbe essere un punto focale della rinascita.

Le persone sono abbandonate a loro stesse. Non basta costruire “cattedrali nel deserto”, come ricordava Luigia: l’individuo è composto da pensieri, emozioni, paure. Il termine “resilienza”, la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, è stato abusato, inserito in ogni contesto.

Nessuno si è assunto la responsabilità di accertarsi dei rischi psicologici che possono innescarsi nella salute dei singoli individui colpiti da traumi come il violento sisma del 2016, assicurando un’équipe itinerante che potrebbe visitare periodicamente le persone che ne manifestino necessità. Le tipologie di intervento potrebbero essere diverse. L’elaborazione del trauma potrebbe fondersi sulla memoria e sulla narrazione delle persone, attraverso laboratori esperienziali o espressivi, con un valido sostegno psicologico individuale e di gruppo.

Le comunità dovrebbero lavorare su un processo condiviso di crescita, basato sull’incremento della propria consapevolezza dopo una sollecitazione traumatica così forte. Il sostegno psicologico che mira alla ricostruzione della persona deve passare attraverso il nuovo processo comportamentale della comunità. Il rischio che la vulnerabilità causata dal trauma possa danneggiare la capacità di adattamento e la relazione con gli altri è elevata.

“Vorrei vedere nella gente la voglia di ricominciare, con il desiderio di proporre idee, l’interesse a suggerimenti che incontrino le esigenze di tutti”, confessa Alessandro. “Ci sarebbe bisogno di maggiore sensibilità. Sento che manca quella serenità che avevamo prima. Per poter far evolvere questi luoghi dobbiamo tornare a sentirci membri tangibili delle nostre comunità”. 

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