“Assunto per tre mesi, licenziato con una telefonata”: se Amazon tratta meglio i pacchi dei lavoratori

Turn over esasperato e saccheggio dei somministrati: analizziamo le ragioni del primo sciopero nazionale dei lavoratori Amazon del 22 marzo, con testimonianze di ex dipendenti e sindacati.

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Quel pacco che arriva a casa l’ha preparato uno dei 20.000 lavoratori della logistica, la metà dei quali ha un contratto di somministrazione: non è alle dipendenze dirette di Amazon, ma entra in azienda attraverso agenzie interinali con contratti precari, spesso a orario ridotto e a tempo determinato.

Primo sciopero dei lavoratori Amazon: “Clienti, non acquistate”

Il motivo dello sciopero e delle rivendicazioni sindacali di FeLSA CISL, NIdiL CGIL e UILTemp per questa tipologia di lavoratori è chiara: Amazon trovi le giuste soluzioni per i 10.000 somministrati, e anche le agenzie per il lavoro – coinvolte nel processo di selezione del personale – dovranno dare risposte in termini di parità di trattamento, sulla continuità occupazionale e sui problemi abitativi di chi decide di trasferirsi per lavorare in Amazon.

Non è stato facile, per chi lavora con un contratto a scadenza, esporsi personalmente in uno sciopero: le stesse organizzazioni sindacali hanno sottolineato il coraggio di lavoratrici e lavoratori in somministrazione, che nonostante il ricatto occupazionale per il rinnovo del loro contratto hanno partecipato comunque alla prima manifestazione nazionale dei lavoratori del colosso della gig economy.

Amazon conta solo in Italia circa 40.000 lavoratori in tutta la filiera: lavoratori che hanno chiesto ai clienti di non acquistare nella giornata di lunedì 22 marzo, un giorno per certi versi storico e diverso da tutti gli altri.

Andrea Borghesi, NIdiL CGIL: “In Amazon turnover esasperato e zero garanzie sugli alloggi dei somministrati”

L’aumento degli acquisti online dei clienti rimasti a casa per la pandemia ha accelerato ancora di più non solo le vendite di Amazon, ma anche i ritmi di lavoro – già frenetici – degli operatori.

Andrea Borghesi è segretario nazionale della NIdiL CGIL, la categoria dei lavoratori CGIL che rappresenta e tutela i lavoratori atipici: collaboratori, autonomi, disoccupati e, appunto, somministrati. Anche loro hanno scioperato, non solo i dipendenti, nonostante la paura di non veder rinnovato il proprio contratto.

“C’è da considerare che negli hub e nei depositi di Amazon in Italia ci sono 20.000 lavoratori: 10.000 sono dipendenti diretti e gli altri 10.000 sono lavoratori somministrati. Chiediamo parità di trattamento soprattutto sul lavoro notturno, dove abbiamo verificato che ai somministrati non viene riconosciuta neppure l’indennità, a differenza dei dipendenti. E ancora: hanno contratti a tempo determinato da tre a nove mesi e orari di lavoro ridotti. Proprio per queste ragioni, scioperare per loro ha richiesto una buona dose di coraggio e di libertà nonostante il timore di non vedersi rinnovato il contratto.”

Quali sono le differenze sostanziali con gli altri lavoratori dipendenti? Guadagnano ancora meno dei loro colleghi? “In realtà la paga è di circa 9 euro netti all’ora, ma per i somministrati si pone la questione abitativa: molti arrivano da altri territori e la loro difficoltà nel trovare alloggio si lega anche alla precarietà della continuità lavorativa che Amazon non garantisce. Chiediamo che Amazon contribuisca a trovare un equilibrio attraverso aiuti individuali o attraverso politiche di housing sociale insieme ai comuni e alle istituzioni locali del territorio. Noi come NIdiL e altre categorie confederali dei lavoratori abbiamo aperto un confronto con le agenzie che somministrano i lavoratori ad Amazon per discutere di questi temi”.

Com’è il modello di reclutamento che viene utilizzato quando si parla di lavoro somministrato in Amazon? “La legge dà la possibilità di superare le percentuali previste da legge e contratto collettivo se si assumono lavoratori cosiddetti svantaggiati (per esempio disoccupati da almeno sei mesi); le agenzie ne reclutano tanti, ma li utilizzano per periodi brevi, e poi vanno alla ricerca di altri lavoratori in queste condizioni. A quel punto il raggio di azione della ricerca di disoccupati in condizioni di svantaggio si allarga sempre più, a partire dall’area dell’hub o del deposito, fino a cercarli molto lontano dal luogo di lavoro. C’è in Amazon un turnover esasperato tra i lavoratori somministrati e una ricerca continua di nuovo personale, senza garanzia di continuità occupazionale.”.

Luca, tre mesi in Amazon: “Dopo dicembre i colleghi sparivano e nessuno capiva perché”

In ogni transazione commerciale “spedita”, così, c’è il “mondo di mezzo”, prendendo in prestito un termine assai conosciuto dopo gli scandali di Roma. Solo che nel caso di Amazon il mondo di mezzo è rappresentato dai lavoratori della logistica che si trovano tra la richiesta del cliente e l’effettiva ricezione della merce: in quel mezzo c’è il vero mondo di Amazon, lavoratori che a ritmi serratissimi riescono a garantire tempistiche di consegna sconosciute alla concorrenza. Anche per questo il gigante dell’e-commerce ha spazzato via (quasi) tutti.

Luca ha lavorato in Amazon per tre mesi all’interno del centro di smistamento di Casirate, in provincia di Bergamo, e racconta a SenzaFiltro la sua esperienza all’interno del mondo della gig economy come ultimo anello della catena del lavoro:

Il mio primo contratto di lavoro è stato di quindici giorni, firmato con l’agenzia interinale Gi Group: poi due proroghe di un mese ciascuna. Tra un rinnovo e un altro, quando finivo il turno, al venerdì, con il contratto di lavoro ormai in scadenza, mi chiamavano direttamente il sabato pomeriggio per comunicarmi il rinnovo per un altro mese di lavoro.”

“Quello che mi ha colpito maggiormente è stato che i nostri referenti diretti non erano responsabili del processo di selezione: capitava che lo stesso caposquadra si sorprendesse del fatto che non trovava più il dipendente che aveva formato, e che non era più in reparto: abbiamo vissuto uno scollamento totale tra chi decideva e chi sul campo lavorava all’interno degli stabilimenti per formare i lavoratori.”

“Tutti quelli con cui ho lavorato l’hanno fatto nell’ottica di trovare un lavoro e di rimanerci: arrivando in Amazon in un periodo di crisi occupazionale generalizzata, gli interinali rappresentano una sorta di tappo per le aziende. Vista la mia carta d’identità, dove l’età supera i cinquanta, era difficile riuscire a trovare anche questo tipo di lavoro.”

Terminato il picco di dicembre per gli acquisti natalizi siamo passati da 700 a 350: persone con cui ho collaborato, che erano intraprendenti e valide sul lavoro, non c’erano più, spazzate via in un attimo, e la cosa che pareva più assurda era che non si capiva quale fosse il criterio nella scelta tra chi dovesse rimanere e chi dovesse restare. È un destino che può capitare a chiunque: tutti lavoravano al massimo perché tutti ci tenevano a mantenere il posto di lavoro, e la volontà di tutti era quella di rimanere in Amazon. ‘Algoritmo’ sarà anche un termine inflazionato, ma in Amazon, dove lavoravo io, veniva utilizzato in maniera massiva nella scelta di chi tenere e chi no.”

“Licenziato dopo tre mesi con una telefonata da uno sconosciuto. Mi sono sentito preso in giro”

“Il processo di selezione per entrare in Amazon è stato lungo sei mesi, dalla chiamata dell’agenzia interinale all’entrata in azienda: prima rispondi a un annuncio, poi fai il colloquio individuale all’interno dell’agenzia, dopo due mesi c’è un ulteriore colloquio, ma questa volta di gruppo con circa quindici persone di una squadra selezionata dall’agenzia interinale. Alla fine, se passi il colloquio, fai tre giorni di formazione in una struttura attigua, ma non all’interno della struttura Amazon. Dopo questi tre giorni di formazione in struttura, prima di entrare nel team di Amazon ho atteso altri tre mesi. Ho conosciuto diversi ragazzi che avevano raggiunto Bergamo arrivando dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Campania, impegnando soldi e tempo senza alcuna garanzia di essere assunti da Amazon. Perché non c’era nulla di garantito.”

“Poi un sabato pomeriggio, dopo tre mesi di esperienza, mi ha chiamato una persona mai sentita prima, a comunicarmi che da lunedì non avrei più lavorato in Amazon. Una chiamata impersonale fatta da una persona sconosciuta, e mentre con gli altri colleghi consegnavamo i nostri DPI abbiamo incrociato il nuovo team da selezionare per sostituire la nostra squadra.”

Mi sono sentito preso in giro, e da lì è nata la consapevolezza che avremmo dovuto cominciare a manifestare per i nostri diritti. Lo sciopero di lunedì scorso lo sento un po’ anche mio, ma quando lavoravo in Amazon i tempi non erano ancora maturi per organizzarlo.”

Gli effetti dei poli logistici sui territori e la mobilitazione di Amnesty International

Esiste un universo che non vediamo o non vogliamo vedere, fatto di magazzinieri che animano i grandi poli logistici, sempre inseriti in contesti di provincia, dove nella maggior parte dei casi l’offerta di lavoro viene spesso accettata, se non ad occhi chiusi, a discapito di altro. Nella provincia di Varese per esempio, i piccoli comuni capitanati dai rispettivi sindaci hanno protestato per la mole di rifiuti che si trovano a dover gestire dopo l’insediamento degli hub sui loro territori. Senza contare l’aumento del traffico dei furgoni bianchi, senza alcun segno distintivo esterno, che corrono – letteralmente – tra una consegna e l’altra.

Le nuove aperture di poli logistici in diverse parti d’Italia hanno visto molti primi cittadini applaudire all’arrivo di Amazon sui loro territori, sicuri di un aumento dei posti di lavoro e del conseguente indotto che la filiera avrebbe garantito. Più posti di lavoro, sì; ma a quali condizioni?

Anche Amnesty International si è mobilitata a difesa dei lavoratori di Amazon e del loro diritto di iscriversi al sindacato, ponendo l’attenzione sui temi della qualità del lavoro che non è solo di portata nazionale. Vedere queste persone rivendicare un diritto – quello di un lavoro dignitoso – rappresenta uno spartiacque.

Gli ultimi anelli della catena del lavoro rischiano di essere stritolati da un meccanismo che non fa sconti, se non ai propri clienti.

Photo credits: difesapopolo.it

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