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“Aziende affettuose”: il linguaggio del marketing cambia pelle
Il cliente come un amante da conquistare: diverse aziende stanno cambiando il linguaggio del marketing a favore di una comunicazione emotiva.
Forse non ci riflettiamo mai abbastanza, ma il linguaggio del management, e del marketing in particolare, è direttamente permutato da quello dell’esercito. I clienti sono dei “target”, i mercati dei territori da “conquistare” usando quei “baluardi” strategici che sono i punti di distribuzione da cui condurre “attacchi” alla concorrenza, vista come il “nemico” da sconfiggere. Le persone sono “risorse” da allocare, i fornitori “alleati” da sfruttare per “vincere” una presunta “guerra” che ci vedrà primeggiare sul mercato.
Questa metafora del “comando e controllo” è talmente spinta che in alcune aziende la gerarchia somiglia moltissimo a quella militare, con i dirigenti a giocare il ruolo di ufficiali e i dipendenti quello di soldati mandati in battaglia. Ma siamo sicuri che questo modello sia ancora efficace nei mercati moderni, per dialogare con un consumatore che nel tempo è radicalmente mutato?
Innamorarsi di un’azienda è possibile
Mi sono posto più volte questa domanda, nell’avventura imprenditoriale che mi vede impegnato a integrare l’etica nei modelli di business. Già dal 2013, con la ricerca sul tema della vendita etica condotta con Alice Alessandri, ho tentato di sradicare la convinzione consolidata che per ottenere risultati commerciali bisognasse essere cinici e spietati, dimostrando che i venditori più performanti sono coloro che sanno costruire fiducia e buone relazioni. Una nuova domanda però mi assillava: capire se i modelli più efficienti per fare business fossero esclusivamente quelli guerrafondai.
Non era solo una curiosità intellettuale a spingermi ad approfondire il tema, ma anche una ragione più pratica. Oggi, infatti, l’obiettivo delle aziende pare chiaramente quello di far innamorare il cliente: basta accendere la TV o sfogliare una rivista per rendersi conto di quanto, nelle comunicazioni pubblicitarie, si parli in modo sempre più esplicito di emozioni, e in particolare d’amore. Siamo dunque sicuri che ispirarsi all’esercito sia il modo più efficace di muovere il cuore dei mercati, o è soltanto un goffo errore, un po’ come andare a un appuntamento galante in mimetica e Kalashnikov?
Sono partito dall’osservazione delle realtà che ottenevano già il “magico” effetto di far innamorare i clienti. Le ho analizzate per capire quale linguaggio e quale modello di business adottassero, verificando se fossero in qualche modo diversi da quelli delle aziende cosiddette “classiche”. Nel corso di questo lavoro, durato più di due anni e che ha coinvolto circa 75 realtà e oltre 1.300 professionisti, mi sono reso conto che tali organizzazioni non solo utilizzavano un lessico diverso, ma anche processi e modelli ispirati a una nuova metafora: quella appunto dell’amore.
L’amore crea legami potenti, che generano risultati duraturi nel tempo, portando valore condiviso a tutti gli attori coinvolti nel processo. Ma esso va costruito e alimentato costantemente, seguendo vere e proprie strategie comportamentali. Come molti di noi sanno per esperienza diretta, a differenza di una momentanea infatuazione, un amore che duri non è frutto soltanto di passione o fortuna. Passando al contesto professionale, far innamorare i clienti, legare le persone che lavorano con noi, così come fornitori, partner e tutti gli altri stakeholder, è frutto di impegno paziente e di processi specifici.
Come funziona il Loving Business Model?
L’osservazione mi ha permesso di ricostruire i processi e codificare un modello di business che ha moltissimi tratti comuni con i meccanismi su cui si basano le relazioni tra persone, e che per coerenza ho ribattezzato Loving Business Model. Le organizzazioni che lo adottano hanno imparato che per suscitare amore negli altri è necessario partire dall’amore per se stessi, applicando così la legge della reciprocità: “Prima sei, poi offri e quindi ricevi”. È questa la ragione per la quale al centro del loro modello di business c’è il brand, ovvero l’essenza, l’identità frutto di valori e scelte condivise dalle persone che ne fanno parte.
Un altro elemento emerso con chiarezza rispetto al tema del brand è il fatto che oggi ciò che ci affascina delle aziende e della loro offerta non è la presunta perfezione o la millantata eccellenza, bensì la loro umanità fatta anche di difetti. Così come succede tra persone, sono spesso le imperfezioni ad aggiungere fascino e credibilità a un carattere. Ecco allora che le aziende in grado di far innamorare non nascondono i loro limiti, ma li rivendicano come caratteristiche del brand. Qualcuno tra i lettori più maturi si ricorderà le pubblicità dell’importatore italiano dell’Harley Davidson a firma di Carlo Talamo: delle vere e proprie poesie, scritte per esaltare le peculiarità/difetti di una moto fuori dagli schemi, che proprio per questo in brevissimo tempo fece innamorare migliaia di centauri.
Questo modo di guardare diversamente ai tradizionali strumenti di management e di marketing delle aziende love driven non si ferma soltanto al brand. Esse sanno che piuttosto che parlare di mission (un altro termine di derivazione militaresca) è meglio parlare di scopi. Uno scopo deve essere condivisibile, coinvolgente, non autoreferenziale, possibilmente “alto”. Queste organizzazioni hanno imparato che il profitto o la leadership di settore sono solo una conseguenza della creazione di valore, uno strumento e non un fine.
Secondo una ricerca di New Cone Communications, il 91% dei Millennials americani cambierebbe un brand con un altro, se quest’ultimo abbracciasse una causa. Il 64% dei consumatori globali afferma di scegliere i brand per le posizioni che prendono su questioni politiche e sociali. Ecco come si spiega il successo di realtà come Patagonia, che hanno fatto dell’impegno per l’ambiente il loro fattore differenziante.
Business in love: da clienti ad amanti
Parlando invece di rapporto con i consumatori, un aspetto fondamentale che contraddistingue un business in love è il guardare al cliente come a una persona fatta non soltanto di bisogni materiali da soddisfare, ma anche di sogni, desideri, speranze e valori da nutrire.
Alle vecchie analisi di marketing – che per definire il famigerato target prendevano in considerazione parametri come età, area di residenza, comportamenti ricorrenti, potere di spesa, etc. – vengono sostituite indagini basate sulle motivazioni profonde d’acquisto, capaci di trovare una risposta non soltanto alla domanda “cosa ti serve?”, ma anche a quella molto più sottile “perché ti serve?”. Anche l’offerta, di conseguenza, smette di essere soltanto un insieme di prodotti e servizi, per diventare sistemica, arricchendosi di elementi immateriali come l’esperienza e lo stile di relazione.
Chi agisce così attiva un vero e proprio effetto attrazione che lega ciò che l’azienda offre, espressione dei suoi scopi e del suo brand, con ciò che i clienti/persone sono pronti a ricevere, coerentemente con le motivazioni che li sostengono nelle scelte. Un esempio ante litteram dell’applicazione di questa strategia ci viene da Apple: un produttore di computer e telefonini che ha dato ai suoi clienti l’opportunità di “pensare in modo alternativo” (Think Different) e sentirsi protagonisti di una rivoluzione tecnologica.
Basta competitor: rivali in amore, non negli obiettivi
Anche il rapporto con la concorrenza esce trasformato, e quelli che chiamavamo competitor diventano “rivali in amore” che con-corrono per il cuore del cliente-amante. Correre insieme verso una meta è un’azione che ha molto più a che fare con il co-operare che con il misurarsi in battaglie all’ultimo sangue.
La pratica della concorrenza quindi, per le aziende fuori dalla logica militarista, porta a collaborare con gli altri attori di mercato per educare il cliente a riconoscere il valore materiale e immateriale delle diverse offerte. È la strategia di aziende come WholeFood, che ha saputo costruirsi spazio nel mercato apparentemente saturo della grande distribuzione alimentare statunitense alfabetizzando gli utenti a un consumo più responsabile e attento, a beneficio di se stessa e di tutti gli altri player.
Competendo in modo sano sul valore i concorrenti impareranno a farsi apprezzare per ciò che realmente hanno da offrire, allentando le morse di mercati sempre più spesso ingaggiati in battaglie all’ultimo sconto che finiscono per stritolare margini e qualità.
Collaboratori, il contributo dei valuegiver
Le aziende che abbiamo analizzato hanno superato l’idea che le persone siano soltanto risorse da allocare e distribuire, quasi si trattasse di una materia prima indistinta. La centralità dell’essere umano è invece fondamentale per esse, perché sanno che far innamorare chi collabora significa far innamorare il cliente.
Come ci ha confermato anche l’ultimo Welfare Index PMI, cambiare punto di vista nella gestione dei dipendenti significa aumentare la produttività (+6% media Italia), spingere in alto i fatturati (+10%), aggiungere ricchezza in ogni passaggio di quel processo che Porter, non a caso, chiamava catena del valore. Trattare i collaboratori come persone significa accettarne ed esaltarne le diversità, perché essere etici non significa trattare tutti allo stesso modo, ma adattarsi alle esigenze, alla professionalità e alla maturità del singolo, costruendo percorsi di crescita in grado di integrare gli scopi aziendali con le motivazioni personali.
In questa prospettiva si supera anche il concetto di stakeholder, o portatori di interesse, sostituendolo con quello più attuale e significativo di valuegiver: attori che aggiungono valore dando un contributo unico e irripetibile, se correttamente orientato e integrato, all’azione di mercato.
Le performance sul mercato delle “aziende affettuose”
Quali sono dunque i risultati concreti dell’applicazione di questi paradigmi? Per trovare una risposta è utile citare il testo Firms of Endearment (letteralmente “aziende affettuose”), che analizza le performance delle organizzazioni che adottano un business model ispirato all’amore.
Secondo gli autori queste aziende ottengono risultati in termini di fatturato, marginalità e capitalizzazione nettamente superiori. Non solo: esse hanno livelli di produttività più elevati, turnover del personale più basso, reputazioni più solide; inoltre attivano spontaneamente fidelizzazione e passaparola positivo trasformando i clienti in promoter.
Le Firms of Endearment hanno anche superato meglio le crisi senza subire drastici cali di fatturato e riprendendosi in modo sorprendentemente veloce. Anche il mondo spietato di Wall Street si è accorto di questo fenomeno, e infatti il comparto delle ESG (le aziende sensibili ai temi dell’etica e della sostenibilità) ha preso il volo registrando incrementi a due cifre (+27% nel biennio 2016-2018).
L’esperienza ci ha insegnato che cambiare lessico cambia il modo di fare business, migliorandolo. D’altronde, parafrasando Nanni Moretti in Palombella Rossa, “se parli bene, pensi bene e… fai successo”.
Foto di William Daigneault su Unsplash
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