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Boom dei voucher al sud, i dubbi di una rapida ascesa
Pur essendo presenti nel nostro panorama lavorativo dall’ormai lontano 2003, anno della legge Biagi, i voucher, meglio noti come buoni lavoro, hanno conosciuto di recente un’insolita popolarità. La scorsa estate infatti sono stati resi noti i dati Inps sulla vendita di questi strumenti di pagamento del lavoro occasionale: 50 milioni di voucher del valore di dieci euro nel […]
Pur essendo presenti nel nostro panorama lavorativo dall’ormai lontano 2003, anno della legge Biagi, i voucher, meglio noti come buoni lavoro, hanno conosciuto di recente un’insolita popolarità. La scorsa estate infatti sono stati resi noti i dati Inps sulla vendita di questi strumenti di pagamento del lavoro occasionale: 50 milioni di voucher del valore di dieci euro nel primo semestre 2015, il 74% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. A sorprendere anche i dati relativi al Meridione: nel sud Italia si è registrato un incremento superiore alla media nazionale, pari a oltre l’85%.
Come mai questo boom? Per arrivare a oggi è necessario allargare lo sguardo e fare qualche passo indietro. Innanzitutto, per voucher, o buoni lavoro, l’Inps definisce «un sistema di pagamento che i datori di lavoro possono utilizzare per remunerare prestazioni di lavoro accessorio, cioè svolte fuori da un normale contratto di lavoro in modo discontinuo e saltuario». I buoni hanno un valore di 10 euro ciascuno, corrispondente al compenso minimo per un’ora di prestazione e sono acquistabili in differenti modalità, dall’Inps al tabaccaio fino alle banche.
L’esigenza che ne aveva portato alla nascita con la legge Biagi era disciplinare anche quelle prestazioni non disciplinate da specifici contratti garantendo al lavoratore la copertura previdenziale e assicurativa, cercando così in qualche modo di contrastare il fenomeno del lavoro nero. La legge Fornero ha ampliato le tipologie di soggetti potenzialmente interessati da buoni lavoro e fissato a 5mila euro netti il compenso massimo annuo di un lavoratore da parte di tutti i suoi committenti. Cosa stabilisce invece il Jobs Act in merito? Attualmente il tetto massimo dei compensi annui complessivi è stato portato a 7mila euro, fermo restando che la cifra per prestazioni lavorative a favore di ciascun singolo committente non può superare i 2mila. A oggi i prestatori possono essere: pensionati, studenti di età inferiore ai 25 anni, destinatari di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito (ad esempio i cassintegrati), lavoratori part time e altre tipologie, come nel caso degli inoccupati o dei lavoratori autonomi. I subordinati non possono invece fare ricorso ai voucher.
A un primo sguardo insomma appaiono ampliati rispetto al passato sia i compensi massimi, il che vuol dire che ciascun lavoratore può usufruire di un maggior numero di buoni e quindi svolgere più attività, ma anche la cerchia dei cosiddetti «prestatori».
Abbiamo provato ad analizzare il fenomeno con Pietro Ichino, giuslavorista e senatore: «non sono in grado di rispondere con sicurezza sul boom dei buoni lavoro al sud. Posso solo ipotizzare che nel Mezzogiorno l’incremento di occupazione, che in Italia in questi mesi sembra accompagnare precocemente il ritorno alla crescita dopo anni di recessione, si manifesti in questa forma invece che in quella del contratto di lavoro ordinario, per i suoi minori costi. Un segno, comunque, della maggior debolezza dell’economia meridionale», afferma. Quando si parla di minori costi ci si riferisce, come spiega Ichino, alla «riduzione dell’incidenza del cuneo fiscale e contributivo», che «è nella natura e funzione stessa del voucher». Il problema è però un altro: «il punto è che l’ordinamento limita queste agevolazioni ai casi di lavoro accessorio, cioè a una fascia marginale della forza-lavoro.
Il sospetto è che nel Mezzogiorno si stia invece assistendo a una utilizzazione di questo tipo contrattuale anche per posizioni di lavoro sostanzialmente non marginali. Sta di fatto che questa forma semplificata di rapporto di lavoro negli anni passati aveva avuto una diffusione apprezzabile soltanto nel Nord-est del Paese, a fronte di una diffusione ridottissima al Sud. Il fatto che ora essa incominci ad avere una diffusione apprezzabile anche al Sud – se confermato – non costituirebbe di per sé un segnale negativo».
Sarebbe quindi importante capire per quali mansioni e tipologie di lavoratori sono stati utilizzati questi buoni lavoro, operazione possibile solo con l’analisi di dati disaggregati, al momento non disponibili. E soprattutto cogliere il cambiamento rispetto al passato anche sotto questo punto di vista. Per ora quindi ci sono solo dubbi e ipotesi, che si spera possano essere ben presto accompagnate da cifre concrete e dettagliate. La palla passa quindi all’Inps.
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