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Bruno Lamborghini: “Quel documento di Confindustria che boicottava ‘il Rosso’ Olivetti”
Il presidente dell’archivio Olivetti ed ex direttore dell’azienda Bruno Lamborghini riflette sul ruolo odierno della Confindustria e sulla sopravvivenza del modello di capitalismo olivettiano.
“La Confindustria attuale? Le posso ripetere in modo più argomentato e senza timori quello che ho detto sul palco del festival Nobìlita, mi pare rispondendo proprio a una sua domanda: la Confindustria nazionale così come è strutturata non ha senso di esistere, non ha una politica industriale e ormai è poco rappresentativa: non è un caso che la FIAT, per lungo tempo anima profonda della Confindustria, se ne sia andata, e che molte imprese ci restino a denti stretti. Il caso del contratto degli alimentaristi di cui mi parlava e la dissociazione da Confindustria di grandi e medie imprese su un contratto nazionale di lavoro la dice lunga sulla rappresentanza dei suoi vertici. Le associazioni locali legate a Confindustria che stanno sul territorio sono le uniche ad avere un senso; per il resto siamo lontanissimi dalla cultura e dalla filosofia olivettiana che permeò il nostro territorio a Ivrea, e che oggi ha tutte le chances per rinascere con le politiche di welfare di molte imprese italiane”.
Bruno Lamborghini ha 84 anni, è docente di Economia alla Cattolica, è stato il primo presidente del prezioso archivio Olivetti, ed è stato per anni direttore centrale dell’azienda di Ivrea, oltreché economista di impresa accanto al suo grande maestro Franco Momigliano.
Quando gli chiediamo di riprendere una conversazione interrotta a Nobìlita sul suo passato dentro il pianeta di Adriano Olivetti lo fa volentieri, e la passione con la quale racconta la sua esperienza non va confusa con la nostalgia. Anzi, a un certo punto della conversazione mi dice a bruciapelo: “L’unica cosa che mi ha fatto arricciare il naso del festival Nobìlita è quella scritta a proposito dell’Olivetti: ‘Quello che abbiamo perso’. In realtà avremmo dovuto scrivere ‘quello che abbiamo ereditato’, perché io sono convinto che l’eredità di Adriano Olivetti non sia affatto perduta. Anzi, direi che la filosofia liberista che ha dominato per decenni, anche in Confindustria, sta tramontando persino negli Stati Uniti patria del liberismo, e devo osservare che anche da noi si sta facendo strada una nuova forma di welfare aziendale. Direi quindi che quel conflitto che ha segnato gli anni Cinquanta tra Fiat e Olivetti, tra due concezioni di gestione della fabbrica e del territorio, è terribilmente attuale”.
Il diktat di Confindustria: “Boicottate Olivetti, è comunista”. Parola di Bruno Lamborghini
Il riferimento di Bruno Lamborghini è a quella lotta tra giganti che caratterizzò gli anni Cinquanta tra il capitalismo fordista degli Agnelli (che avevano in Vittorio Valletta e nella Confindustria di Costa la sua più eloquente rappresentazione, con l’idea dell’operaio massa, la fabbrica caserma e la verticalità del potere decisionale) e il capitalismo di Adriano Olivetti, che guardava alla catena del valore prima che al profitto, visto sempre come mezzo e mai come fine; dunque l’operaio come essere umano che partecipa e contribuisce a creare valore per sé e per il territorio in cui vive, dentro e fuori la fabbrica. Una concezione nella quale il sapere, e quindi la formazione e la conoscenza, facevano parte della catena del valore.
“Tenga conto – ricorda Bruno Lamborghini – che Adriano Olivetti fu il primo a introdurre la settimana corta a 45 ore e il congedo retribuito per le donne in maternità. E fu il primo a intuire il grande valore che ha il rapporto tra lavoro, scuola e cultura. Oggi si parla di sostenibilità e welfare aziendale; ne sono felice. Lui allargò il welfare al territorio, all’educazione dei figli dei dipendenti, alla formazione artistica e culturale, alle colonie. Tutto ciò per rendere più umano e gradevole il lavoro e per tentare di attenuare la separazione tra lavoro manuale e intellettuale. Tanto per farle capire quanto fosse anomala la sua formazione, le posso dire che non ha mai finalizzato la sua politica industriale al valore azionario dell’impresa, come abitualmente fanno le grandi aziende”.
Fu questa idea di fabbrica che infastidì l’establishment industriale dell’epoca? Ho letto che Laura Olivetti lanciò pesanti accuse ai padroni del vapore dell’epoca, mettendo anche in dubbio che alcuni neo-olivettiani siano autentici. Che cosa accadde allora?
“La prima cosa che infastidì la Confindustria di quegli anni, dominata dalla FIAT, fu il fatto che Adriano Olivetti non entrò nell’associazione industriali, non per un capriccio, ma perché non aderiva ai principi fondanti di Confindustria guidata da Angelo Costa. Ma soprattutto non digeriva la filosofia aziendale dominante di matrice FIAT, che organizzava la fabbrica come una caserma, con un uso sistematico delle schedature nei confronti dei sindacalisti e di chiunque si ribellasse all’ordine dei vertici aziendali.”
“Il conflitto raggiunse l’apice quando dentro gli ambienti confindustriali circolò un documento nel quale si chiedeva di boicottare i prodotti Olivetti. Incredibile ma vero. Ricordo che i nostri commerciali ebbero grandi difficoltà a causa di questa politica scriteriata. Sa come veniva definito Adriano Olivetti nei piani alti di Confindustria e della FIAT? ‘Il Rosso’. Sì, ha capito bene, il Rosso. Insomma, un comunista infiltrato nelle file dei padroni! Un’accusa assurda ma pesante, se si pensa al clima da guerra fredda dell’epoca. Tenga conto che Adriano Olivetti non ha mai avuto rapporti con i partiti di sinistra. Anzi, quando fondò il sindacato-comunità fu guardato con diffidenza dalla CGIL. Era un socialista liberale che voleva svecchiare il capitalismo italiano”.
“L’economia dei dati richiede una gestione olivettiana: qui rinasce l’esperienza di Ivrea”
Tornando sull’attualità dell’esperienza olivettiana, a me pensando a Ivrea e alle riflessioni su Adriano Olivetti è rimasto in testa un quesito: quell’esperienza fa parte di un passato irripetibile oppure può rinascere come nuova frontiera del nostro capitalismo?
“Come le dicevo, io credo che Adriano Olivetti abbia lasciato una grande eredità che oggi molte imprese cominciano a raccogliere. Oggi non si parlerebbe di sostenibilità e di welfare aziendale se non ci fosse stata l’esperienza di Ivrea. Un’eredità che a mio parere stanno raccogliendo molte imprese di media dimensione con un respiro internazionale.”
“Il primo erede di Olivetti fu Enrico Loccioni, marchigiano, figlio di agricoltori, fondatore di un gruppo hi-tech, premiato più volte per le condizioni di lavoro in fabbrica e per l’attenzione all’ambiente. Il vero imprenditore olivettiano è quello che riesce ad autofinanziarsi e a reinvestire i profitti in ricerca e formazione, e non magari in giganteschi yacht.”
“Ma a mio parere c’è una ragione più profonda che fa rinascere l’esperienza di Ivrea: oggi nell’economia dei dati non c’è più spazio per le organizzazioni gerarchiche fondate su una netta separazione tra lavoro manuale e intellettuale. Non c’è democrazia politica se non c’è condivisione dei dati. Non si tratta di ideologia, ma di realismo. Ecco perché le competenze umane sono decisive con l’avvento della tecnologia, ed ecco perché deve mutare anche il rapporto tra lavoro e vita, altrimenti verremmo divorati dalla tecnologia. Questo è il grande insegnamento in atto di Adriano Olivetti. La parola chiave per capire la sua filosofia è semplice: libertà”.
L’articolo prende spunto dal panel “Quello che abbiamo perso”, che puoi seguire cliccando qui.
Foto di copertina: Bruno Lamborghini a Nobìlita 2021 – Ivrea.
Credits: Domenico Grossi
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